Cass. pen. Sez. VI, 02.07.2008, n. 26571



Sentenza

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE ROBERTO Giovanni - Presidente
Dott. GRAMENDOLA Francesco P. - Consigliere
Dott. CONTI Giovanni - Consigliere
Dott. CARCANO Domenico - Consigliere
Dott. FIDELBO Giorgio - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
V.T.;
avverso la sentenza 29 gennaio 2008 della Corte di appello di Milano;
Visti gli atti, la sentenza denunciata ed il ricorso;
Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Presidente Dr. De Roberto;
Udite le conclusioni del Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. Cedrangolo Oscar, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Udito il difensore dell'imputato, avvocato Marradi Giovanni.
Svolgimento del processo - motivi della decisione

1. Con sentenza 29 gennaio 2008 la Corte di appello di Milano confermava la decisione 23 marzo 2008 del locale Tribunale che, dopo aver prosciolto V.T. dai reati di maltrattamenti in famiglia protrattosi nel periodo della convivenza familiare nonchè di violenza sessuale, ne aveva affermato la penale responsabilità in ordine ai reati di cui all'art. 572 c.p. ("perchè, dopo l'intervenuta cessazione della convivenza a seguito della separazione personale, mantenendo le parti i necessari contatti per la regolamentazione delle visite del figlio minore F., affidato alla madre mediante sistematici atto di molestia quali il pedinamento della parte lesa per tutto il territorio nazionale, mediante atti - finalizzati a convincere la donna a tornare insieme, di percosse, di ingiuria e di minaccia - maltrattava la moglie separata L.I. A., fatti commessi fino al (OMISSIS)) e art. 582 c.p. (per avere procurato alla L.I. ed al suo convivente P. C. lesioni personali, fatto commesso il (OMISSIS)).
Precisava la Corte territoriale che non sussisteva alcuna contraddizione tra l'assoluzione per i fatti di maltrattamenti risalenti al periodo di convivenza familiare e la condanna per i fatti successivi, derivando la diversa soluzione adottata non dalla inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa ma dal ridimensionamento dell'intero contesto familiare nel periodo di convivenza, mentre emergeva nitida la condotta nel periodo successivo, concretizzatasi in una "vera e propria lesione dell'autodeterminazione della donna al rapporto sessuale, avuto riguardo al labile distinguo tra passiva e rassegnata sottomissione alla brutalità dell'amplesso maritale e la condotta oggetto dell'incolpazione".
Circa l'elemento soggettivo del delitto di maltrattamenti, argomentava il giudice a quo che la sua chiara presenza emerge dalla volontaria sottoposizione della L.I. ad atti di vessazione continua ed abituale - quali le continue telefonate, le ingiurie, le minacce, il determinare la persona offesa a fuggire da un capo all'altro della penisola per sottrarsi alle vessazioni del marito così da impedirle ogni possibilità di incontro - tanto da rappresentare la prova più evidente della intenzione di rendere quanto più disagiata la vita della L.I., un' operazione culminata con la consumazione del delitto di lesioni il (OMISSIS).
2. Ricorre per Cassazione il V. articolando sei ordini di motivi.
In primo luogo, mancanza e manifesta illogicità della motivazione per avere il giudice a quo fondato l'affermazione di responsabilità esclusivamente sulle dichiarazioni interessate della persona offesa, pur ritenuta inattendibile con riferimento ai maltrattamenti posti in essere durante la convivenza nonchè ai fatti di violenza sessuale e contraddetta dai testimoni indicati, non soltanto dall'imputato, ma anche dal pubblico ministero e dalla stessa parte civile; il tutto adottando una motivazione contrastante rispetto alle argomentazioni della sentenza di primo grado.
In secondo luogo, manifesta illogicità della motivazione per travisamento della, prova proprio alla luce delle deposizioni testimoniali che hanno smentito l'attendibilità della persona offesa; travisamento derivante dall'argomento secondo cui l'assoluzione del V. in ordine alle altre imputazioni e "derivata a un inesistente ridimensionamento delle dichiarazioni della parte offesa, quando, invece, è causata, dalle deposizioni in contrasto con altri testi".
