DANNO RIFLESSO O DA RIMBALZO
Per danni riflessi o da rimbalzo indichiamo quei danni conseguenti al fatto illecito altrui che vengono subiti da una persona diversa dalla vittima principale, ma in stretto rapporto con essa; una nuova ed emergente categoria di danno che merita tutta la nostra attenzione.
La nozione di questo tipo di danno comprende qualsiasi evento che, per i suoi negativi effetti sul complesso dei rapporti della persona interessata, è soggetto a ripercuotersi in modo consistente e tavolta appunto permanente sull'esistenza di questa e di altri. La morte o la grave menomazione di un familiare costituiscono un danno biologico di tipo psichico per i congiunti superstiti in quanto la loro sofferenza può degenerare in un trauma fisico o psichico anche permanente
Negli ultimi venti anni abbiamo assistito ad una progressiva evoluzione nella valutazione e quantificazione del danno alla persona; l'opera innovativa della giurisprudenza ha ampliato la tradizionale nozione codicistica di danno, attribuendo ai valori della vita e dell'integrità fisica una tutela giuridica ed un riconoscimento sotto il profilo della risarcibilità; la strada per il raggiungimento del riconoscimento di questo tipo di danno è tortuosa e presenta diversi ostacoli ma, grazie a numerose sentenze positive, oggi questi ostacoli possono essere ridimensionati.
Per quanto riguarda il profilo risarcitorio occorre sottolineare come questo possa riguardare anche le conseguenze dei fatti emozionali negativi, in quanto suscettibili di valutazione economica. Inoltre appare sempre più legittimo il risarcimento non solo ai prossimi congiunti, che compongono il nucleo familaire, ma anche a coloro che vivono (anche di fatto e more uxorio) con la persona che ha subito lesioni gravi.
Vale la pena indicare alcune tesi fondamentali:
- tesi risarcitoria: la funzione del risarcimento del danno morale subietto è analoga a quella del danno patrimoniale;
- tesi consolatoria-satisfattiva: la funzione del risarcimento del danno morale subiettivo è quella di attribuire alla vittima una somma di denaro che le consenta di ricreare opportunità e condizioni sostitutive a quelle perdute;
- tesi punitivo-afflittiva: sicuramente la più longeva in quanto in auge e prevalente già nel vigore del vecchio codice; la funzione del risarcimento del danno morale subietto è quella di punire l'autore dell'illecito, attesa la particolare gravità e riprovevolezza del suo comportamento;
- tesi compromissioria o mista (consolatoria-satisfattiva, punitivo-afflittiva): la funzione del risarcimento del danno morale o subietto è quella di attribuire alla vittima una somma di denaro al fine adi avvantaggiarla nel ricrearsi opportunità e condizioni sostituitve a quelle perdute, propria della tesi consolatoria-satisfattiva, e, contestualmente, di punire l'autore dell'illecito, attesa la particolare gravità e riprovevolezza del suo comportamento, porpria della tesi punitiva-afflittiva.
Dagli studi svolti emerge che per un corretto inquadramento del problema è necessario distinguere il caso in cui si verifichi la morte della vittima da quello in cui tale soggetto abbia subito delle lesioni più o meno gravi ma sia ancora in vita. L'importanza della distinzione sta nel fatto che sono i soggetti diversi a poter vantare diritti in conseguenza dell'evento lesivo.
Nel caso di morte saranno soggetti diversi dalla vittima principale ad agire in giudizio come gli eredi, creditori e più in generale chiunque ritenga di aver subito un danno in seguito alla morte del soggetto; in questo caso il risarcimento può essere avanzato iure proprio o iure hereditario.
Nel caso invece di lesioni della vittima il risarcimento può essere domandato sia dalla vittima princiaple che dai danneggiati di riflesso.
Nel caso di morte della vittima principale
Quando parliamo di risarcibilità iure proprio dei danni patrimoniali ci riferiamo al caso in cui, in seguito alla morte della vittima del fatto illecito, vi sono determinate persone che, pur non avendo subito in prima persona il danno, risentono di una serie di conseguenze pregiudizievoli. In questi casi l'uccisione dell'obbligato al mantenimento ex art. 433 c.c. lede le legittime aspettative dei familiari alla continuità delle attribuzioni patrimoniali ricevute in vita: si tratta del coniuge, dei figli, dei genitori, dei generi e nuore, del suocero o suocera, dei fratelli e sorelle. Lo status familiare non è però da solo sufficiente a far nascere un diritto al risarcimento, in quanto sarà onere del richiedente provare il danno patito, ovvero il beneficio che egli traeva dalla vittima. In alcuni casi si è riscontrata un'estensione della tutela anche in favore di parenti meno stretti quando essi siano stati privati di sovvenzioni economiche corrisposte dal defunto in modo durevole e costante. Infine troviamo il diritto al risarcimento del nascituro e, in alcuni casi, anche del convivente more uxorio. Altra categoria di danneggiati da rimbalzo, rientranti nella risarcibilità iure proprio, è quella delle persone con cui la vittima intratteneva rapporti di carattere strettamente economico.
Diversamente, quando affrontiamo la questione della risarcibilità iure hereditario dei danni patrimoniali, la tesi positiva prende in esame il profilo economico della persona, in quanto bene produttivo di valore, e rileva che, con l'uccisione del congiunto, l'asse ereditario viene a mancare del controvalore delle attitudini gestorie e lavorative della vittima di quest'ultimo, di cui gli eredi avrebbero potuto godere, in caso di morte naturale.
Anche per quanto concerne i danni non patrimoniali dobbiamo procedere alla distinzione della risarcibilità iure proprio e iure hereditario; vediamo meglio di cosa si tratta.
