Cass. pen. Sez. VI, 16.05.1996, n.4904



Sentenza

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE VI PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.:
Dott. Giorgio BUOGO Presidente
Luigi SANSONE Consigliere
Bruno OLIVA "
Giovanni CONTI "
Francesco IPPOLITO Rel. "

ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto

, n. 1.1.1961

avverso la sentenza pronunciata dalla Corte d'appello di Milano il 13.11.1995;

- letto il ricorso e il provvedimento impugnato;
- udita la relazione del cons. F. Ippolito;
- udita la requisitoria del Procuratore generale., sost. V. Esposito, che ha richiesto il rigetto del ricorso;
- udito il difensore avv. , che ha richiesto l'annullamento della sentenza impugnata;

svolgimento del processo - motivi della decisione

1.. Con sentenza 23.11.1995 la Corte d'appello di Milano condannò per il delitto di maltrattamenti verso la figlia decenne , in parziale riforma della sentenza dei Pretore di Como M., che lo aveva riconosciuto colpevole del reato di abuso dei mezzi di correzione (art. 571 c.p.), così modificata l'originaria imputazione di cui all'art. 572 c.p..
2. Ricorre per cassazione il difensore dell'imputato, deducendo erronea valutazione degli artt. 571 e 572 c.p., nonché mancanza e illogicità della motivazione, anche per travisamento dei fatti.
3. Il ricorso è infondato e va rigettato. 3.1. Con motivazione adeguata e corretta, indenne da vizi giuridici e logici, la sentenza impugnata ha ricostruito e valutato i fatti, sulla base degli atti documentali e delle deposizioni testimoniali, dando conto delle ragioni per cui assume come attendibili le prime dichiarazioni rispetto ai parziali "alleggerimenti" dibattimentali.
In fatto, i giudici di merito hanno posto a fondamento del giudizio di responsabilità dell'imputato le dichiarazioni di , già convivente del , la quale riferì delle continue e dure percosse cui la bimba, per un nonnulla, veniva sottoposta dal padre, di quelle di , testimone oculare di un episodio di selvaggia aggressione verso la piccola ; il provvedimento del tribunale per i minorenni, che dispose l'allontanamento provvisorio della bimba dal genitore; una lettera scritta alla (che, vittima anch'essa di violenze, aveva interrotta la penosa convivenza con l'uomo, portando con sé il figlioletto ), nella quale si lamentava, rivolgendosi a lei come alla sua mamma, delle continue percosse e manifestava la preoccupazione che il padre potesse far del male anche a , qualora la convivenza familiare si fosse ricomposta.
Di fronte a tale analitica motivazione - dimostrativa di una abituale condotta vessatoria dell'imputato, produttiva di dolorose sofferenze fisiche e morali per la bambina - non solo va escluso ogni profilo di palese illogicità (solo vizio che, secondo l'art. 606.1 lett. e del nuovo codice di rito, autorizza il sindacato di legittimità sulla motivazione in fatto), ma va dato atto ai giudici di merito di avere esplicitato compiutamente le ragioni della affermata responsabilità, implicitamente ma chiaramente disattendendo le diverse prospettazioni difensive, cosicché non sussiste neppure la lamentata violazione dell'art. 546.1 lett. e c.p.p., con riferimento alla inattendibilità delle prove contrarie.
Inammissibile è poi il prospettato travisamento di fatto, vizio che - a prescindere dalle contrastanti soluzioni in ordine alla sua deducibilità nella disciplina del nuovo codice di procedura penale - certamente deve essere corredato ad una censura di mancanza o manifesta illogicità della motivazione, mentre nel caso il motivo esprime soltanto un diverso apprezzamento delle risultanze processuali da parte del ricorrente.
3.2. Infondate sono pure le censure in diritto mosse dal ricorrente, secondo cui non sussiste né il reato di maltrattamenti (affermato dai giudici di appello), in quanto l'imputato era animato da intento correzionale della figlia, né quello di cui all'art. 571 (ritenuto dal Pretore), per mancanza del pericolo di una malattia nel corpo o nella mente.