Con un terzo motivo deduce mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento al delitto di maltrattamenti, risultando che gli spostamenti non erano determinati dalla condotta del ricorrente ma dalla circostanza che la L.I. sia in (OMISSIS) sia in (OMISSIS) conviveva con P.C..
Ancora, violazione dell'art. 572 c.p. perchè dalla sentenza di primo grado e dalla sentenza di appello emerge esclusivamente una situazione di conflittualità fra i coniugi, derivante, dopo la separazione, dall'esercizio del diritto di visita del figlio minore.
Si deduce, sempre sotto il profilo della violazione dell'art. 572 c.p., che non è configurabile il delitto di maltrattamenti in assenza del necessario requisito della convivenza.
Lamenta, poi, mancanza e manifesta illogicità della motivazione relativamente alla condanna per il delitto di lesioni personali, intervenuta nonostante il ricorrente avesse agito per legittima difesa.
Domanda, infine, l'annullamento delle statuizioni civili.
Il ricorso è inammissibile.
3. Appare necessario premettere che il giudice a quo, rigorosamente verificando anche il contenuto delle argomentazioni assolutorie della sentenza di primo grado, non ha correttamente ravvisato alcun elemento che possa far ritenere inattendibili (recte, non credibili) le dichiarazioni della persona offesa, mandando assolto l'imputato solo perchè i comportamenti minacciosi e violenti del ricorrente si inserivano in un contesto coniugale in cui i litigi erano frequenti, in un clima di tensione cui non erano estranei anche i genitori della L.I.; così concludendo nel senso dell'assoluzione perchè il quadro probatorio, pur non essendo astrattamente incompatibile con le affermazioni della parte offesa, che ben potrebbe essere stata vittima delle descritte vessazioni senza manifestare all'esterno segnali di disagio, manca di quei riscontri necessari stante la conflittualità esistente tra i coniugi. Il che vale a dissolvere ogni possibilità di scrutinare anche il secondo motivo.
In ogni caso, e qui si penetra, anche nell'esame del terzo e del quarto motivo, la metodologia seguita dal ricorrente in tema di valutazione delle dichiarazioni accusatorie tende non correttamente, a far convergere la "credibilità", che deve contrassegnare la testimonianza, nella "attendibilità", che deve contrassegnare le dichiarazioni dei soggetti coimputati o imputati in reato connesso o collegato, rispetto alle quali la necessaria presenza dei riscontri costituisce un dato insostituibile. L'espressione "credibilità" ricorre, infatti, per il solo testimone, nell'art. 194 c.p., comma 2 (in base al quale l'esame del testimone può estendersi anche ai rapporti di parentela o di interesse che intercorrono tra il testimone e le parti o gli altri testimoni nonchè alle circostanze il cui accertamento è necessario per valutarne la "credibilità"), nell'art. 236 c.p., comma 2 (in base al quale le sentenze irrevocabili e i certificati del casellario giudiziale possono essere acquisiti ai fini di valutare la "credibilità" del testimone) e, quel che più importa, nell'art. 500 c.p., comma 2 (che, per il testimone esaminato in dibattimento, prescrive che le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni possono essere valutate dal giudice per stabilire la "credibilità" della persona esaminata).
Entrambi i criteri (quello della attendibilità e quello della credibilità) si affidano ad una verifica ispirata, per così dire, ad un dover essere che si esprime nelle disposizioni che disciplinano la valutazione della prova (con inevitabili riverberi sul sindacato sulla motivazione, a norma dell'art. 606 c.p.p., lettera e), l'unico criterio rilevante nell'opera di controllo in sede di legittimità della verifica compiuta dal giudice di merito). In ogni caso, dal precetto dell'art. 192 c.p.p., nel suo integrale contesto precettivo, si ricava, per un verso, l'(astratta) inaffidabilità delle persone indicate nell'art. 192 c.p.p., comma 3, ed in altre disposizioni extravagantes, proprio perchè le loro dichiarazioni sul fatto altrui devono essere valutate insieme agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità; per un altro verso, l'(astratta) affidabilità del testimone (la cui deposizione assume - è bene rimarcarlo - se falsa o reticente, un' autonoma valenza penale), comprovata dalla credibilità in via generale riconosciuta alla sua deposizione, condizionata, peraltro, alle modalità di assunzione della prova; così da assegnare minor valore dimostrativo alle dichiarazioni rese fuori del dibattimento, sulla base di una regola processuale che, accentuando il profilo concernente il modello di acquisizione, risulta informata alla necessità di seguire tracciati interpretativi di prevalente ordine logico (si pensi al precetto dell'art. 500 c.p.p., comma 3).
