Cass. pen. Sez. III, 20.01.2004, n. 984



Sentenza

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sezione III Penale

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Giuseppe SAVIGNANO - Presidente
Dott. Aldo RIZZO - Consigliere
Dott. Guido DE MAIO - Consigliere
Dott. Vincenzo TARDINO - Consigliere
Dott. Francesco NOVARESE - Consigliere

ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
M.A., n. ad Avellino il 17 agosto 1946;
avverso la sentenza della Corte di Appello di Napoli del 27 settembre 2002;
visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso;
Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. F. Novarese;
Udito il Pubblico Ministero in persona del Dott. Meloni V. che ha concluso per: rigetto del ricorso.
Udito il difensore avv. Fuschillo Erasmo (Saviano).

Svolgimento del processo

M.A. ha proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Napoli, emessa in data 27 settembre 2002, con la quale veniva condannato per i delitti continuati di violenza carnale e sessuale nei confronti della sorella affetta da insufficienza mentale di grado lieve e di maltrattamenti in famiglia nei confronti della medesima ed anche della madre e del reato di lesioni personali volontarie aggravate in danno di quest'ultima, deducendo quali motivi:
a) la violazione dell'art. 453 c.p.p., primo e secondo comma in relazione all'art. 178 c.p.p., lett. c), poiché era stato disposto il giudizio immediato in relazione anche al delitto di cui all'art. 572 c.p. senza che l'indagato fosse stato interrogato su detto fatto, in quanto l'ordinanza applicativa della misura cautelare personale era stata emanata solo per il delitto di violenza sessuale, sicché non poteva ritenersi effettuata detta contestazione e si imponeva la restituzione degli atti al P.M. per effettuarla in maniera completa e procedere con il rito ordinario, poiché la stessa era indispensabile per la procedibilità di ufficio di quello previsto dall'art. 609-bis c.p.;
b) l'inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 500 c.p.p., quarto comma anche in riferimento all'art. 26 L. n. 63 del 2001, poiché non sussistevano gli altri elementi di prova atti a confermare l'attendibilità delle testi, P.A.M. e M.A., madre e nonna dell'imputato, e della parte offesa;
c) la violazione dell'art. 499 c.p.p., secondo comma in relazione all'art. 191 c.p.p., giacché non era stata valutata l'inutilizzabilità della deposizione della parte offesa effettuata al P.M., poiché le dichiarazioni erano state rese in base a domande suggestive;
d) la carenza ed illogicità manifesta della motivazione, giacché la sentenza impugnata non spiega in maniera logica oppure è carente in ordine all'inquinamento della deposizione ed alla suggestionabilità della parte offesa, in quanto, con riferimento al primo, in maniera incongrua, asserisce l'inesistenza di indicazioni da parte dell'impugnante nonostante nell'atto di appello si faccia rilevare come il giorno precedente alla dichiarazione della parte offesa altri avessero già individuato nel fratello l'autore delle violenze e la donna-poliziotto avesse dettato il contenuto di un biglietto, in cui era scritto che la vita della parte offesa sarebbe bella se non ci fosse il fratello, mentre l'estrema suggestionabilità della giovane riguarda la "ritrattazione", giustificata in maniera incongrua con l'induzione ad essa da parte dei congiunti, dinanzi a plurime versioni fornite a persone diverse sulle modalità dei fatti e soprattutto sull'indicazione del colpevole;
e) l'omessa valutazione delle deposizioni di suor C.M.R. e delle assistenti sociali (C. e R.);
f) la violazione ed erronea applicazione dell'art. 572 c.p., perché le attività contestate non configuravano il delitto, in quanto erano assorbite nel reato di violenza sessuale, non sussisteva il dolo e neppure l'abitualità della condotta, tipica della fattispecie criminosa contestata.