Secondo il ricorrente, i giudici milanesi, nell'interpretazione degli artt. 571 e 572 cod. pen., muovono da concezioni opinabili, quando affermano che le condotte "devianti" (bugie, insuccessi scolastici, e simili) sono nient'altro che sintomi di bisogno e richiesta di aiuto della bambina, escludendo che ad esse si possa rispondere, a scopo "educativo", a suon di sberle e calci, ossia con una violenza che ricaccia il minore nell'alveo del suo stesso bisogno e delle sue stesse inadeguatezze.
A tale affermazione, che ritiene in linea con il dilagante "permissivismo dei tempi attuali", il ricorrente difensore contrappone l'efficacia terapeutica delle "sante cinghiate che suo padre gli infliggeva quando da ragazzo non studiava o mal studiava e a scuola riportava talora scadenti voti di profitto" Ritiene il Collegio che correttamente la corte milanese ha qualificato i comportamenti del (e le argomentazioni addotte a difesa), contrastanti con il diritto penale vigente.
Le tesi espresse nella impugnata sentenza in ordine ai doveri educativi dei genitori e al diritto dei bambini ad un sano ed armonico sviluppo della personalità, sono da questa Corte condivisi, sia perché adeguate alla evoluzione dei costumi e delle concezioni psicopedagogiche di un paese civile, sia e soprattutto perché conformi al livello di tutela giuridica che l'ordinamento appresta ai bambini.
Esattamente la corte d'appello rileva che il giudice, nel determinare quando vi sia abuso, quale sia un mezzo di correzione, cosa voglia significare "maltrattare un minore degli anni quattordici", recepisce inevitabilmente concetti e valutazioni che fanno parte del patrimonio culturale in evoluzione di un paese e di una civiltà, che hanno bandito la violenza come strumento educativo, rimarcandone anzi la valenza negativa, contraddittoria e controproducente rispetto al perseguimento del pieno ed armonico sviluppo della personalità, a cui il processo educativo mira in una società fondata sul primato di ciascuna persona umana e sulla valorizzazione della sua intrinseca dignità. Si tratta di principi e valori che non solo permeano la cultura e il costume del paese, ma costituiscono il fondamento dell'ordinamento costituzionale della Repubblica, che ripudia la violenza come strumento di soluzione dei problemi e delle controversie, non soltanto a livello interstatale, politico e sociale, ma anche interpersonale.
E' oggi culturalmente anacronistico e giuridicamente insostenibile una interpretazione degli artt. 571 e 572 c.p. fondata sulle opinioni (come, ad es., "la vis modica è mezzo di correzione lecito") espresse nella relazione al codice penale dei 1930 (proprio di una superata epoca storico sociale, impregnata di valori autoritari anche nella struttura e nella funzione della famiglia). Tali norme vanno invece interpretate alla luce della concezione personalistica e pluralistica della Costituzione (cfr. in particolare artt. 2, 3, 39, 30, 31) e del riformato diritto di famiglia (v. specificamente l'art. 147 c.c.), che al tradizionale modello istituzionale e gerarchico di famiglia hanno sostituito una visione partecipativa e solidaristica, che nella famiglia individua il coordinamento degli interessi dei suoi componenti e la garanzia dello sviluppo della personalità dei singoli.
Tale evoluzione normativa, che di per sé già impone una interpretazione adeguatrice delle fattispecie penali in esame, ha ricevuto un ulteriore impulso dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del bambino (New York 1989, L. n. 176-1991 in G.U. n. 135-91), che espressamente riconosce al bambino, tra gli altri diritti fondamentali dell'uomo, il diritto al "pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità", ad essere allevato "nello spirito .... di pace, di dignità, di tolleranza, di libertà, di eguaglianza e di solidarietà" ad essere protetto "contro qualsiasi forma di violenza, danno o brutalità fisica o mentale, abbandono negligenza, maltrattamento o sfruttamento, inclusa la violenza sessuale, mentre è sotto la tutela dei suoi genitori o di uno di essi".
