Cass. pen. Sez. III, sentenza 03.-10.1997, n. 8953



Sentenza

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.:
Dott. TRIDICO Gennaro Salvatore Presidente
Dott. RIZZO Aldo Consigliere
QUITADAMO Nicola
FIALE Aldo
NOVARESE Francesco

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

sul ricorso proposto da n. a ........con .......... il 18 dicembre 1949 e n. a .............. (MI) il 27 marzo 1958 avverso la sentenza della Corte di Appello di Milano del 5 luglio 1996

Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso,
Udita in pubblica relazione fatta dal consigliere F. Novarese
Udito il Pubblico ministero in persona del dott. Vacca
Udito, per la parte civile, l'Avv.
Uditi difensori

Svolgimento del processo

e hanno proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Milano, emessa in data 5 luglio 1996, con la quale venivano condannati, il primo, per i delitti di violenza carnale continuata e di atti di libidine continuati in danno della propria figlia nata nel 1987 in concorso con la moglie e di corruzione di minorenni aggravata e continuata ed il secondo, in concorso con la cognata, del delitto continuato e pluriaggravato di atti di libidine violenti in danno delle due nipoti e tutti del delitto di maltrattamenti nei confronti delle predette minori deducendo quali motivi la mancanza di motivazione in ordine all'applicazione dei secondo comma dell'art. 530 c.p.p., poiché non viene risolto in modo convincente il problema della certezza dell'impianto probatorio, in quanto non si considera se la piccola ha potuto avere nozione degli atti sessuali per aver osservato il comportamento dei genitori e non per diretta esperienza, non si valuta la confessione della madre, né le insanabili contraddizioni della deposizione della piccola nelle varie fasi del giudizio e la sua credibilità anche in rapporto con la riconosciuta poca attendibilità delle dichiarazioni rese per episodi concernenti la sorella, la violazione ed errata applicazione della disciplina relativa alla dosimetria della pena, alla comparazione delle circostanze aggravanti ed attenuanti ed alla continuazione, nonché, per il solo , l'errata applicazione dell'art. 572 c.p., poiché, all'epoca dei fatti, lo zio non era convivente con le nipoti.

Motivi della decisione

I motivi addotti appaiono infondati, sicché il ricorso deve essere rigettato con la conseguente condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali.
Infatti la corte di Appello con analitica ed attenta motivazione esamina l'attendibilità della deposizione della piccola attraverso il riscontro con alcuni dati oggettivi (la perizia ginecologica), alcune testimonianze "derelato" ed alcune turbe comportamentali, emergenti dall'esame psicologico e dalla stessa escussione protetta in sede dibattimentale, rilevando come alcune sensazioni della piccola (ex. gr. "la pipì bianca appiccicosa") dovevano necessariamente derivare dall'esperienza diretta e spiegando "le resistenze della minore ad esprimersi" con la paura per la presenza del padre nel dibattimento, con la sede "così "ufficiale" e così poco "confidenziale".
Inoltre la costanza dell'accusa esiste in tutte le diverse fasi processuali, soltanto che, in sede di indagini preliminari, la presenza di condizioni più tranquillanti, hanno reso le dichiarazioni più spontanee, dettagliate e precise, anche se sono state tutte "comunque confermate, sia pure in maniera più sintetica, in dibattimento".
Infine con il supporto della scienza medica e psicologica esclude l'ipotesi di mitomania infantile, essendo del resto ogni affermazione della piccola supportata dalla confessione della madre, in parte confermata in dibattimento, e, poi, solo parzialmente ritrattata e, comunque, non confermata "per paura".
Le dichiarazioni rese dalla madre, coimputata a causa del suo comportamento omissivo, se non compiacente, dinanzi agli abusi perpetrati nei confronti delle proprie figlie dal marito e dal cognato, sono valutate ed inquadrate nel clima di violenza e di degrado morale in cui viveva e sono ritenute "sicuramente più attendibili e vere" le prime "perché del tutto spontanee (sono un vero e proprio sfogo)", riscontrate con altre testimonianze e libere da ogni preoccupazione o paura, mentre non sussiste alcun interesse della madre nell'accusare il cognato ed il marito se innocenti, giacché sarebbe stato più utile anche per la sua difesa far balenare alcune fantasie morbose infantili.
In realtà la coimputata, nella fase delle indagini preliminari, liberata dalla paura derivante dal comportamento violento e sordido del marito, ripresa coscienza del suo ruolo di madre, non ha più coperto i fratelli .
Il giudice di merito risponde con la solita meticolosità al contrasto esistente tra le dichiarazioni della sorella maggiore, che in dibattimento riesce a negare anche fatti oggettivamente riscontrati, e quelle della piccola e valuta più attendibili quelle rese da quest'ultima e le altre effettuate in precedenza dalla sorella ed a lei contestate in sede dibattimentale, sicché sono perfettamente utilizzabili, confortandole con la "confessione" della madre, con i dati oggettivi, prodotti dal P.M., e con altre deposizioni.
La completa pronuncia, poi, in ordine al delitto di corruzione di minorenni, modificato dalla legge n. 66 del 1996, con la previsione di un dolo specifico (il fine di fare assistere il minore agli atti sessuali), con accertamento in fatto, insindacabile in sede di legittimità, evidenzia come il fosse consapevole che la bambina fosse sveglia e voleva ugualmente avere rapporti sessuali.
Del resto il dolo specifico appare da tutta la vicenda e dall'immondo comportamento del padre, sicché pure questo delitto è integro in ogni elemento, nonostante tale punto non sia stato focalizzato in ricorso.
Egualmente infondate sono le doglianze sull'erronea applicazione degli artt. 69, 81 e 133 c.p., giacché il giudice di merito, in sede di appello, forse con eccessiva magnanimità, ha concesso le attenuanti generiche al padre ed ha ridotto considerevolmente la pena allo zio, ma non ha potuto comminare una pena mite a chi si era reso indegno del suo ruolo.
Ogni passaggio motivazionale in ordine alla concessione delle attenuanti generiche, al giudizio di equivalenza o prevalenza, al numero ed al peso delle aggravanti ed alla dosimetria della pena nei confronti di entrambi i ricorrenti è logicamente giustificato ed esente da vizi giuridici, sicché non è censurabile in sede di legittimità.
Riguardo al motivo proprio di relativo al delitto di maltrattamenti in famiglia la sentenza evidenzia che "il presupposto della convivenza .. non è necessario per la sussistenza del delitto di cui all'art. 572 c.p. che si riferisce anche ai maltrattamenti, in genere, dei minori degli anni 14 (maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli)", concludendo come "in ogni caso le minori erano "persone della famiglia": lo zio abitava nella stessa cascina e sovente le bambine andavano da lui o lui da loro".
Tale assunto è conforme alla giurisprudenza di questa Corte (Cass. sez. VI 3 luglio 1970 dep. 30 gennaio 1991 n. 1067, Soru ed altro rv.
186276), secondo cui deve considerarsi famiglia ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà senza che sia necessaria la convivenza o la coabitazione, giacché è sufficiente un regime di vita improntato a rapporti di umana solidarietà ed a strette relazioni, dovute a diversi motivi anche assistenziali come è avvenuto nella fattispecie in esame.
Peraltro, come esattamente rilevato dalla Corte meneghina, nella fattispecie entrambe le bambine erano infraquattordicenni, sicché viene in rilievo la diversa fattispecie in cui destinatari della norma e soggetti passivi sono i minori ed il reato non si atteggia più come proprio.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in camera di consiglio in data 3 luglio 1997

DEPOSITATA IN CANCELLERIA, IL 3 OTT. 1997