Motivi della decisione

I motivi addotti non sono fondati, sicché il ricorso deve essere rigettato con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Ed invero con riferimento alla violazione processuale dell'art. 453 c.p.p., potendo questa Corte prendere visione degli atti, giacché è stato dedotto uno specifico vizio processuale, sarà sufficiente notare che nell'interrogatorio reso in sede di applicazione della misura cautelare personale all'indagato sono stati contestati tutti i fatti compresi i delitti di maltrattamenti e lesioni personali volontarie aggravate, e che nell'ordinanza cautelare è esplicitamente riportata tutta l'imputazione del delitto previsto dall'art. 572 c.p., sicché detta nullità, secondo giurisprudenza costante (Cass. sez. 3° 17 gennaio 2000 n. 3868, P.M. in proc. F. rv. 215355), non sussiste.
La pretesa inosservanza dell'art. 500 c.p.p., quarto comma, poi, non è configurabile, in quanto sono plurimi gli elementi di prova, con i quali possono essere riscontrate le dichiarazioni delle testi, P.A.M. e M.A., dalle deposizioni e dichiarazioni della parte offesa, ritenuta attendibile e credibile con motivazione ineccepibile, al referto medico ospedaliero, attestante le lesioni patite, perché l'imputato aveva spaccato il manico di una scopa sul capo della madre, dalle stesse ammissioni del ricorrente alle dichiarazioni "de relato" di C.A., la cui attendibilità e credibilità, sul punto, non può essere messa in discussione, perché suffragata da altri riscontri, secondo cui fu proprio la madre della ragazza a dirle che lei e la figlia venivano picchiate dall'imputato, figlio e fratello.
Pertanto, sebbene siano sufficienti elementi di prova, che suffraghino le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni ai testi, affinché le stesse assumano il valore di prova, nella fattispecie, vi sono addirittura prove anche documentali e numerosi riscontri estrinseci (cfr. Cass. sez. 6° 24 aprile 2003 n. 19523, Pometti ed altri rv. 225254 fra le più recenti ed in termini Cass. sez. 2° 29 aprile 1994 n. 4853, Balzaretti rv. 197780).
Peraltro, come è noto, differente è sul piano processuale l'utilizzabilità di dette dichiarazioni dalla loro valutazione, sicché è insignificante l'affermazione del ricorrente circa una pretesa non rispondenza a verità delle dichiarazioni rese dalle testi, ritenuta dal Tribunale, fra l'altro insussistente contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, poiché è relativa ad un aspetto marginale cioè se il comportamento vessatorio del ricorrente fosse ricollegabile alla sua scarsa voglia di lavorare ed all'abuso di sostanze alcoliche come, poi, riconosciuto dalla Corte partenopea, ovvero solo alla volontà di assoggettare e minacciare il nucleo familiare per poter violentare la sorella senza opposizioni, come ritenuto dal Tribunale ed anche dal giudice di appello, giacché le due giustificazioni non si escludono fra loro e possono logicamente concorrere. Per quanto attiene all'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla parte offesa al P.M. in sede di indagini preliminari in quanto rese con la proposizione di domande suggestive, non rileva l'omessa deduzione in appello di detto motivo, asserito avanzato dal ricorrente, giacché, essendo stata prospettata un'inutilizzabilità, la stessa è rilevabile in ogni stato e grado del giudizio.
Tuttavia, sarebbe sufficiente rilevare che un'attenta pronuncia di questa Corte (Cass. sez. 2° 21 maggio 1993 n. 1868, Ciampà ed altri rv. 194716) ha notato come la disciplina dell'art. 499 c.p.p. riguardi il dibattimento e non le indagini preliminari, in quanto il P.M. non escute testi, ma sente persone informate sui fatti per ritenere infondata detta deduzione.
Peraltro, poiché un'isolata e datata decisione (Cass. sez. 1° 18 marzo 1992, Daniele rv. 189657) ha affermato che, in tema di esame di testimoni, la formulazione di domande suggestive in violazione del divieto di cui al terzo comma dell'art. 499 c.p.p. rende inutilizzabili le deposizioni testimoniali appare opportuno soffermarsi.
