MALATTIE PROFESSIONALI
Le malattie e gli infortuni professionali trovano la ragione della loro origine storica all'interno del nostro ordinamento, nell'esigenza di protezione del lavoratore dal rischio professionale.
Agli inizi dell'era industriale quest'ultimo concetto si è venuto affermando sul terreno della responsabilità civile, evidenziando i limiti del principio romanistico di imputazione per colpa dell'obbligo risarcitorio in ipotesi di danni subiti dal lavoratore nello svolgimento della propria attività professionale.
Il giudizio di responsabilità del datore di lavoro fondato esclusivamente sulla imputazione di una colpa per i danni cagionati ai propri dipendenti dall'attività lavorativa si mostrava, nel nuovo contesto caratterizzato dalla grande industria moderna, inadeguato; questo infatti, lasciava inesorabilmente scoperta (e a definitivo carico degli operai) la serie di eventi dannosi subiti nell'ambiente lavorativo e dovuti al caso fortuito o alla forza maggiore.
Così, mentre si faceva strada il concetto che l'imprenditore, una volta creata l'impresa, fosse inesorabilmente destinato a divenire, ipso facto et ipso iure, responsabile degli inforuni e di qualsiasi altro genere di danno subito dal lavoratore in ragione delle mansioni svolte, andava di pari passo annullandosi il concetto di responsabilità, finendo per trasfondersi in quello di assicurazione.
Da ciò la necessità di introdurre nel sistema della responsabilità civile una regola che codificasse come principio di giustizia sociale la soluzione offerta dal diritto pubblico dell'assicurazione obbligatoria.
E' in tale modo che lo Stato ha previsto interventi di assicurazione sociale delgando ad enti pubblici nazionali, dotati di personalità giuridica e gestione autonoma, il compito di erogare prestazioni economiche e riabilitative ai lavoratori vittime - a causa dell'attività lavorativa - di infortuni o malattie.
La Costituzione Italiana garantisce a tutti i cittadini il diritto alla salute sul luogo di lavoro. La tutela del lavoratore nel settore delle prestazioni assicurative sociali è regolamentata da norme, da pronunce della Corte Costituzionale e da consolidate interpretazioni giurisprudenziali. In particolare il D.P.R. 30.06.1965 n.1124 ("Testo unico sull'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro") e il D.Lsg. 23.02.2000 n.38 ("Disposizioni in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali") istituiscono e regolamentano la funzione dell'I.N.A.I.L. quale Ente deputato a gestire l'assicurazione obbligatoria contro gli infornuni sul lavoro e le malattie professionali.
Su queste basi normative poggia l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali il suo fondamento, dunque, risiede nella esigenza di coprire tutte le tipologie di rischio naturalmente correlate all'esercizio di una professione. Vale a dire:
a) infortuni, definibili come eventi accidentali con effetti lesivi a danno del lavoratore avvenuti per causa violenta in occasione del lavoro;
b) malattie, definibili come alterazioni delle condizioni di salute del lavoratore dovute all'azione nociva, lenta e protratta nel tempo di un lavoro, di particolari materiali o di fattori negativi presenti nell'ambiente in cui si svolge l'attività lavorativa.
Sia gli infortuni sul lavoro che le malattie professionali devono dipendere da una causa inerente all'attività lavorativa.
Il criterio differenziale tra infortuni e malattie è costituito da caratteri della causa: violenta per gli infortuni, lenta per le malattie professionali.
Causa violenta non vuol necessariamente dire traumatica o istantanea, essa si identifica, infatti, in un'azione rapida e concreta nel tempo che agisce dall'esterno in modo da recare danno all'organismo del lavoratore (Cass. 09.06.1994 n.5602).
Per fare qualche esempio, esistono infortuni causati dal calore del sole, dal crollo di una galleria che provoca la morte per asfissia degli operatori rimasti intrappolati, da uno sforzo muscolare improvviso, da un colpo di martello, dall'ingranaggio di una macchina, dall'esplosione di un ordigno, da uno shock dovuto al contatto con l'energia elettrica, dall'esposizione massiva e concentrata a sostanze radioattive, dall'ingestione di una sostanza venefica, dalla penetrazione di un agente patogeno all'interno del corpo umano, dalla rottura dell'equilibrio dell'organismo del lavoratore concentrata in una minima frazione temporale e provocante un infarto; e così via dicendo.
Negli esempi citati vi è un evento esterno, concentrato ed unitario che è causa dell'evento lesivo.
Nelle malattie professionali, invece, la cusa e/o le cause e concause sono diluite nel tempo, in maniera lenta e spesso subdola.