Nel caso di risarcibilità iure proprio dei danni patrimoniali riflessi, la giurisprudenza riconosce il diritto dei prossimi congiunti ad adire iure proprio per il danno non patrimoniale sofferto in seguito alla morte di un familiare, negando invece il risarcimento in caso di lesioni personali.
Per quanto concerne la questione della risarcibilità iure hereditario del danno non patrimoniale da uccisione sono state prospettate tre principali soluzioni:
1) l'uccisione della vittima farebbe sorgere istantaneamente il credito risarcitorio, che si trasmetterebbe iure hereditario agli aventi diritto in quanto la salute della persona è un bene tutelato dall'ordinamento e sarebbe illogico negare la tutela nel caso di danno supremo all'integrità psico-fisica di una persona;
2) negare la possibilità di risarcire iure hereditario il danno non patrimoniale da morte sulla base del carattere intrasmissibile del diritto al risarcimento di tale danno;
3) riconoscere la risarcibilità del danno nel caso trascorra un lasso di tempo apprezzabile tra l'evento lesivo e la morte; in questo periodo il diritto al risarcimento entra a far parte del patrimonio della vittima e può essere trasmesso agli eredi secondo le comuni regole della successione mortis causa.
Nel caso di lesioni
Il fatto illecito che causa lesioni personali può determinare un'ampia tipologia di danni, patrimoniali e non, alla vittima diretta e ai suoi familiari.
Nel caso di lesioni alla persona, alla voce danno patrimoniale si è soliti far corrispondere le spese mediche sostenute e future ed il credito eventualmente perduto durante la degenza; in caso di invalidità permanente e di riduzione della capacità produttiva, con gli effetti sulla perdita del reddito che si proiettano nel futuro, ci si affida solitamente al sistema delle tabelle di invalidità permanete in possesso dei vari tribunali.
E' da notarsi una progressiva, e tutt'ora in corso, apertura al riconoscimento del danno patrimoniale da parte dei danneggiati di riflesso; dobbiamo ricordare la decisione della Cassazione con cui è stato ritenuto risarcibile il danno patrimoniale subito da una donna in seguito alla riduzione dell'attività lavorativa per assistere il marito vittima di un fatto illecito; in questo caso la Corte, per motivare la sua decisione, ha fatto riferimento al criterio della regolarità causale, considerando pertanto risarcibili i danni che rientrano nelle conseguenze ordinarie del fatto secondo l'id quod plerunque accidit.
Ed ancora, menzioniamo un caso in cui il marito ha riportato lesioni gravissime e la moglie, per prestargli assisstenza, ha rinunciato al proprio lavoro; in questa circostanza, la Cassazione ha riconosciuto sia il risarcimento del danno morale che il danno da lucro cessante subito dalla stessa (Cass. 2.2.2011 n.1516); è infatti innegabile che nel caso in cui il componente di una famiglia riporti una grave invalidità, la vita dell'intero nucleo risulta pesantemente alterata per la necessità di prestare assistenza all'infortunato la cui condizione finisce per riflettersi anche sulla vita dei parenti conviventi ai quali diventa diventa opportuno, pertanto, riconoscere loro la legittimazione al risarcimento dei danni sia morali che patrimoniali.
Per quanto concerne la domanda dei danni non patrimoniali da parte della vittima, si fa riferimento ai danni morali risarcibili ex art. 2059 c.c. e al danno alla salute o danno biologico. Il danno morale subietto è interpretato come il turbamento psichico tandenzialmente transeunte, ed è risarcito in via equitativa dal giudice. Con l'indicazione di danno biologico si intende comprendere ogni violazione ingiusta dell'integrità psicofisica di una persona, a prescindere dalla perdita i riduazione di reddito, con riguardo alla totalità delle situazioni in cui la persona esplica se stessa nella propria vita.
Ed ancora, nel caso di domanda di risarcimento danni non patrimoniali da parte dei danneggiati di riflesso in caso di lesioni, nel passato gli era nerato la possibilità in quanto non era riconosciuto alcun titolo giuridico volto ad ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali, nonostante l'effettivo turbamento della loro sfera affettiva e spirituale.
Oggi alcune sentenze di merito hanno iniziato a riconoscere la possibilità di risarcire alcuni tipi di danno riflesso come il danno ai rapporti coniugali, il danno alla serenità familiare, il danno alla vita di relazione; in quest'ottica ricordiamo la pronuncia della terza sezione della Cassazione che, confermando la sentenza di merito, ha accordato il risarcimento dei danni morali ai genitori di un giovane che aveva person un occhio in un sinistro stradale.
Ricordiamo la sentenza del Tribunale di Venezia del 13.12.2044 con la quale il giudice ha condannato i convenuti al risarcimento del danno biologico, del danno patrimoniale e del danno esistenziale (qualificato come la sofferenza ricollegabile al dover essere a fianco del prorio congiunto in attesa che la malattia compisse il suo lento e inesorabile cammino); nel caso ora richiamato ci trovaimo di fronte alla richiesta di risarcimento danni, avanzata dagli eredi, perchè i medici, pur a fronte di una radiografia che evidenziava la presenza di cellule tumorali non avevano avvisato il paziente in modo da consentirgli il ricorso a cure tempestive che, come accertato con CTU, gli avrebbero sicuramente allungato la vita.
Infine tra i danni così detti rflessi possiamo anche indicare:
1) il danno da morte del genitore: La Corte fiorentina si è espressa (sent. 10.12.1994) affermando che il danno psichico del figlio minore, a differenza di qualsiasi altro congiunto, incluso il coniuge, possa essere presunto nella sua esistenza, essendo noto che l'improvvisa e violenta perdita di un genitore, per un figlio che si trovi in età evolutiva, costiuisca un evento traumatizzante capace di produrre effetti negativi sul modo di essere attuale e futuro nella vita.