Tuttavia la citata pronuncia non è per nulla condivisibile per una serie di ragioni e non si attaglia neppure alla fattispecie in esame.
Ed invero, la predetta sentenza, oltre ad utilizzare il termine "nullità" invece di "inutilizzabilità", omette di considerare la problematica circa la parziale o totale inutilizzabilità della deposizione cioè se l'applicazione di detto istituto, nella fattispecie, involga le singole domande oppure tutta la prova, il che appare, però, del tutto in contrasto con la stessa dizione dell'art. 499 c.p.p., terzo comma, e non valuta la rilevanza del capitolato di prova, dell'intervento del Presidente e dei poteri di quest'ultimo, sicché la stessa è affrettata e poco attenta alla trattazione della tematica.
Inoltre, a parte dette considerazioni generali, deve rilevarsi che uniforme giurisprudenza di questa Corte in tema di inutilizzabilità distingue tra prove vietate e quelle assunte irregolarmente, applicando l'istituto in parola solo nel primo caso (Cass. sez. 6° 19 marzo 1998 n. 3460, Magro rv. 210089) senza che una tale distinzione contrasti con il dettato dell'art. 526 c.p.p., perché concerne le prove legittimamente acquisite e non assunte irregolarmente per le quali vige il regime delle nullità, ove previste.
Pertanto potrebbe osservarsi che si tratta di una regola per la sua assunzione, alla cui osservanza dovrebbero sovrintendere in dibattimento i poteri attribuiti al Presidente dal sesto comma dell'art. 499 c.p.p., per considerare inapplicabile l'istituto, tanto più che la predetta disciplina è pensata con espresso riferimento al dibattimento e non si applica nell'ipotesi del controesame. Deve, poi, ponderarsi che non è configurabile un'inutilizzabilità derivata (cfr. Cass. sez. 2° 25 giugno 1996 n. 6360, Agostino ed altri rv. 205373), sicché non solo quella relativa ad una domanda non si comunicherebbe a tutta la deposizione ma anche non farebbe venir meno l'impianto motivazionale della sentenza impugnata, perché si regge su plurime e differenti valutazioni.
Peraltro, anche a voler ritenere applicabile l'istituto dell'inutilizzabilità, il che non è per i motivi già svolti, si tratterebbe di quella "relativa", stabilita dalla legge con riferimento alla fase dibattimentale (Cass. sez. un. 30 giugno 2000 n. 16, Tammaro rv. 216246).
Infine, con valore assorbente, la pregevole decisione di primo grado già afferma di aver depurato l'intera dichiarazione resa al P.M. da quegli elementi di suggestività incautamente introdotti dallo stesso (pagg. 32 e 33) ed entrambe le pronunce criticano dette modalità e, secondo quanto è esatto, giacché si tratta di un'irregolarità che si riverbera sul vizio motivazionale, ma non sull'istituto dell'inutilizzabilità, con ineccepibili argomentazioni fanno emergere da dette dichiarazioni solo le parti che possono essere ritenute "non inquinate" perché suffragate da riscontri, deduzioni logiche, precedenti dichiarazioni, anche se la modalità di assunzione, seppure "incauta", non può ritenersi illegittima, ma solo contraria ad alcuni canoni della moderna scienza della psicologia infantile. Chiaramente inammissibile, poiché concerne differenti valutazioni delle risultanze processuali, vagliate in maniera logica e congrua da entrambi i giudici di merito, accertamenti fattuali e riproduzione di atti è la censura relativa ai vizi motivazionali sull'attendibilità e credibilità della parte offesa.