Esistono patologie derivate dal livello di rumorosità, da sbalzi climatici, da esposizione ad intemperie, dallo stress e da carichi di lavoro eccessivi, da uno stillicidio di comportamenti mobbizzanti, dall'interazione emotiva gerarchico-lavoratore o qualifica-mansionistica, dallo svuotamento di ruolo e di funzioni dirigenziali; in altri casi alcuni agenti patogeni di orgine chimica, derivati dall'inquinamento o da altre sostanze presenti in ambiente lavorativo (c.d. rischio ambientale), o di vis biologica microbica o virale, o sostanze che provocano radiazioni a bassa dose in maniera protratta nel tempo, possono provocare nel corso del tempo malattie degenerative e portare a danni oncologici in individui perfettamenti sani o già portatori di qualche preesistenza patologica connessa.
E' altresì da rilevare che per quanto riguarda le malattie la legge richiede un nesso con l'attività lavorativa più stringente che per gli infortuni: mentre per questi, come si è detto, è sufficiente una causa violenta in occasione del lavoro, per le malattie professionali è richiesto, invece, che esse siano contratte nell'esercizio e a causa del lavoro. Ovviamente, come conseguenza di quanto detto, è necessario che la malattia sia contratta durante la lavorazione, ben potendo la sua manifestazione avvenire anche dopo la cessazione dell'attività lavorativa nei termini temporali massimi di indennizzabilità di volta in volta indicati dalle norme.
Per le malattie ciò che rileva è il raggiungimento di una certa gravità nonchè la consapevolezza soggettiva del lavoratore, tanto da divenire giuridicamente rilevanti ai fini dell'esercizio del diritto e della relativa prescrizione.
A livello sistematico si devono distinguere, da tutte le altre, le malattie professionali c.d. "tabellate", che sono quelle contratte nell'esercizio ed a causa delle levorazioni specificate in apposite tabelle definite per legge dallo Stato (Più specificamente dal D.P.R. 336/94 e s.m.i., il quale prevede questo schema tabellare con l'indicazione delle lavorazioni e delle malattie professionali correlate).
Tale sistema c.d. "della lista", nel quale risulta cristalizzato il rischio assicurato, offre grandi vantaggi per il lavoratore, dal momento che per le malattie espressamente previste vige una presunzione assoluta di orgine professionale, con conseguente esonero di qualsiasi onere probatorio a carico del lavoratore circa l'eziologia della malattia lamentata. Diversamente, per quanto concerne le malattie professionali non tabellate l'onere probatorio si riespande ritornando a porsi a carico del lavoratore assicurato.
Si tratta quindi di un sistema di tutela misto, in cui, accanto agli aspetti presuntivi a beneficio del lavoratore, offerti dal "sistema della lista", opera la possibilità addizionale di provare l'eziologia delle malattie professionali "non tabellate", affrontando la dimostrazione giudiziale e per via medico legale della variabilità dei fattori che hanno cagionato la malattia.
Il problema delle cause nelle malattie professionali è, dunque, particolarmente complesso attesa la genesi spesso plurifattoriale di molte di esse e la focalizzazione della presunzione legale sulle sole "malattie tabellate"; e ciò vale a differenziare le regole generali applicabili agli infortuni professionali, da un lato, e alle malattie professionali, dall'altro.
Al di là delle differenze, esiste tuttavia un aggancio tra le discipline dei due istituti che è fornito dal principio giurisprudenziale della "equivalenza delle cause", secondo cui tanto nella materia degli "infortuni sul lavoro" quanto in quella delle "malattie professionali" trova applicazione la regola contenuta nell'art. 41 c.p., alla cui stregua va riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione degli eventi di danno.
Da simili eventi possono derivare: "inabilità temporanee" rilevanti, quali lesioni di diritti costituzionalmente garantiti e per questo ricadenti nell'ambito della responsabilità civile del datore di lavoro; "inabilità permanenti" al lavoro, qualora ne residui una definitiva alterazione dell'organismo comportante, a sua volta, una riduzione della capacità lavorativa, rilevante ai fini dell'indennizzo da parte dell'INAIL; la morte del lavoratore assicurato, rilevante ai fini della rendita ai superstiti sempre da parte dell'INAIL.
Nel nucleo dei valori sociali che, alla stregua della Costituzione, la garanzia previdenziale pubblica impone, si inseriscono le prestazioni INAIL; queste comprendono diverse tipologie di provvidenza economiche a seconda dell'evento denunciato e del danno che ne é stato conseguenza, ne possiamo individuare tre:
1) l'indennità per inabilità temporanea assoluta (durante tutto il periodo di astenzione dal lavoro per prognosi fino a guarigione), provvidenza che l'INAIL corrisponde direttamente al datore di lavoro nella misura atta a coprire l'obbligo retributivo;
2) l'indennizzo al lavoratore per la lesione all'integrità psicofisica o danno biologico;
3) la rendita ai familiari in caso di morte del lavortore.