2) il danno del concepito: una recente sentenza del Tribunale di Monza ha affermato che può sussistere una divaricazione temporale tra l'illecito e la conseguenza dannosa, e che non può negarsi che "il bambino che si trovi ad affrontare le fasi primigenie e più delicate della formazione della propria costituzione fisica, caratteriale ed affettiva deprivato illecitamente dell'essenziale figura paterna, subisca l'insorgere di uno stato anche acuto di sofferenza, con tutte le conseguenze negative sullo sviluppo della propria personalità psicologica e morale"; la Corte pone anche, in termini alquanto orginali e innovativi, rifacendosi ai più recenti studi della ginecologia, il problema dei riflessi negativi dell'evento luttuoso e delle conseguenti sofferenze psicofisiche della madre sulla vita intrauterina del feto. L'argomento viene essenzialmente usato come rafforzativo del diritto del nascituro alla liquidazione di un danno morale, ma si può intravvedere da ciò anche una possibile apertura verso il riconscimento di un vero e proprio danno permanente alla salute del nascituro, ovviamente condizionato anch'esso dall'accertamento medico-legale.
3) il danno da morte del minore: danno conseguente al decesso di un minore, in particoalre per i riflessi patrimoniali verso la famiglia superstite. Secondo la Suprema Corte l'aspettativa di contrubuzione future da parte dei figli costituisce la regola, l'id quod plerumque accidit, e può dare luogo al rinoscimento di danno risarcibile anche con ricorso a "presunzioni ricavabili dalla comune esprienza e del notorio". Per contro, una giurisprudenza di merito molto più attenta alle trasformazioni avvenute nella sociatà industriale (l'allungamento della vita media, la maggiore scolarizzazione, il ritadato avvio alla professione, lo smembramento della famiglia patriarcale), tende a riconoscere da un lato che l'eventuale erogazione di utilità economiche ai genitori per allevare ed educa i figli, e non di rado per sostenerli finanziariamente anche dopo la raggiunta emancipazione. Così come viene sottolineato che non vi può essere lucro cessante qualora le condizioni economiche della famiglia di orgine siano agiate, comunque non inferiori a quelle dei figli diventati autosufficienti. Per converso, viene giustamente in evidenza il rilievo che il figlio divenuto maggiorenne può fornire, e di regola fornisce, attività di carattere assistenziale che, oltre ad avere grande importanza morale, sono suscettibili di aprpezzamento economico. Il venir meno di tali attività dovrà essere compensato da maggiori esborsi, per cui è legittimo ritenere che anche la perdita dell'aspettativa di assistenza futura possa essere oggetto di risarcimento quantificabile in via equitativa. La consapevolezza che la famiglia, oltre che entità produttiva di redditi misurabili in moneta, vada soprattutto vista come ente produttore di servizi per gli altri componenti del nucleo stesso, deve essere ritenuta un significativo progesso socio culturale e merita considerazione anche nell'iter risarcitorio giudiziale ed extragiudiziale.
***
Riportiamo uno stralcio di un contributo del'avv. L. Modaffari dal titolo "Il risarcimento del danno da morte dei pressimi congiunti, del danno "da agonia" e del danno "catastrofico"
I danni c.d. "Riflessi". Innanzitutto, i c.d. "danni riflessi vengono definiti come quei danni patiti da persone, diverse dalla vittima dellillecito, ma legate a questo da particolari rapporti familiari, affettivit o anche economici. La particolarità di tali figure di danno si ravvisa nel non esaurirsi nella sfera patrimoniale del soggetto leso, bensì nel manifestarsi prevalentemente nella sfera intima e personale dello stesso. Tali fattispecie, pertanto, danno così luogo a notevoli problemi di definizione, classificazione e di applicabilità in concreto. Infatti, è in primo luogo necessario valutare se ed in quali termini siano configurabili ipotesi risarcitorie relative al danno indiretto appartenenti alla categoria dei c.d. "dannin riflessi" che non si esauriscono nell'ambito patrimoniale. Inoltre, èp necessario predeterminare in che misura e con rigurado a quali figure sia possibile un cumulo tra pretese risarcitorie iure proprio e iure successionis. Quest'ultima problematica assume aspetti particolarmente problematici con specifico riferimento a "nuove" figure di danno quali il danno da morte dei prossimi congiunti, il danno da agonia ed il danno catastrofico.
Il danno da morete del prossimo congiunto. L'orientamento tradizionale - Ciò premesso, ora è necessario soffermare la nostra attenzione sul danno da morte del prossimo congiunto e sui relativi profili risarcitori. Sul punto, negli ultimi anni si sono contrapposti orientamenti nettamente contrastanti, dove alla soluzione nettamente restrittiva e preclusiva della Cassazione tradizionale si opponevano le soluzioni sempre più aperte da parte dei giudici di merito. Infatti la Corte, per decenni, ha sempre escluso tale voce di danno dall'ambito del danno biologico, con conseguente esclusione della risarcibilità iure herediatis. Detto orientamento tradizionale e rigorso si basava in sostanza su di una sentenza della Corte Costituzionale del 1994. la quale, a sua volta, si "reggeva" sul seguente ordine di argomentazioni: - la salute e la vita consistono in beni diversi, pertanto non si può applicare alla seconda voce del danno biologico che è stata concepita solo ed esclusivamente per la prima; - il danno biologico, che è in sostanza una riduazione/diminuzione del bene salute, presuppone necessariamente il protrarsi della vita; - tale risarcimento ha ad oggetto una "perdita" continuata nel tempo e questa "perdita" deve essere provata nella sua rigorosa consistenza; - il risarcimento de quo, poichè avente carattere reintegrativo e riparatorio, viene riconosciuto solo nel caso in cui il decesso sia avvenuto dopo un apprezzabile lasso di tempo.