A tal riguardo, per evitare ridondanze di trattazione, sarà sufficiente richiamare la costante giurisprudenza di questa Corte sui limiti dei poteri di accertamento della stessa, sull'impossibilità di dedurre il c.d. travisamento del fatto (Cass. sez. un. 16 dicembre 1999 n. 24, Spina rv. 214794, Cass. sez. un. 23 giugno 2000 n. 12, Janaki rv. 216260 e Cass. sez. 3° 11 gennaio 1999 n. 215, Forlani rv. 212091 al cui lungo iter motivazionale si rinvia), sui criteri cui occorre attenersi per vagliare l'attendibilità e la credibilità della parte offesa, che non necessita neppure di riscontri oggettivi, nella fattispecie, indicati e plurimi (Cass. sez. 3° 17 marzo 1997 n. 2540, Ricci rv. 207642 cui adde Cass. sez. 3° 15 ottobre 1999 n. 11826, Ascani rv. 215247), sulle caratteristiche e sulla valutazione delle deposizioni dei minori, vittime di violenza sessuale (Cass. sez. 3° 3 ottobre 1997 n. 8962, Ruggeri rv. 208447) ed in particolare qualora siano affetti da deficienza psichica (Cass. sez. 3° 30 luglio 1999 n. 9734, Mattu rv. 214374), per affermare l'assoluta infondatezza della censura, giacché i giudici di merito, le cui motivazioni possono integrarsi, giacché si fondano sullo stesso percorso argomentativo, hanno puntualmente seguito questi principi.
Perciò appare soltanto opportuno riassumere tutte le plurime considerazioni: dalla condizione ambientale certamente disagiata del nucleo familiare dei M. e dal loro livello culturale tale da giustificare prima la copertura della violenza sessuale intrafamiliare e poi il tentativo (pilotato?) di varie versioni e ritrattazioni all'esito della visita ginecologica, non voluta dalla nonna, attraverso la quale si è dimostrata la deflorazione da lungo tempo della giovane vittima; dallo spontaneo, accidentale e non preparato sorgere delle accuse nei confronti del fratello, subito indicato quale l'autore delle turpitudini attraverso le confidenze alla teste A., di cui giustamente si valuta la professionalità (pag. 31 sent. Trib.) dinanzi alle cialtronerie di altre (pagg. 38 e 39 sent. Trib.), alla posizione negativa assunta in sede di deposizione dalla madre e dalla nonna, nonostante la prima avesse riferito a più persone di essere stata picchiata dal figlio e fosse stata ricoverata una volta per le ferite riportate e la seconda avesse dovuto ammettere i continui litigi fra madre e figlio, giacché questi non era molto amante del lavoro ed in qualche occasione ha "ecceduto"; dalle dichiarazioni rese dalla parte offesa all' A., alla P.G. ed al P.M., queste ultime riferite solo alla parte in cui la pubblica accusa "ha lasciato che (la vittima) ... si esprimesse liberamente" (pag. 21 sentenza del Tribunale di Nola), all'attento esame delle deposizioni di R., C. e G., dal quale risulta il contrasto tra le dichiarazioni delle prime due, la nebulosa e tentennante deposizione del G., che ha confermato una relazione, frutto di quanto appreso da terze persone e non di un'osservazione professionale diretta sulla persona" contrariamente a quanto effettuato dai periti del Tribunale ed alla normale tecnica di un operatore preparato (pag. 23 sentenza primo grado).
La meticolosità con cui il primo giudice ha proceduto all'esame delle prove ed all'istruttoria dibattimentale, riascoltando la parte offesa, sottoponendola a perizia e valutandone a tutto campo l'attendibilità e credibilità (pag. 32 e segg. sent. Trib.), ivi comprese le inattendibili ritrattazioni (pag. 36 e segg. sent. Trib.), avrebbe consentito ai giudici di appello di richiamare "per relationem" la predetta motivazione dinanzi alle defatigatorie censure difensive sul punto.