Dopo la pronta denuncia di infortunio o malattia professioanle al datore di lavoro (che provvederà all'informativa dell'INAIL), ed in seguito alla guarigione clinica, viene disposto l'accertamento medico legale della menomazione permanente dell'integrità psicofisica che dà luogo all'indennizzo del danno da parte dell'ente assicuratore;essa deve essere riscontrata pari o superiore al grado del 6% (le quote inferiori ricadono, infatti, nella franchigia del risarcimento civilistico a carico del datore di lavoro quale danno c.d. complementare [v. più ampiamente infra]); mentre per danni permanenti superiori al grado del 16%, il lavoratore ha il diritto ad una rendita che copre, oltre al danno biologico, anche le conseguenze patromoniali della perdita della capacità lavorativa.
La menomazione deve comportare una inabilità permanente perchè quella temporanea è a carico del datore di lavoro (anche in questo caso si parla di danno complementare).
Il danno può essere, inoltre, oggetto di revisione in caso di modifiche sopravvenute allo stato di salute del lavoratore.
La quantificazione del danno è basata su un principio di standardizzazione dell'indennizzo previdenziale, che varia in relazione al parametro percentuale di danno biologico accertato in sede medico legale: esso aumenta con il crescere della gravità della menomazione, decresce con l'età e varia in ragione del sesso.
La quantificazione dell'indennizzo concerne il c.d. danno biologico, concetto introdotto dal D.Lgs 38/2000 che lo ha definito ed inteso come lesione dell'integrità psicofisica del soggetto: si badi che la nozione di danno biologico ontologicamente è unica sia in sede civile che previdenziale, mentre la valutazione (liquidazione) del danno biologico è differenziata ai diversi fini, rispettivamente risarcitori e indennitari, in ambito civile e previdenziale, essendo diversi i parametri tabellari civili e previdenziali.
Quelli civili, proprio perchè risarcitori, sono infatti parametri tabellari più vantaggiosi per il danneggiato che variano, sempre in sede medico legale, oltre che in ragione della gravità della lesione, dell'età e del sesso (come in sede previdenziale), anche per il principio della personalizzazione del risarcimento del danno civile che prevede un ristoro commisurato a tutta l'ampiezza dei riflessi pregiudizievoli (da provarsi in giudizio) nella concezione dinamica propria del danno alla salute (che ricomprende anche i profili esistenziali/dinamico-relazionali e morali del danno medesimo, precipuamente considerati in relazione alla specificità del soggetto danneggiato ed alla particolarità del suo vissuto) e suscettibili di valutazione equitativa.
L'accertamento amministrativo da parte dell'INAIL è caratterizzato dal dovere di ufficio dell'ente di ricercare la prova degli eventi di danno denunciati: l'assiuratore è tenuto, infatti, ad iniziare l'istruttoria sulla base della semplice denuncia, ricercando d'ufficio ogni elemento di fatto e/o di diritto necesario a garantire la legittimità del provvedimento finale, che può essere di accoglimento o di rigetto delle istanze del lavoratore.
In caso di rifiuto di corresponsione delle prestazioni o di disaccordo sulla loro quantificazione, è dato attivare un contenzioso amministrativo avverso l'ente previdenziale contro il quale il beneficiario, entro tre anni dal provvedimento di rigetto delle istanze, può presentare formale opposizione: ad essa deve far seguito una risposta (positiva o negativa) da parte dell'ente entro sessanta giorni. In assenza di risposta nei termini, come pure in caso di risposta negativa, può procedersi al deposito contro l'Istituto di un ricorso presso il giudice del lavoro competente; tale azione legale deve promuoversi nel termine di prescrizione triennale decorrente dal provvedimenti di diniego, o dallo scadere del sessantesimo giorno successivo alla presentazione del ricorso in opposizione in assenza di risposta.
In sede giudiziale si applicano i principi fondamentali del processo civile e, pertanto, vale il principio secondo cui il lavoratore assicurato che agisce in giudizio per il riconoscimento di una prestazione da infortunio sul lavoro o da malattia professionale deve provare i fatti che sono posti a base della domanda. Quindi nel nostro caso il lavoratore dovrà provare oltre alla lesione, anche la lavorazione svolta e l'esposizione al rischio e, quindi il nesso causale tra queste (con le attenuazioni di cui si è detto in caso di malattia professonale tabellata, per la quale sarà sufficiente la prova della sola esposizione al rischio).