E' qui, peraltro, sufficiente precisare come con tale quadro si armonizzi la prescrizione dell'art. 500 c.p.p., comma 4, stando al quale quando a seguito di contestazione all'esame testimoniale sussiste difformità rispetto al contenuto della deposizione, le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni sono acquisite nel fascicolo per il dibattimento e sono valutate come prova dei fatti in esse affermati se sussistono altri elementi di prova che ne confermano l'"attendibilità". Una regola, peraltro, dettata (secondo un modello informato ad una sorta di sincretismo verificatorio) dall'esigenza di privilegiare la prova precedentemente assunta se sia di contenuto diverso da quella acquisita in dibattimento, ma informata al principio della non affidabilità della deposizione, assoggettata al medesimo regime della dichiarazione dell'imputato in reato connesso o interprobatoriamente collegato e, quindi, attendibile solo se riscontrata. Così, ancora una volta, da istituire uno stretto ma forse dogmaticamente non ineccepibile - collegamento tra modalità acquisitive e valutazione della prova. La verifica, pure se ancorata all'immanenza dimostrativa del dato già acquisito, non può non restare incondizionatamente subordinata alle modalità di assunzione; tanto che nell'ipotesi prevista nell'art. 500 c.p.p., comma 4, il criterio valutativo finisce per variare secondo il modus dell'assunzione, trasformando la deposizione del testimone definita, in generale, "credibile" soltanto "attendibile", se e semprechè supportata da elementi di conferma.
Il tutto, ancora una volta, per segnalare la diversità delle regole di giudizio riguardanti il testimone, da un lato, ed i soggetti indicati dall'art. 210 c.p.p., dall'altro lato, pur dopo la sentenza costituzionale n. 361 del 1998 e le successive "novellazioni" normative.
In consonanza con le regole di giudizio adesso rammentate e quasi a corollario di esse, può, dunque, qui ribadirsi che le dichiarazioni di un testimone (anche se si tratti della persona offesa), per essere positivamente valutate dal giudice, devono risultare credibili, oltre che avere ad oggetto fatti di diretta cognizione e specificamente indicati; con la conseguenza che, contrariamente ad altre fonti di conoscenza, come le dichiarazioni rese da coimputati o da imputati in reati connessi, non abbisognano di riscontri esterni, il ricorso eventuale ai quali è funzionale soltanto al vaglio di credibilità del testimone (Sez. 6, 24 febbraio 1997, Orsini). Un principio riaffermato allorchè si è precisato che, in tema di testimonianza della persona offesa, lo scrutinio del giudice di merito deve essere più accurato e approfondito, ma solo ai fini della credibilità oggettiva e soggettiva (Sez. 1, 17 dicembre 1998, Kovacs; nonchè Sez. 6, 26 settembre, Cali).
Ai principi sopra enunciati risulta essersi conformata la sentenza impugnata, descrivendo minutamente (proprio sulla base delle deposizioni della persona offesa, ma anche - è necessario soggiungere - in presenza di un testimoniale integrativo, definibile in termini di significativa "conferma") il contegno costantemente diretto a ledere la personalità fisica e morale della L.I., tenuta dal ricorrente.