Tuttavia la Corte partenopea, nonostante la perizia avesse accertato la carenza di attitudini immaginative e la capacità di percezione della parte offesa tali da escludere fantasticherie ed erronei riconoscimenti ed apprezzamenti dei fatti, risponde alle censure mosse sul punto sia pure in maniera affrettata, consentendo l'abile ricorrente dedurre alcune omissioni in ordine a quanto dedotto.
A tal riguardo, però, occorre rilevare che, secondo giurisprudenza costante di questa Corte sotto il vigore del precedente codice di rito (Cass. sez. 1° 19 ottobre 1988, Quattrocchi) e dell'attuale (Cass. sez. 1° 4 febbraio 1994, Albergamo ed altri e Cass. sez. 3° 23 aprile 1994, Scauri), le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici di secondo grado abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal primo e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicché le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscono una sola entità.
Il giudice di appello, poi, non è tenuto a rispondere a tutte le argomentazioni svolte nell'impugnazione, giacché le stesse possono essere disattese per implicito o per aver seguito un differente iter motivazionale o per evidente incompatibilità con la ricostruzione effettuata, sicché non assume rilievo l'erronea affermazione circa l'omessa indicazione da parte della difesa dei motivi di inquinamento e di suggestione.
Infatti, il "protagonismo" investigativo della C., che ha raccolto le confidenze dei vicini sul possibile autore della violenza sessuale, non poteva essere noto alla minore, mentre l' A. non ha fatto altro che riferire quanto dettole dalla giovane vittima, sicché non vi è alcuna "stranezza", che si rinviene, invece, nella conduzione del controesame in ordine al bigliettino, circostanza peraltro marginale, e nelle successive plurime versioni a distanza di oltre un anno, mentre sulla ritrattazione si dilunga in maniera ineccepibile il Tribunale, che giustamente afferma come non sia sufficiente prospettare la presenza di più versioni (le ultime successive e chiaramente pilotate, trovando anche riscontro in alcuni motivi di appello quali l'omessa prova della violenza sessuale, giacché la deflorazione poteva avere differenti origini e l'inattendibilità della vittima per le pluralità di queste susseguenti narrazioni) per inficiare automaticamente ognuna di queste.
Infatti l'operazione di validazione deve essere compiuta anche per quelle posteriori, tanto più ove provengano da un soggetto "debole" qual è un minore, portatore di handicap lieve mentale, dotato di scarsissima capacità immaginativa dovendosi rimarcare nella fattispecie "l'assoluta assenza di qualsiasi dato di riferimento specifico sia esso 'centrale' o 'periferico' all'episodio narrato" (pag. 36 sent. Trib.), mentre le dichiarazioni precedenti ed in particolare quelle riferite dall'A. concernono "un racconto sufficientemente 'strutturato'", da stimarsi veritiero.
Infatti, le prime dichiarazioni sono confermate da riscontri oggettivi e documentali e dai risultati della perizia di ufficio "svolta sulla persona... attraverso l'utilizzazione di uno spettro di strumenti di psicodiagnostica generalmente condiviso dalla comunità internazionale di riferimento" (pag. 37 sent. cit.), dalla quale risulta che si è in presenza di un soggetto capace di riferire e non di inventare e "di ciò sono lo specchio proprio le... dichiarazioni volte a ritrattare le accuse fatte al fratello".
Del resto le ultime plurime versioni sono inficiate pure dalle modalità di recepimento, dagli eclatanti "scollamenti" tra le deposizioni delle due assistenti (C. e R. sulle ragioni delle "ritrattazioni" e della pretesa falsa incolpazione del fratello, caratterizzate da alcune affermazioni "frutto di allarmante pressappochismo e di disarmante generalizzazione" (pag. 38 sent. primo grado), e dalla prospettiva fatta balenare alla giovane vittima che quelle cose andavano dette poiché era l'unico modo per tornare a casa.