Pertanto solo sussistendo quest'ultimo requisito si poteva affermare l'esistenza del danno nella sfera giuridica della vittima, con conseguente possibilità del trasferimento del relativo diritto al risarcimento nella sfera dei familiari.
L'orientamento innovativo. D'altro canto, l'orientamento sopra esposto, a partire dalla fine degli anni '90, è stato sovente disatteso dai giudici di merito, essenzialmente per un duplice ordine di motivi: a) in primo luogo, veniva critica la contrapposizione tra il bene salute e il bene vita, in quanto la salute stessa è qualità indiscutibile della vita; b) in secondo luogo, il decesso, per quanto possa essere ravvicinato alla lesione, non può che essere considerato sia come causalità che dal punto di vista temporale, tre le conseguenze del fatto illecito.
Nonostante i Giudici di merito basavano su di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 5059 c.c., la Suprema Corte è rimasta a lungo ancorata al sopra esposto orientamento tradizionale. Infatti, sebbene la cassazione abbia riconosciuto il risarcimento del danno biologico c.d. "terminale", ha contestualmente imposto limitazioni operanti sia sulla sua 1) amminissibilità che sulla 2) liquidazione.
1) la sofferenza patita dalla vittima nel periodo tra la lesione e la morte è risarcibile a titolo di danno biologico solo ed esclusivamente se la vittima stesse sopravviva un apprezzabile lasso di tempo. Infatti, deve trascorrere un rilevante lasso di tempo affinchè si possa consolidare nella vittima stessa le conseguenze della lesione della sfera patrimoniale e non, perdendo così l'attitudine a vivere normalmente e riportando così un significativo danno psichico medicalmente accertabile. Il danno biologico, d'altro canto, non è risarcibile nel caso di decesso immediato, perchè non sorge nel patrimonio del de cuius alcun diritto al risarcimento del danno alla salute.
2) sulla liquidazione, il danno biologico "terminale" non può essere riferito alla aspettativa di vita biologica del danneggiato, bensì deve essere sia rapportato al grado di invalidità conseguente alla lesione sull'effettiva durata della vita.
Il danno c.d. "catastrofico". Nonostante questo orienatamento giurisprudenziale sia ancora oggi maggioritario, negli ultimi anni è da sottolineare una maggiore apertura al risarcimento danni da morte del prossimo congiunto, sia pure nelle forme del danno "catastrofico" e "da agonia". Il danno "catastrofico" è una figura elaborata dalla giurisprudenza, la quale in più pronunce ha ammesso la risarcibilità del danno in caso di morte "immediata", cioè quando sia intercorso un brevissimo periodo tra il sopraggiungere della lesione e il decesso. In tale eventualità, come detto sopra, la brevità del periodo di sopravvivenza dovrebbe escludere l'ammissibilità, per il risarcimento del danno biologico, della diminuzione della qualità della vita della vittima stessa. La predetta brevità della sopravvivenza, tuttavia, non impedisce l'ipotesi che la vittima abbia potuto percepire la gravità delle lesioni, e quindi patire l'inevitabile conseguente sofferenza sotto il profilo del danno morale. Pertanto, tale figura, ai fini della risarcibilità, viene ascritta al danno morale soggettivo, con la conseguenza che, una volta sopraggiunto il decesso, tale voce di danno deve ritenersi già entrata a far parte del patrimonio della vittima e pertanto risarcibile iure hereditatis (Cass. Civ. sent. 11601/2005).
Il c.d. danno "da agonia". Il danno "da agonia" può essere definito come il pregiudizio derivante dal protrarsi della consapevolezza di una lunga, lenta, ingiustificata agonia. Tale danno si differenza da quello biologico in quanto riguarda un ambitomolto più ampio rispetto alla salute psichica medicalmente accertabile e comprende pure tutte le conseguenze che derviano dalla consapevolezza di una sicura morte. Il danno de quo, poi, si distingue da quello morale, poichè non è soltanto riconducibile alla sofferenza legata in via diretta ed immediata al pregiudizio patito, ma riguarda un arco temporale certamente più ampio. Infine, il danno "da agonia" si distingue da quello esistenziale perchè non si traduce necessariamente ed esclusivamente nella perdita di situazioni di vantaggio, con conseguente peggioramento della qualità della vita.