4. Relativamente alla dedotta violazione della legge penale, va rammentato che nella nozione di "maltrattamenti" rientrano i fatti lesivi della integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo, che rendano abitualmente dolorose le relazioni familiari, e manifestantisi mediante le sofferenze morali che determinano uno stato di avvilimento o con atti o parole che offendono il decoro e la dignità della persona, ovvero con violenze capaci di produrre sensazioni dolorose ancorchè tali da non lasciare traccia (Sez. 6, 16 ottobre 1990, Mengo; Sez. 6, 22 dicembre 1992, Sortini). Non è necessario, quindi, per la configurabilità del in esame un comportamento vessatorio continuo ed ininterrotto (Sez. 6, 6 novembre 1991, Faranda), perchè il reato è caratterizzato da un' unità significante costituito da una condotta abituale che si estrinseca con più atti, delittuosi o no, che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi ma collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un'unica intenzione criminosa di ledere l'integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo, cioè, in sintesi, di infliggere abitualmente tali sofferenze; ad integrare l'abitualità della condotta non è necessario che la stessa venga posta in essere in un tempo prolungato, essendo sufficiente la ripetizione degli atti vessatori, come sopra caratterizzati ed "unificati", anche se per un limitato periodo di tempo (Sez. 5, 9 gennaio 1992, Giay). Pur sottolineando che il lasso di tempo, ancorchè limitato, è tuttavia utile alla realizzazione della ripetizione di atti vessatori idonea a determinare la sofferenza fisica o morale continuativa della parte offesa (Sez. 6, 9 dicembre 1992, Gelati); anche se - pare opportuno rimarcarlo - uno degli indici obiettivi è rappresentato proprio dalla seriazione di atti che contrassegna, di norma l'abitualità.
Per la configurabilità del reato non à richiesta una totale soggezione della vittima all'autore in quanto la norma, nel reprimere l'abituale attentato alla dignità e al decoro della persona, tutela la normale tollerabilità della convivenza (Sez. 6, 4 marzo 1996, Gazzetto). Tanto che nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce e le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali, senza che assuma rilievo il fatto che gli atti lesivi si siano alternati con periodi di normalità e che siano stati, a volte, cagionati da motivi contingenti, poichè, data la natura abituale del delitto l'intervallo di tempo tra una serie e l'altra di episodi lesivi non fa venir meno l'esistenza dell'illecito (Sez. 6, 7 giugno 1996, Vitiello) . Si è parlato anche di atti di sopraffazione sistematica tali da rendere particolarmente dolorosa la stessa convivenza;
l'elemento psichico, poi si concretizza in modo unitario ed uniforme che deve evidenziare nell'agente una grave intenzione di avvilire e sopraffare la vittima e deve ricondurre ad unità i veri episodi di aggressione alla sfera morale e materiale di quest'ultima, pur non rilevando, data la natura abituale del reato, che durante il lasso di tempo considerato siano riscontrabili nella condotta dell'agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo (Sez. 6, 26 giugno 1996, Lombardo; Sez. 6, 1 febbraio 1999, Valente).
L'oggetto giuridico non è costituito, dunque, solo dall'interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla difesa dell'incolumità fisica e psichica delle persone indicate nell'art. 572 c.p., interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari; tuttavia, deve escludersi che la compromissione del bene protetto si verifichi in presenza di semplici fatti che ledono ovvero mettono in pericolo l'incolumità personale, la libertà o l'onore di una persona della famiglia, essendo necessario, per la configurabilità del reato, che tali fatti siano la componente di una più ampia ed unitaria condotta abituale, idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile (Sez. 6, 27 maggio 2003, Caruso; Sez. 6, 4 dicembre 2003, Camiscia).
Il fatto che con il verbo "maltrattare" il legislatore abbia utilizzato un espressione polidesignante (comprensiva sia della condotta tipica sia dell'elemento soggettivo del reato) non esime il Collegio dal prendere in esame i profili più strettamente legati all'elemento psicologico.
