Cass. pen. Sez. II, 23-11-2005, n. 42



Sentenza

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RIZZO Aldo - Presidente
Dott. SIRENA Pietro - Consigliere
Dott. PODO Carla - Consigliere
Dott. TAVASSI Marina Anna - Consigliere
Dott. DAVIGO Piercamillo - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
A. S., nato il 14/12/1969;
avverso la sentenza della Corte di Appello di Catania, Sezione Prima Penale, in data 02/02/2005;
Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal consigliere Dr. Piercamillo Davigo;
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, Dott. Luigi Ciampoli, il quale ha concluso chiedendo che il ricorso si rigettato;
Osserva:
Svolgimento del processo - motivi della decisione

Con sentenza del 30/06/2004, il Tribunale di Catania in composizione monocratica, dichiarò A. S. colpevole del delitto continuato di cui all'art. 81 c.p., art. 61 c.p.p., n. 11, art. 629 c.p. e - concesse le attenuanti generiche - lo ha condannato alla pena di anni 3 mesi 4 di reclusione ed E. 346,67 di multa, pena accessoria, oltre al pagamento delle spese processuali.
Avverso la sentenza l'imputato propose appello e la Corte di Appello di Napoli, con sentenza del 21/01/2005, confermò la sentenza di primo grado.
I giudici di merito hanno ritenuto che l'imputato, con minaccia, avrebbe costretto i genitori a versargli quotidianamente lo somma di E. 50,00.
Ricorre per Cassazione l'imputato deducendo la carenza di motivazione ed erronea applicazione di legge, in quanto:
- dalle risultanze processuali non emergerebbero ipotesi di violenza, mentre quelle di minaccia sarebbero state un generico riferimento a fare cose bruttissime, il cui significato è stato indicato dalle persone offese nel danneggiamento dei mobili di casa; un episodio di percosse in danno della madre è vicenda risalente ed avulsa dal contesto; la minaccia di uccidere lo zio che viveva a Roma non sarebbe stata idonea ad incutere timore - mancherebbe l'ingiustizia del profitto, posto che l'imputato si sarebbe limitato ad esigere le somme derivanti dalla sua pensione d'invalidità in quanto sordomuto;
l'esborso di 40 o 50 Euro al giorno indicato in denunzia sarebbe inverosimile, in quanto sproporzionato rispetto al reddito familiare;
sul punto il giudice di appello si sarebbe limitato a richiamare la sentenza di primo grado, pur essendovi specifiche censure;
- non sarebbe stato espletato alcun accertamento sulla capacità di intendere e di volere dell'imputato in ragione del sordomutismo, sull'assunto che tale incapacità è stata esclusa dai genitori ed in altri giudizi;
- il fatto avrebbe dovuto essere qualificato quale esercizio arbitrario delle proprie ragioni, giacchè l'imputato esigeva la somme della propria pensione; in ogni caso l'imputato avrebbe agito nella soggettiva convinzione di esercitare un proprio diritto;
- il fatto non sarebbe comunque punibile ai sensi dell'art. 649 c.p., comma 3, in quanto non caratterizzato da violenza alle persone.
Il primo motivo è inammissibile, ai sensi dell'articolo 606 c.p.p., comma 3. Il ricorrente, infatti, attraverso la pretestuosa deduzione di un'asserita carenza di motivazione della sentenza impugnata, tenta di ottenere una rivalutazione delle prove, che si risolverebbe in un sostanziale nuovo giudizio sul fatto; e tale giudizio, per costante giurisprudenza di questa Corte, è sottratto, come tutte le valutazioni di merito, al sindacato di legittimità della Cassazione.
Il giudice di primo grado ha indicato, sulla scorta delle deposizioni di A. A. (madre dell'imputato) e di A. R. (sorella dell'imputato), che costui aveva creato impossibili condizioni di vita agli anziani ed indifesi genitori (la madre malata ed il padre su una sedia a rotelle) con ricatti e continui maltrattamenti.
Il precedente episodio di violenza fisica sulla madre è stato ritenuto idoneo a rendere credibile la minaccia di uccidere lo zio a coltellate. Il giudice d'appello ha richiamato e fatto proprie le considerazioni della sentenza di primo grado. Tale motivazione non è carente.
Il secondo motivo, secondo il quale mancherebbe l'ingiustizia del profitto, posto che l'imputato si sarebbe limitato ad esigere le somme derivanti dalla sua pensione d'invalidità in quanto sordomuto è infondato.
E' vero che l'esborso di 40 o 50 Euro al giorno indicato in denunzia è sproporzionato al reddito familiare, ma dalla sentenza di primo grado risulta che la madre dell'imputato ha dichiarato che era costretta a chiedere prestiti ai vicini per soddisfare le richieste del figlio.