La sentenza della Cassazione n.1570 del 2006 - Sul danno da morte (o tanatologico). Infine, a questo ambito privo sino ad ora di un orientamento dottrinale e giurisprudenziale univoco, è necessario aggiungere la sentenza della corte di Cassazione n.15760/2006, la quale ha cercato di uniformare gli orientamenti e le opinioni sopra espresse. In detta pronuncia, la Suprema Corte ha individuato tre voci che, nel cso di decesso della vittima, sono risarcibili ai suoi eredi. Tali figure sono il danno morale patito dal defunto, il danno biologico terminale (derivante solo esclusivamente da morte non immediata della vittima) ed il danno da morte (da intendersi come perdita dell'integrità e delle speranze di vita biologica, perdita che consegue alla lesione del bene inviolabile della vita). Quest'ultimo integra il danno detto anche "tanatologico". la cui autonomia e rilevanza si basa sul notizzimo principio costituazionale della inviolabilità del bene della vita. In forza di tale sentenza, la Cassazione mostra finalmente di accogliere il principio per cui il diritto al risarcimento del danno entra nel patrimonio della vittima prima della morte stessa. Tuttavia, nella sentenza in esame, la stessa Suprema Corte prende atto delle difficoltà di dimostrazione, quantificazione e liquidazione di tale figura di danno. Pertanto, auspicando un organico intervento normativo, stabilisce alcuni semplici criteri di applicazione. Innanzitutto la Corte auspica che la valutazione equitativa del danno de quo sia posta in essere tenendo conto della gravità e dell'intensità degli effetti cagionati dal danno ingiusto. In secondo luogo, si considera come criterio orientativo di liquidazione un sistema dove il "quantum" sia proporzionato alla età, alle condizioni soggettive ed all'aspettativa di vita della vittima. Infine, viene esclusa una applicazione autonomativa delle tabelle perchè il danno da morte riguarda la integrità morale del danneggiato e quindi un bene immateriale la cui lesione non può essere quantificata se non via equitativa.
***
Infine, riportiamo un contributo della Professoressa psicoterapeuta dott.ssa Lucia Bigozzi, dell'Università di Firenze, secondo cui possono essere ricondotti ai danni riflessi i seguenti argomenti:
Il ruolo dei genitori nello sviluppo. Il buon senso e le teorie psicologiche scientifiche sono perfettamente in sintonia sull'importanza da attribuire al ruolo della famiglia nello sviluppo del bambino, sia che queste teorie si ispirino al comportamentismo, alla psicologia oppure all'etologia. Secondo gli studi più autorevoli, anche di orientamento assai diverso, i membri della famiglia, ed in particolare i genitori, costituiscono insostituibile funzione di sostegno, autorità , modello (Bert,Bombi 1985). Nelle primissime fasi dello sviluppo gli adulti vicini al bambino sono erogatori di cibo (bisogno primario) e di stimolazioni soddisfacenti, con questi il piccolo istaura un legame privilegiato definito "relazione Oggettuale" dagli autori di impostazione psicoanalitica, "attaccamento" dagli autori dell'approccio etologico. Il rapporto emotivo specifico che si crea è funzionale alla maturazione cognitiva e sociale ed influisce sul ritmo e sulla qualità stessa dello sviluppo (Aussen et alii, 1995).
La figura materna costituisce per molti autori una presenza indispensabile per la salute del piccolo secondo la Mahler la costruzione da parte di ogni uomo della propria identità è determinata dallo svolgersi del processo di "individuazione-separazione"; all'inizio di questo percorso il bambino è una unità psicologicamente indifferenziata dalla propria madre, successivamente si distinguono due poli di una diade che funziona simbioticamente, dalla simbiosi l'individuo emerge grazie alla presenza della madre stessa che viene gradatamente vistacome figura a se stante e base sicura da cui svolgere le prorie esplorazioni nel mondo (Mahler et alii, 1978): l'autonomia non compare in opposizione alla dipendenza ma grazie alla "fiducia basilare" che nasce da soddisfacenti legami di attaccamento (Erikson, 1982). Ambedue i genitori sono importanti come figure di riferimento non svolgendo funzioni intercambiabili, ma avendo nei confronti dei figli ruoli complementari (Berti, Bombi, 1985).
La forma più matura dei legami affettivi istaurati nei primi anni di vita consente ai bambini di "funzionare bene" anche nei momenti in cui il genitore non è presente (scuola, amici, ecc..) purchè il comportamento del genitore sia accessibile e prevedibile (capisco perchè, non c'è e so quanto tornerà..) e purchè non sia in discussione l'esistenza stessa del rapporto (anche se ora non è qui so che c'è e mi ama); questa progressione, che dà luogo ad una dinamica affetiva avoluta e complessa, avviene lentamente ed è un processo estremamente delicato (Ibidem). La vicinanza, anche fisica, dei genitori viene continuamente ricercata dal bambino che, più grandicello, sperimenterà l'autonimia solo nella sicurezza data da questa presenza.
I genitori svolgono poi un importante ruolo fornendo ai figli un modello da imitare nel processo di tipizzazione sessuale. Secondo il modello psicoanalitico l'identificazione con il genitore del proprio sesso determina l'identità sessuale del soggetto e lo indirizza verso l'assunzione di ruoli, o come specifiche ed evolute, legate alle aspettative dei genitori (Ibidem). Secondo la delineazione freudiana dello sviluppo psicosessuale, la preseza dei due genitori è determinante nel corso dell'evoluzione dello stadio orale del genitale, caratterizzando in modo specifico ogni fase, compresa quella di latenza (dai cinque anni alla pubertà), contrassegnata dall'introiezione dell'autorità parentale e della conseguente formazione del super-io e quella genitale (dalla pubertà in poi), durante la quale ancora i due genitori sono necessari per consentire al ragazzo la rinuncia a scegliere come oggetto sessuale il genitore del proprio sesso e a favorire la scelta di un oggetto d'amore estraneo alla famiglia. Per il ragazzo sarà importante la presenza della madre per poter realizzare il processo di abbandono dei propri desideri nei suoi confronti e quella del padre per trovare con questo una riconciliazione o per relazione antagonistica o di sottomissione. La ragazza dovrà riconciliarsi con la madre della quale è gelosa ed invidiosa, ritrovando la mamma-nutrice dei primi tre anni vita, modello e sostegno nell'affrontaqre la vita femminile (Battacchi, Giovannelli, 1992).