Sul punto la giurisprudenza è costante nel senso che per la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 572 c.p. non è necessario che l'agente abbia perseguito particolari finalità nè il pravo proposito di infliggere alla vittima sofferenze fisiche o morali senza plausibile motivo, essendo invece sufficiente il dolo generico cioè la coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo a tali sofferenze in modo continuo ed abituale (Sez. 6, 3 luglio 1990, Soru); non è, quindi, richiesto un comportamento vessatorio continuo ed ininterrotto; essendo l'elemento unificatore dei singoli episodi costituito da un dolo unitario, e pressochè programmatico, che abbraccia e fonde le diverse azioni;
esso consiste nell'inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatrice che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va via via realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte (Sez. 6, 6 novembre 1991, Faranda); esso è, perciò costituito da una condotta abituale che si estrinseca con più atti, delittuosi o no, che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi ma collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento dall'unica intenzione criminosa di ledere l'integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo, cioè, in sintesi, di infliggere abitualmente tali sofferenze (Sez. 5, 9 gennaio 1992, Giay) . Si è insistito, più in particolare, sull'unitarietà del dolo, in modo da non confonderlo con la coscienza e volontà di ciascun frammento della condotta, tanto da negare che l'elemento psicologico debba scaturire da uno specifico programma criminoso rigorosamente finalizzato alla realizzazione del risultato effettivamente raggiunto (l'espressine "quasi programmatica" viene perciò intesa obiter); vale a dire, non occorre che debba essere fin dall'inizio presente una rappresentazione della serie degli episodi; quel che la legge impone, infatti, è che sussista la coscienza e volontà di commettere una serie di fatti lesivi della integrità fisica e della libertà o del decoro della persona offesa in modo abituale. Un intento, dunque, riferibile alla continuità del complesso e perfettamente compatibile con la struttura abituale del reato, attestata ad un comportamento che solo progressivamente è in grado di realizzare il risultato; la conseguenza è che il momento soggettivo che travalica le singole parti della condotta e che esprime il dolo del delitto di maltrattamenti può ben realizzarsi in modo graduale, venendo esso a costituire il dato unificatore di ciascuna delle componenti oggettive (Sez. 6, 17 ottobre 1994, Fiorillo; Sez. 6, 14 luglio 2003, Miola;
Sez. 6, 11 dicembre 2003, Bonsignore). La valutazione di tale componente soggettiva di difficile connotazione esterna, è rimessa necessariamente al prudente apprezzamento del giudice di merito il quale però, proprio per tale ragione, deve fornire del suo convincimento una motivazione priva di vizi logici e ancorata a dati di fatto che costituiscano chiara manifestazione della intima volizione dell'imputato (Sez. 5, 8 febbraio 1995, Santoro).
Il movente, a sua volta, non esclude il dolo, alla cui nozione è estraneo, ma lo evidenzia, rivelando la comunanza del nesso psicologico fra i ripetuti e numerosi atti lesivi (Sez. 6, 2 febbraio 1996, Tosi; Sez. 6, 22 febbraio 1994, Pirozzi). O, ancora, che il reato di cui all'art. 572 c.p. consiste nella sottoposizione dei familiari ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita; i singoli episodi, che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta l'esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo (Sez. 6, 4 dicembre 2003, Camiscia).
Anche se non pare inopportuno rilevare che (come ha osservato la parte più attenta della giurisprudenza di questa Corte, sulla base della silloge sopra riportata) il reato appare contrassegnato, di norma, da una progressione anche psicologica che prende sempre più maggiore consistenza fino a tradursi nell'intenzione di maltrattare.
Non necessariamente, dunque, un programma ab inizio ma la consapevolezza, nella memoria della lesione della personalità del soggetto passivo che, man mano si realizza la volontà di realizzarla; fermo restando che l'unità dell'elemento soggettivo è da intendersi, meglio, come entità che trascende i singoli atti ciascuno dei quali può anche non integrare un' ipotesi di reato;
così usando alla lettera l'espressione "maltrattare". 5. Resta ora da esaminare - attenendo le ulteriori censure a questioni direttamente incidenti nel meritum causae, come tali non scrutinabili in questa sede - il motivo con il quale il V. ha dedotto violazione della legge penale per non essere configurabile il delitto di maltrattamenti in assenza del rapporto di convivenza tra i coniugi.
La doglianza è manifestamente infondata.
La giurisprudenza di questa Corte è, infatti, costante nel senso che il reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile, quanto al rapporto tra coniugi, anche in caso di separazione e di conseguente cessazione della convivenza, purchè la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della fattispecie (Sez. 6, 22 settembre 2003, Micheli; Sez. 6, 12 ottobre 2000, Tourabi), restando integri anche in tal caso i doveri di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale e di solidarietà che nascono dal rapporto coniugale o dal rapporto di filiazione (Sez. 6, 1 febbraio 2000, Valente); tanto più quando - come è avvenuto nel caso di specie - l'attività persecutoria si valga proprio o comunque incida su quei vincoli che pongono la parte offesa in posizione psicologica subordinata (Sez. 6, 7 ottobre 1996, De Bustis; Sez. 6, 19 ottobre 1987 Cancellieri).
5. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che si ritiene equo determinare in Euro mille.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 27 giugno 2008

Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2008