Inoltre, secondo quanto affermato nella decisione del Tribunale di Nola e non contrastato nei motivi di appello, in cui ci si riferisce ad interventi della madre e della nonna (quest'ultimo, comunque, possibile anche per via telefonica o epistolare senza necessità di essere presente nel luogo in cui si trovava la nipote), le "ritrattazioni sono inficiate dall'inopportuno, professionalmente scorretto ed omissivo di obbligatorie attività presso orfani istituzionali comportamento tenuto da parte delle predette assistenti, che avevano continuato" a vedere la ragazza e ad interloquire con questa sulla questione... successivamente alla deposizione fatta... all'udienza del 23 marzo 1999, quando era emersa la circostanza che entrambe le assistenti sociali non avevano ritenuto rivolgersi alla Procura della Repubblica e ... segnalare la situazione in atto" (pag. 39 sent. cit.) senza considerare con stupore come "due dipendenti dei servizi sociali, normalmente abituate a rapportarsi con altre strutture pubbliche ... non abbiano ritenuto, nell'occasione (delle plurime versioni della parte offesa tese a scagionare il fratello n.d.r.), di investire quegli stessi organismi" come, invece, aveva fatto la C. all'inizio, pur con una indagine inopportuna e "protagonistica".
La notazione che alla madre ed alla nonna sia stato consentito di vedere la minore durante l'intera celebrazione dell'istruttoria dibattimentale, infine, non contrasta con l'asserita morte della prima nel 1999 affermata nelle impugnazioni senza indicare la data del decesso e con la non dimostrata malattia della nonna, riferita nei due atti di impugnazione, poiché quest'ultima poteva rapportarsi con la nipote in altro modo ed, in ogni caso, il dibattimento era iniziato sin dal 28 ottobre 1998 (cfr. sent. Trib.), sicché anche queste osservazioni non necessitavano di alcuna analitica risposta, anche se la Corte partenopea avrebbe potuto accennare a queste notazioni come a quella circa la deposizione "de relato" di suor C.M.R., trattata implicitamente dalla decisione del Tribunale (pag. 36 ultima parte del primo periodo del punto 4).
Ed invero, sebbene si tratti di considerazioni ampiamente esaminate dal giudice di prime cure oppure del tutto marginali come l'ultima, il loro accenno avrebbe consentito a questa Corte di legittimità di completamente obliterare queste asserzioni.
Per quanto attiene all'ultima censura la stessa si fonda su un'isolata decisione di questa Corte (Cass. sez. 3° 1 febbraio 2001 n. 3998, Maranan rv. 218543), la quale, in ogni caso, deve essere esaminata con riferimento alla specifica situazione fattuale contestata, in cui era stato ritenuto configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia in concorso con quello di violenza sessuale sol perché l'autrice di quest'ultimo reato aveva detto alla sua vittima di non dire alcunché, poiché "era un loro segreto", oltre a commettere gli episodi contestati inquadrabili nell'art. 609-bis c.p.
Infatti, detta pronuncia non è condivisibile, perché è in contrasto con la prevalente dottrina e giurisprudenza (Cass. sez. 3° 27 marzo 1996 n. 3111, Calì rv. 204866), che ritengono diversi i beni giuridici protetti dai due delitti (artt. 572 e 609-bis c.p.), mentre è coessenziale all'applicazione del principio di specialità l'appartenenza dei beni giuridici alla medesima categoria ed applicabile detto principio quando il fatto umano concretamente verificabile sia riconducibile a più norme (cfr. Cass. sez. 6° 26 maggio 1998, Izzo rv. 211250), giacché l'espressione "più norme incriminatici" regolanti "la stessa materia" significa sostenere che le stesse hanno la medesima obiettività giuridica, sicché non è applicabile nel caso in esame, trattandosi di delitti tutelanti differenti beni giuridici.