Elaborazione del lutto e omprensione della morte del bambino. Prima dei sei, sette anni i sentimenti dominanti nei confronti dell'idea di morte sono costituiti dall'angoscia da separazione. Dopo i sette anni i bambini possono concettualmente pensare anche alla eventualità della propria morte e allora l'idea di morte potra con sè, angoscia di aggressione. La concenzione della morte diviene tanto più adeguata quanto il bambino cresce in età (Vianello, 1985). un neonato o un bambimo molto piccolo che perde una persona amata non è in grado di distinguere la morte da una indisponibilità della persona ad essere presente (Furmann, 1974) e la sua reazione non può essere altro che una lacerante angoscia da separazione. E' molto più facile che un bambino compranda la realtà della morte quanto si presenta associata a fatti esterni alla sua sfera affettiva stretta (insetti, piante, persone estranee) piuttosto che quando è associata alla perdita di una persona amata, nello stesso modo è meno difficile per un bambino che possiede già il concetto di morte, capire la morte della persona amata (Ibidem).
La crescita congitiva e quella affettiva, per il concetto di korte come pure per ogni altro aspetto nel corso dello sviluppo, procedono di pari passo: tanto più l'individuo è cognitivamente progredito, tanto più sarà in grado di gestire, sopportare, elaborare i propri sentimenti, le proprie emozioni e relaizoni affettive. Il fatto che il bambino con il progredire delle proprie conoscenze sul mondo si chiarisca anche il concetto di morte non significa certo che arrivi ad una intima comprensione della morte, del resto anche per un adulto, che sa cosa vuol dire "morire", la morte rimane di per sè un fatto misterioso nella sua essenza e di difficile accettazione (Vianello, 1985). Rimane infatti una separazione incomabile tra ciò che un individuo sa, ciò di cui è a conoscenza, e ciò che l'individuo vive, prova, sperimenta e allora conosce. Ciò accade per tanti aspetti della vita; ad esempio per le notizie riguardo alla procreazione, anche il bambino più informato al riguardo avrà solo un cumulo di nozioni sulla dinamica dell'atto sessuale, ma saprà ben poco di cosa significhi e quindi infondo di cosa sia un rapporto sessuale.
Indipendenetemente dal livello cognitivo nel quale il bambino si trova al momento in cui ciene a determinarsi la perdita della persona cara, il fatto indiscutibile è che a qualsiasi età i bambini provino dolore (Bowlby, 1982). Questo dolore rimane in qualche modo imprigionato nel piccolo che non riesce ad "elaborare" il lutto, non riesce cioè ad attuare una forma di reazione alla perdita, grazie alla quale il continuo, doloroso e prolungato ricordo dell'eesere amato finisce per allontanare la persona dall'oggetto d'amore (Ibidem).
Si può essere ingannati dal fatto che i bambini molto piccoli così come gli adolescenti non esternano in modo plateale il proprio sentimento e la propria disperazione, in genere le reazioni manifeste sono ridotte, c'è poco pianto, le attività quotidiane sembrano continuare. Non si devono interpretare questi, come segnali di superamento del dolore, il lutto potrà avere un esito positivo se la persona colpita darà libero sfogo alle proprie sensazioni, cosa che sembra particolarmente poco frequente nei bambini, i quali o non così piccoli da non comprendere la parola "morto" o negano il carattere definitivo della perdita e più o meno consapevolmente aspettano il ritorno della persona amata (Ibidem). L'attesa del ritorno rende sempre vivo il dolore e pone il bambino perennemente nello stato di uno che è appena stato abbandonato, il caso, cioè, non viene mai archiviato e la sofferenza rimane sempre presente snche se senza voce, come se il tempo non esistesse.
Il tutto non è agevolato dal fatto che quando muore un genitore è il genitore superstite che deve informare il figlio dell'accaduto (raramente questi è presente al momento della morte). L'informazione arriva sempre tardi ai figli e sempre in modo fuorviante, il che concorre nell'allontanare il bambino dall'avere reazioni adeguate e dal capire cosa sia successo. Ciò che raramente i figli capiscono e accettano è che il genitore non tornerà più e che il suo corpo è stato seppellito sotto terra o cremato. Difficilmente un genitore affranto dalla perdita del coniuge spiegherà queste cose ad un bambino, sia nella vana speranza di preservarlo da un dolore tanto forte, sia perchè si tratta di una realtà che anche per lui è inaccettabile. L'essere andato in cielo o spiegazioni analoghe, non costituiscono chiarificazioni,poichè il bambino aspetterà sempre che il genitore così come è andato, ritorni (Bowlby, 1983). Ciò che difficlmente gli adulti che circondano un bambino afflitto da un grave lutto capiscono è che è meglio avere un genitore morto, piuttosto che un genitore che se n'è andato abbandonando il figlio. Il bambino sarebbe quindi esposto ad un abbandono totale: un genitore perduto e l'altro lontano da lui, non "dice", nasconde qualcosa, tace su un fatto essenziale. Tutto ciò fa cadere sull'accaduto un velo di mistero o l'ombra di un misfatto, dando il via a fantasie penose che aleggiano tra il suicidio e l'omicidio impedendo di fatto al bambino di dividere la pena con il proprio unico genitore (Nunziante Cesaro A.Ferraro, 1992).
Non ci stupisce che una delle reazioni alla perdita di una persona cara sia la collera, vista come esito patologico da Freud e come punto distintivo di una comune prima reazione alla morte da Bowlby; collera diretta contro al persona che se n'è andata nell'inutile tentativo di farla tornare. Tale collera può sfociare anche in forte rimprovero e sentimenti di odio nel caso in cui la persona non sappia che è stata abbandonata involontariamente, ma creda che il genitore o il familiare caro se ne sia andato lontano lasciandolo solo, come accade appunto a chi non comprende o non accetta l'esistenza della morte. Rimane il problema dell'incapacità dei piccoli di esternare la collera come impulso di recupero e di accusa; queste sensazioni represse continuano ad esistere all'interno della personalità e finiscono per influenzare il comportamento in modo anomalo e distorto, dando orgine a disturbi del carattere e nevrosi.