Quanto al fatto che, sul punto, il giudice di appello si è limitato a richiamare la sentenza di primo grado, pur essendovi specifiche censure nei motivi di gravame, va ricordato che, secondo l'orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, "in tema di motivazione della sentenza di appello, è consentita quella "per relationem", con riferimento alla pronuncia di primo grado, nel caso in cui le censure formulate a carico della sentenza del primo giudice non contengano elementi di novità rispetto a quelli già esaminati e disattesi dallo stesso: il giudice del gravame non è infatti tenuto a riesaminare una questione formulata genericamente nei motivi di appello che sia stata già risolta dal giudice di primo grado con argomentazioni corrette ed immuni da vizi logici" (Cass. Sez. 6^ sent. 31080 del 14/06/2004 dep. 15/07/2004 rv. 229229).
Nei motivi di appello nessuna osservazione fu rivolta alla indicazione della sentenza di primo grado circa il ricorso della madre dell'imputato ai prestiti, sicchè la doglianza era generica.
Il terzo motivo (relativo al mancato espletamento di un accertamento sulla capacità di intendere e di volere dell'imputato in ragione del sordomutismo) è infondato.
Secondo l'orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, "l'art. 96 c.p. non ravvisa nel sordomutismo uno stato necessariamente psicopatologico, ma richiede soltanto che nel sordomuto tanto la capacità quanto l'incapacità formi oggetto di specifico accertamento, da compiersi, cioè, caso per caso. Il che sta a significare che il sordomutismo non costituisce una vera e propria malattia della mente, valendo soltanto eventualmente ad impedire o ad ostacolare lo stato di sviluppo della psiche e, dunque, la maturità psichica. E' sufficiente, pertanto che dalla decisione risulti che il detto accertamento sia stato compiuto e che il giudice abbia congruamente motivato sul punto" (Cass. Sez. sent. 8817 del 03/07/1996 dep. 30/09/1996 rv 205911).
Il giudice di primo grado ha compiuto tale accertamento, dando atto in sentenza che l'imputato è apparso perfettamente sano di mente e che il suo esame dibattimentale era stato lucido e preciso.
Solo per fugare ogni dubbio residuo ventilato nei motivi di gravame, il giudice d'appello ha rilevato che, in altri procedimenti, era stata ritenuta la capacità di intendere e di volere e che la stessa mai era parsa sussistere ai familiari.
Il quarto motivo è infondato perchè già il giudice di primo grado aveva affermato che le somme pretese dall'imputato superavano l'ammontare della sua pensione.
Il quinto motivo è manifestamente infondato.
E' vero che questa Corte, Sez. 2^ penale, con sentenza n. 20110 del 05/04/2002 dep. il 22/5/2002, (rv 221854 e 221855) ha chiarito che, ai sensi dell'art. 649 c.p.p., comma 3, i reati contro il patrimonio esclusi dall'applicazione dell'esimente sono soltanto quelli commessi con violenza, intesa come fisica, con esclusione della minaccia.
Tuttavia la stessa sentenza ha chiarito che "il primo comma dell'art. 649 c.p. prevede una causa di non punibilità per i rapporti familiari più stretti (coniuge non legalmente separato, ascendenti, discendenti... fratelli o sorelle conviventi); il secondo comma prevede una condizione di non procedibilità (ovvero di procedibilità a querela della persona offesa) per legami più attenuati (coniuge legalmente separato, fratelli o sorelle non conviventi...). Il terzo comma, infine, individua le cause di esclusione dell'applicazione dei principi generali sanciti nei due precedenti commi. Tali cause sono relative a due categorie di delitti, che diventano, quindi, comunque punibili: 1) i delitti preveduti dagli artt. 628, 629, 630 c.p.; 2) ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone".
Pertanto l'esclusione dall'applicazione della causa di non punibilità riguarda ogni delitto contro il patrimonio, che sia commesso con violenza alle persone (e non con minaccia), nonchè i delitti consumati preveduti dagli artt. 628, 629, 630 c.p., a prescindere dal fatto che siano commessi con violenza o con minaccia.
Poichè nel caso di specie si procede per il delitto di estorsione consumata la causa di non punibilità non è applicabile.
Il ricorso deve pertanto essere respinto.
Ai sensi dell'art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso, l'imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 9 novembre 2005.

Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2005