Ovviamente la Convenzione riconosce e garantisce i diritti dei genitori, ma afferma anche, in linea con la già vigente legislazione italiana, i loro doveri e responsabilità in ordine all'allevamento e allo sviluppo del bambino, il cui superiore interesse deve costituire il criterio guida per l'assolvimento del compito educativo (art. 18.1 Conv.). Della predetta Convezione sono di immediata applicabilità tutte le norme aventi un contenuto preciso e determinato (cfr. Cass. SS.UU.
21.5.1973 n. 1455) e, in particolare, quelle che stabiliscono diritti dei minori e corrispondenti obblighi dei genitori, di altri privati, della pubblica amministrazione.
L'impegno assunto dallo Stato italiano a "rispettare i diritti che sono enunciati nella convenzione e a garantirli ad ogni fanciullo nel proprio ambito giurisdizionale (art. 2), e a far sì che "in tutte le decisioni riguardanti i fanciulli che scaturiscono .... da tribunali .... l'interesse superiore del fanciullo deve costituire oggetto di primaria considerazione" (art. 3.1) pone vincoli innanzitutto al legislatore, ma anche doveri sul piano del diritto interno all'amministratore e al giudice.
All'attuazione degli obblighi assunti dello Stato a garanzia effettiva dei diritti dei bambini concorre, infatti, in maniera determinante la giurisdizione, cosicché non solo i giudici devono fare applicazione diretta di tutte le disposizioni che non richiedono un intervento del legislatore, ma devono, nella interpretazione di norme preesistenti, assumere i valori e i principi della Convenzione come criterio interpretativo di precedenti disposizioni, nella parte in cui queste non debbano considerarsi tacitamente abrogate.
Alla stregua delle precedenti considerazioni, la stessa espressione correzione dei bambini, espressiva di concezioni pedagogiche culturalmente anacronistiche e storicamente superate, andrebbe in realtà ridefinita, con estromissione di ogni riferimento gerarchico autoritativo e con relazione ai contenuti di impegno solidale e responsabile che caratterizzano la posizione dell'educatore rispetto all'educando. Il termine correzione va assunto come sinonimo di educazione, con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi propri di ogni processo educativo.
In ogni caso, quale che sia il significato da riattribuire a tale termine nei rapporti familiari e pedagogici, non può più ritenersi lecito l'uso della violenza finalizzato a scopi educativi. Ciò sia per il primato che l'ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del "minore", ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti; sia perché non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di convivenza, utilizzando un mezzo violento che tali fini contraddice.
Ne consegue che l'eccesso di mezzi di correzione violenti non rientra nella fattispecie dell'art. 571, giacché in tanto è ipotizzabile un abuso (punibile in maniera attenuata) in quanto sia lecito l'uso. Non è, perciò, configurabile tale reato qualora vengano usati mezzi di per sé illeciti sia per la loro natura che per la potenzialità del danno (v. Cass. 10841-86, , M. 173956; contra Cass. 6 n. 3526 dell'11.4.1996).
Né l'eventuale l'intenzione pedagogica dell'agente può servire a far rientrare, come assume il ricorrente, nell'ambito dell'art 571 c.p. ogni aggressione dei beni giuridici personali, così che sarebbe escluso il delitto di maltrattamenti ogni volta che il risultato di sofferenza è stato determinato da animus corrigendi.
Sul piano generale va ricordato che, prima di esaminare l'elemento soggettivo del reato, occorre determinarne la struttura oggettiva; per quanto concerne il rapporto tra le fattispecie degli artt. 571 e 572 c.p., l'intenzione soggettiva non è idonea a far entrare nell'ambito della fattispecie meno grave (art. 571 c.p.) ciò che soggettivamente ne è escluso.