Ancora una ragione che concorre nel rendere difficile un esito positivo del lutto per un bambino è data dalla scarsa padronanza di sè, che un minore possiede. Egli, molto più di un adulto, è in balia di chi gli sta intorno e ha poche possibilità di tenere sottocontrollo i fatti della sua vita (Bowlby, 1983). L'adulto, ad esempio, disponendo del proprio tempo e della propria vita può organizzarsi rivolgendosi ad amici e intensificando gli altri legami affettivi, cercando di svolgere una vita sociale più attiva, cosa che un bambino non può fare di sua iniziativa, così come non può scegliere con chi stare e con chi dividere il suo dolore che, come abbiamo già detto, spesso non viene diviso, ma pesa interamente su di lui.
Conseguenze della rottura traumatica dei legami affettivi. La scomparsa improvvisa di un genitore arreca al bambino due gravi danni: lo espone contemporaneamente ad un trauma di straordinaria intensità ed alle cirrcostanze che ne conseguono, come la disorganizzazione della famiglia e la mancanza dell'influenza del genitore. Ambedue questi aspetti sono gravidi di conseguenze negative per lo sviluppo (brown, 1975).
"Ogni esperienza dolorosa dell'individuo può diventare un trauma psichico, specialmente se è connessa ad un cambiamento permanente dell'ambiente" (dizionario di psicologia, 1986). Alcune situazioni traumatiche danneggiano l'Io in modo coì permanente che la situazione traumatica viene ripetuta nella vita da svegli e nei sogni. Possiamo definire traumatiche tutte le vicende che disturbano il delicato processo di costruzione del sè, come nel caso di separazioni precoci, ad esempio la morte di un genitore (Nunziante Cesaro A., ferraro N., 1992). Quanto siamo in presenza di un trauma oggettivo ed innegabile, quale appunto la morte improvvisa di una persona amata in età evolutiva, la valutazione dei sicuri effetti richiede una esplorazione attenta delle dinamiche intrapsichice attive al momento nel quale si è verificato l'evento traumatico. Accanto ad aspetti macroscopici, immediatamente evidenti, si intravede una rete sottile ed intricata di fantasie silenti che prendono il via dal trauma stesso e ne acuisono la spirale (Ibidem).
Negli ultimi venti anni sono state accumulate molte prove riguardo alla relaizone causale tra disturbi psichici e perdita delle cure materne nei primi anni di vita (Bowlby, 1969).
Ren, Spitz (1977), ha studiato le reaizoni di 34 bambini isolati dalla madre e affidati ad una figura sostitutiva non soddisfacente dopo il sento mese. Il quadro clinico era il seguete: - primo mese: bambini piagnucolosi, esigenti, reclamanti; - secondo mese: dal pianto al grido, perdita di peso, sviluppo interrotto; - terzo mese: rifiuto di prendere contatto, posizione supina sul lettino, insonnia, rigidità del volto, ritado motorio; - dopo il terzo mese: rigidità di espressione accentuata, cessa il pianto, letargo. I bambini se restituiti alla madre prima del quinto mese di semparazione riprendono quota in modo sorprendente.
La morte improvvisa della madre nei primi tre anni di vita del bambino, interrompe bruscamente il processo di separazione-individuazione di cui abbiamo già parlato, impedendo al bambino di realizzazione quella che la Mahler definisce "nascita psicologica". Essendo il bambino ancora una nomade indifferenziata dalla propria madre, la scomparsa di questa diviene una morte psichica del sè, la perdita dell'altro equivale ad una perdita delle proprie parti vitali. Tale vicenda appare traumatica non solo perchè improvvisa ma prima di tutto perchè si svolge nell'ambito di una relazione primaria, il che rende intollerabile e costringe a difese patologiche ed antievolutive (Nunziante Cesaro A, Ferraro F., 1992). La perdita della madre nel periodo che va dalla nascita ai sei anni costituisce un vero e proprio "evento patogeno" (Bowlby, 1982).
Sono stati compiuti anche studi sulla carenza di cure paterne e su come queste cure influiscano sull'accettazione degli estranei, sulla disponibilità all'apertura verso il mondo esterno alla famiglia, sullo sviluppo linguistico, sull'attività ludica, sullo sviluppopsicomotorio (Biller 1974). E' stato documentato da Blanchard e Biller (1971) l'esistenza di un rapporto tra deprivazione paterna precoce, livello intellettivo e rendimento scolastico. L'assenza di un polo di riferimenti costiuisce evidentemente un ostacolo anche nell'esplicarsi delle vicende identificatorie. La dinamica edipica collassata dalla presenza di due attori, anzichè tre, risulta inevitabilmente compromessa (Nunziante Cesaro, Ferraro, 1992).
La teoria psicoanalitica dell'identificazione è centrata sia per il maschio che per la femmina intorno al periodo edipico; Freud attribuisce grande importanza alla figura paterna soprattutto da tale momento in poi; i teorici dell'apprendimento hanno invece considerato l'importanza del padre per lo sviluppo del ruolo sessuale a partire dal primo anno di vita (Guaraldi, Ruggerini, 1985).