Come si è detto all'inizio, la disciplina dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali si intreccia da sempre con quella della responsabilità civile, in quanto l'evento da esso protetto integra potenzialmente gli estremi non solo della fattispecie che dà luogo al diritto alla prestazione previdenziale, ma anche di quella da cui sorge il diritto al risarcimento del danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro.
Il sistema di tutela del lavoratore opera, quindi, secondo un modello bipolare che non esclude in ogni caso e con assolutezza la responsabilità di diritto comune del datore di lavoro.
L'operatività della protezione assicurativo-sociale viene meno allorché l'infortunio o la malattia professionale sia imputabile al datore di lavoro come fatto di reato perseguibile d'ufficio: non importa se sistono per amnistia, morte dell'imputato o prescrizione e se imputabile direttametne al datore di lavoro, ovvero ad un qualunque dipendente anche non preposto alla direzione o sorveglianza. (da rivedere e chiedere)
Il venir meno della protezione assicurativa è un concetto che, comunque, riguarda solo il datore di lavoro e non il lavoratore, in quanto l'INAIL, anche ricorrendo profili di responsabilità datoriale, è tenuto a pagare le indennità al lavoratore con il diritto di agire in regresso nei confronti del datore per il recupero di quanto pagato al lavoratore.
L'esonero della responsabilità civile del datore di lavoro opera, dunque, in caso di lesioni colpose (lievi, gravi e gravissime) che sono procedibili a querela di parte, fatta eccezione per le ipotesi colpose in cui lesioni gravi o gravissime siano state commesse con violazione di norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, relative all'igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale (in questo caso, infatti, torna la regola della procedibilità d'ufficio).
Le lesioni gravi o gravissime integranti gli estremi della malattia professionale rimangono dunque procedibili d'ufficio ed il datore di lavoro, in questo caso, non è coperto dalla garanzia assicurativa.
In caso di lesioni anche gravi o gravissime commesse per imprudenza, negligenza o imperizia di un compagno di lavoro, o in violazione di norme non ricondicibili all'obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 c. c. ( o in particolar modo al D.Lgs 626/94), opera viceversa la copertura assicurativa.
La girisprudenza è, infatti, assolutamente costante nell'accogliere una nozione di colpa civile e penale, giusta la quale la violazione dell'obbligo generale di sicurezza sancito dall'art. 2087 c.c. è sufficiente ai fini del riconoscimento della responsabilità penale e civile del datore di lavoro in caso di morte o lesioni personali del prestatore di lavoro e fa conseguentemente venire meno la copertura assicurativa.
La colpa del datore di lavoro ai fini del riconoscimento di tale responsabilità deve essere ovviamente dimostrata e accertata al di fuori di qualunque meccanismo presuntivo.
L'azione risarcitoria in sede civile non è vincolata e, dunque, è procedibile a prescindere dall'esrcizio e dalla conclusione dell'azione penale, sia quando sia stata pronunciata sentenza di non doversi procedere per morte dell'imputato, amnistia o prescrizione, sia quando la formale declaratoria di una delle predette cause estintive del reato sia mancata per essere le medesime intervenute prima dell'esercizio dell'azione penale, senza in questi casi che il giudizio civile debba venire sospeso sino all'esito del giudizio penale e senza che lo stesso sia pregiudicato da un'eentuale sentenza assolutoria.
Ciò coerentemente a ciò che avviene per l'INAIL cui è preclusa la costituzione di parte civile nel processo penale e la cui azione di regresso in sede civile nei confronti del datore di lavoro in colpa non è impedita da una sentenza di assoluzione in sede penale.
Al di fuori delle ipotesi di estinzione del reato opera invece la pregiudizialità (fatta eccezione per la sentenza di patteggiamento, che - comportando l'accettazione di una pena, non è sentenza di proscoglimento e dunque - non preclude al lavoratore di ottenere dal giudice civile un'accertamento della responsabilità civile da reato del datore).
La responsabilità datoriale rimane ferma anche per il conseguimento del danno differenziale, cioè per la parte che eccede le indennità complessivamente liquidate dall'INAIL per casi in cui operi la copertura assicurativa.
Il danno differenziale è quella componente del danno biologico che risulta dalla differenza tra il danno civile (che abbiamo detto essere per sua natura più ampio) ed il danno previdenziale.
Infine la responsabilità datoriale rimane ferma anche per il danno complementare, - cioè il danno biologico da inabilità temporanea (cioè il danno morale soggettivo derivante dalla lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti), quello da micropermanente non ascendente alla soglia minima del 6% ed il danno patrimoniale da perdita permanente della capacità lavorativa specifica inferiore al 16% -, che esula interamente della copertura assicurativa e rimane interamente a carico del datore di lavoro.
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