L'elemento caratterizzante il fatto costitutivo del reato dell'art. 571 c.p. è l'abuso dei mezzi di correzione. Il nesso tra mezzo e fine di correzione va valutato sul pieno oggettivo, con riferimento, come innanzi si è detto, al contesto culturale e al complesso normativo fornito dall'ordinamento giuridico, non già dalla intenzione dell'agente.
La differenza tra il delitto previsto dall'art. 571 e quello dell'art. 572 è, pertanto, nella condotta e non già nell'elemento soggettivo del reato, che si atteggia in entrambe come dolo generico.
A ben vedere, infatti, e contrariamente a quanto spesso si è ritenuto, l'art. 571 non richiede il dolo specifico, cioé un fine particolare e ulteriore rispetto alla consapevole volontà di realizzare il fatto costitutivo del reato, ossia l'abuso del mezzo di correzione.
L'analisi di un'altra fattispecie di abuso, quella di ufficio (art. 323 c.p.) dimostra che con il dolo specifico il legislatore richiede la sussistenza di un elemento soggettivo ulteriore rispetto alla consapevolezza della volontaria condotta abusiva: nell'art. 323 il dolo specifico è espressamente richiesto in relazione alla finalizzazione dell'abuso ("al fine di procurare a sé o ad altri..."), che è cosa diversa dalla condotta oggettiva dell'agente.
Nel caso di specie, dal compiuto accertamento dei giudici di merito per come risulta compiutamente esplicitato e motivato nell'impugnata sentenza, è fuor di dubbio la sussistenza del reato di maltrattamenti.
Infatti, anche a voler ipotizzare una liceità dell'uso di vis modicissima quale mezzo eccezionale ed occasionale finalizzato a scopo educativo e, per conseguenza, la configurabilità della fattispecie dell'art. 571 c.p. in caso di eccesso nell'uso di tale mezzo di correzione, certamente illecito, perché contrastante con i diritti fondamentali della persona, è l'uso sistematico della violenza quale ordinario "trattamento" del minore, sia pure sostenuto da animus, cioé da soggettive intenzioni di correzione. Tale illiceità impedisce in radice la possibilità di far rientrare nell'ambito dell'art. 571 c.p. la condotta del . Nella vicenda in esame, con giudizio di fatto insindacabile in quanto adeguatamente motivato, i giudici di merito hanno inoltre escluso ogni intento correzionale nella proclamata volontà di "raddrizzare" la piccola , giacché hanno accertato una condotta abituale di aggressione, con modalità selvagge e assolutamente sproporzionate rispetto agli asseriti comportamenti da correggere.
Correttamente la corte milanese ha affermato che il delitto di maltrattamenti di minore (art. 572 c.p.) si consuma non soltanto attraverso azioni, ma anche mediante omissioni, giacché "trattare" un figlio (per di più minore degli anni 14) da parte di un padre implica almeno il rispetto della norma di cui all'art. 147 c.c., che impone l'obbligo di "mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli"; e, per converso, maltrattare vuoi dire, in primo luogo, mediante costante disinteresse e rifiuto, a fronte di un evidente stato di disagio psicologico e morale del minore, generare o aggravare una condizione di abituatele persistente sofferenza, che il minore non ha alcuna possibilità né materiale né morale di risolvere da solo.
Conseguentemente bene ha ritenuto integrato il reato di maltrattamenti dalla consapevole e abituale condotta del , estrinsecatasi in una pluralità di atti volti a ledere la integrità fisica e il patrimonio morale della piccola , sottoposta ad un intollerabile regime di vita attraverso violenze fisiche e morali e costretta ad una vita di relazioni familiari produttive di dolore e sofferenza, che hanno represso e violato innanzitutto il diritto al pieno e armonico sviluppo della sua personalità.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Roma 18 marzo 1996

DEPOSITATA IN CANCELLERIA, 16 MAG. 1996