I figli maschi deprivati del padre sono generalmente più dipendenti e tendono ad avere un orientamento poco maschile, i modelli sostitutivi offerti da fratelli o altri parenti maschi non hanno effetto sull'orientamento sessuale, quanto più precocemente si istaura la privazione, tanto più gravi saranno i danni per l'acquisizione del ruolo sessuale; tutti gli aspetti della vita di relazione eterosessuale sono compromessi dal non avere sperimentato una figura paterna adeguata e se la figura materna è iperdominante è probabile che insorgano problemi di insufficienza sessuale od omossessualità. (Ibidem). Non raramente il soggetto maschio, se figlio unico, viene investito del ruolo fantasmatico di sostituto del morto, complicando ulteriormente le intricate esperienze di identificazione (Nunziante Cesaro, Ferraro, 1992). Ancora è stata determinata una correlazione tra fiducia in sè, autostima, controllo degli impulsi, sviluppo morale, comportamento sociale e carenza precoce di cure paterne (Ibidem).
La perdita del padre nelle femmine comporta una incapacità ad impostare relazioni eterosessuali soddisfacenti ed anche per le femmine l'acquisizone del ruolo femminile è più danneggiata quanto più precocemente avviene la scomparsa paterna (Ibidem).
Pur con diversa impostazione teorica e pur dando importanza diversa alle diverse età in cui l'evento luttuoso (non solo riguardante i genitori) si manifesta, Freud (1978), Bowlby (1982), concordano nel confermare l'ipotesi secondo cui i processi di lutto verificatisi nei primi anni tendono ad avere un' evoluzione patologica predisponendo l'individuo colpito a rezioni analoghe nel caso di perdite successive. Freud (1971) sostiene che una sindrome psichiatrica (angoscia, depressione, isteria) deve essere messa in relazione con perdite precedenti e deve essere vista come risultato di un lutto con esito patologico. Chi sia stato colpitoda una grave perdita nell'infanzia può avere difficoltà ad istaurare altri importanti relazioni d'affetto per il timore di dovere poi subire di nuovo il dolore della separazione (Bowlby 1982-1983; Nunziante Cesaro, Ferraro, 1992). Chi, avendo perso una persona cara nell'infanzia, da adulto presenta disturbi psichiatrici ha maggiori probabilità rispetto ad altre persone di esprimere desideri suicidi, di presentare stati di attaccamento ansioso e sviluppare stati depressivi (Bowlby 1983).
Riportiamo anche alcuni dati statici che confermano i dati ricavati dalla esperienza clinica visti fin'ora.
In uno studio del 1960 è stato dimostrato che nei pazienti psichiatrici la perdita della madre risulta tre volte più fequente che nei gruppi di controllo. In un altro studio è stato rilevato che la morte di un genitore prima del quindicesimo anno di età è presente in percentuale doppia nei casi di depressione, rispetto all'incidenza dell'evento nella popolazione in generale. Esiste, come anche altri studi confermano, una correlaizone significativa tra morte di un genitore durante l'infanzia o l'adolescenza e la malattia depressiva (Brown 1973). Il 40,5% di 546 carcerate considerate in uno studio di Brown ha perduto uno o entrambi i genitori prima del 20' anno. La morte di entrambi i genitori sia nell'infanzia che nell'adoloscenza è massicciamente prsente sia sei casi di delinquenza che di prostituzione, soprattutto per la disgregazione del nucleo familiare che segue la scomparsa dei genitori (Brown).
La perdita di entrambi i genitori costituisce un gravissimo danno per lo sviluppo morale; Spitz (1977) ha studiato l'andamento di alcuni bambini, privi di padre e madre dal terzo mese affidati alle cure di orfanotrofi di buonissimo livello, ma nei quali una sola donna si occupava di più infanti (circa 10). I bambini attraversano le fasi già descritte sopra con maggior rapidità, a due anni questi bambini presentavano un livello evolutivo da idiota, a quattro anni alcuni di loro non riuscivano a parlare, a camminare, ad alzarsi in piedi. Il 37% dei bambini seguiti è morto prima del secondo anno. I risultati di Spitz sono conformi ai risultati di altri autorevoli studi (Robertson, 1958).
L'impossibilità di instaurare relazioni oggettuali e l'ospitalisimo arrestano lo sviluppo in ogni settore della personalità (Ibidem).
Nei bambini istituzionalizzati si ha una carenza di figure genitoriali che corrisponde ad una generalizzata carenza di stimoli tnato più grave quanto più precoce, che può facilmente portare a psicoterapia affettiva: contatti sociali superficiali, inaccessibilità, rifiuto di essere aiutati, indifferenza, evasività, poca concentrazione a scuola. E' stato documentato il rapporto tra sistuaizoni di istituzionalizzazione e quadri clinici depressivi. Inoltre si è evidenziato un ipoevolutismo somatico, caratterizzato da ritardo nella maturazione scheletrica e sessuale (Guaraldi, Ruggerini, 1985).
Per concludere possiamo affermare che il danno arrecato allo sviluppo normale della perdita di una persona cara nell'infanzia e nell'adoloscenza è dovuto in gran parte alla incapacità di elaborare il lutto prima dell'età adulta. Abbiamo evidenziato come la figura paterna e materna siano funzionali allo sviluppo normale del bambino in modi e misure diverse e come una carenza di tali funzioni sia tanto più grave quanto più precoce.
Nel caso in cui una separazione sia definitiva (morte dei genitori) "emerge in primo piano una rabbiosa richiesta di risarcimento che, sorta sul terreno di una originaria inaffidabilità della relazione primaria, si acuisce e mette alla prova, con veemenza, successive relazioni proprio quando esse sono in grado di sorvegliare i vissuti dolori del non incontro e dell'esser lasciati cadere" (ferraro F. 1992, p.78).
|
|
|
|
|
|