Peraltro, qualsiasi tesi dottrinaria si segua in ordine al principio di specialità (in astratto, in concreto, medesimo bene giuridico) ed agli interessi protetti dal delitto di cui all'art. 572 c.p. (integrità psicofisica del soggetto passivo o personalità dell'individuo) e da quello previsto dall'art. 609-bis c.p. (la persona nella sua libertà di determinazione in materia sessuale) non sembra potersi affermare che il delitto di violenza sessuale sia speciale rispetto a quello di maltrattamenti in famiglia, giacché la violenza prevista nel primo dovrebbe contenere tutti gli elementi costitutivi del delitto ex art. 572 c.p. più altri specializzanti.
Tale tesi non sembra potersi affermare sia seguendo le c.d. teorie astratte, in quanto il medesimo fatto non rientra in più norme incriminatrici, sia quelle c.d. concrete, cui appare ispirarsi la decisione, perché il medesimo fatto concreto non è riconducibile a due o più fattispecie criminose. Non può, neppure, asserirsi che sia il delitto di maltrattamenti ad essere speciale rispetto a quello di violenza sessuale, perché il primo reato è abituale, non sembra potersi inquadrare sotto il profila strutturale nel reato complesso, ma in quelli a forma libera, in cui i singoli delitti di minaccia e lesioni personali volontarie concorrono con quello di maltrattamenti, in quanto, pur contribuendo a formare la condotta unitaria, non ne restano assorbiti, mentre i delitti di minaccia, percosse ed ingiuria sono inglobati in quello di cui all'art. 572 c.p., perché relativi al disvalore insito in esso e la sanzione prevista per detti singoli delitti è minore rispetto a quella dell'ultimo. Peraltro, proprio detta notazione con riguardo al delitto di violenza sessuale, ne escluderebbe la possibilità di assorbimento in quello di maltrattamenti per la maggiore sanzione contemplata dal primo.
Infine, come è stato rilevato attraverso un esame delle decisioni di questo giudice di legittimità si nota come i maltrattamenti possano essere realizzati mediante la commissione di atti sessuali, che, però, non rientrano nel delitto di cui all'art. 609-bis c.p. per varie ragioni (Cass. sez. 3° 9 marzo 1998, Spina; Cass. sez. 5° 5 luglio 1996, Modesti e Cass. sez. 5° 1 ottobre 1983, Meduri in Cass. pen. 1999, 1802 n. 842, 1997, 2449 n. 1342 e 1985, 359 n. 188).
Pertanto, è più la particolarità dell'ipotesi fattuale (semplice invito a conservare il segreto senza alcuna minaccia o violenza) a connotare la decisione non condivisibile in base ai principi su riferiti, ma in concreto non erronea, ove si consideri che tali atti non connotavano la condotta tipica del delitto di maltrattamenti da rinvenire in atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, che costituiscano fonte di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di vita.
Nella fattispecie in esame le percosse, le minacce, le lesioni e le ingiurie cioè le violenze fisiche e morali erano determinate "non solo qualche tentativo di resistenza, da parte della (minore), a non gradite pretese sessuali, ma anche dalle più che legittime rimostranze della (madre) e della (nonna) per la viziosa tendenza dell'imputato all'inoperosità e al suo non controllato indulgere all'abuso di bevande alcoliche, nonché dalla loro determinazione... di evitare... contatti riservati tra i due giovani ed infine dalla pretesa... di una condotta... la quale non consentisse la propalazione, quand'anche involontaria, del segreto, che sarebbe dovuto restare celato nell'ambito domestico" (sentenza d'appello pag. 5), sicché la non condivisa decisione riferita in ricorso non sarebbe i ogni caso applicabile nella fattispecie, in quanto non si tratta solo degli episodi di violenza sessuale, ma di tutto un regime di vita di sofferenze e vessazioni nei confronti di una pluralità di soggetti passivi, onde è applicabile l'istituto della continuazione (Cass. sez. 6° 17 febbraio 2003 n. 7781, P.G. in proc. Simonella rv. 224048 fra le più recenti).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 5 dicembre 2003

Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2004