L. Sacchetti, Sul nuovo protezionismo



SUL NUOVO PROTEZIONISMO DEGLI ADULTI DEBOLI E DEI FIGLI MINORI DI GENITORI CHE SI SEPARANO

SUL NUOVO PROTEZIONISMO DEGLI ADULTI DEBOLI E DEI FIGLI MINORI DI GENITORI CHE SI SEPARANO
LAMBERTO SACCHETTI

FONTE
Famiglia e Diritto, 2006, 4, 443
Diritti della persona; Separazione e divorzio

Sommario: Ordini di protezione - Amministrazione di sostegno - Pubblicismo e analogie con la giustizia minorile - Codicillo sulla difesa tecnica - Affidamento condiviso: riforma criptica - La separazione consensuale - L'affidamento a un solo genitore - Le sanzioni applicabili al genitore inadempiente - L'affidamento dei figli naturali

Ordini di protezione
Quasi a compenso del debilitato Stato sociale, nell'ultimo lustro sono entrate in vigore leggi civili di protezione delle persone, anzitutto adulte: per prima la n. 154/2001, contro la "violenza nelle relazioni familiari", che ha introdotto gli "ordini di protezione" con norme ispirate a istituti propri degli ordinamenti di common law (order of protection) (1). Dominante in essa è l'aspetto pubblicistico intrinseco a ogni protezionismo e non obliterato dal fatto che l'attore qui "agisce iure proprio per la tutela d'interessi eventualmente superindividuali"(2). Lo "strumento forte e agile" previsto in uno dei primi disegni di legge (S.72/96) ha preso connotato addirittura autoritario di innovativa pubblica sicurezza familiare, estesa alle situazioni parafamiliari.
A motivare il provvedimento del giudice basta il pregiudizio alla "integrità fisica o morale" dell'istante se coniuge o convivente del violento. Oggetto: l'allontanamento di costui dalla casa, con un corredo di prescrizioni e misure accessorie, anche di natura economica, tanto analogo alla misura cautelare dell'art. 282bis c.p.p., introdotta dalla stessa legge, da mostrare piena convergenza di protezione personale e difesa sociale.
Poiché, ex art. 342bis c.c., è allontanabile ogni "convivente", a prescindere dal titolo per cui sta in quella casa, quindi pure il proprietario o conduttore esente da obblighi di assistenza familiare nei confronti dell'istante, l'ordine di protezione può oggettivamente somigliare a una requisizione d'urgenza o, forse meglio, all'ordine di non utilizzazione di un bene per grave necessità pubblica. Attribuire una siffatta potestà al giudice è scelta legislativa di garanzia soggettiva. Magra però di previsioni formali.
L'istanza è proponibile dalla parte personalmente, senza assistenza legale (3). Il giudice deve provvedere "sentite le parti". Ma agli atti di istruzione "procede nel modo che ritiene più opportuno". Il provvedimento (decreto) è immediatamente esecutivo, emesso in camera di consiglio con procedura di tipo cautelare, ma senza carattere di tutela provvisoria poiché non seguito dall'accertamento del merito e dotato di efficacia a termine (non superiore a sei mesi, prorogabili "soltanto se ricorrano gravi motivi per il tempo strettamente necessario"). Esso mira cioè semplicemente a una pausa del traumatismo domestico. Le modalità attuative sono determinate nel decreto stesso (che naturalmente è reclamabile). Mediante ulteriori decreti il giudice emette, "ove sorgano difficoltà o contestazioni in ordine all'esecuzione, i provvedimenti più opportuni", "ivi compreso l'ausilio della forza pubblica e dell'ufficiale giudiziario". E dovrebbe ritenersi che l'intera fase esecutiva non escluda l'officiosità, data la natura e finalità dell'istituto giuridico. A marcare la cui funzione anche sociale e promozionale si dà al giudice facoltà di disporre l'intervento dei servizi sociali, di un centro di mediazione familiare, delle associazioni il cui fine statutario sia il sostegno e l'accoglienza dei soggetti vittime di abusi e maltrattamenti.
Gli ordini di protezione sono una risposta legislativa al problema della violenza domestica, crescente per cause molteplici nella nostra società.
Amministrazione di sostegno
Il problema, più vasto, della protezione dai propri limiti fisici o psichici delle persone oggi in grado di sopravvivere nonostante la vecchiaia o gravi minorazioni, ma senza nessuno che le aiuti a curare i propri interessi, è all'origine della l. 9 gennaio 2004, n. 6, la cui rilevanza giuridica non è minore del potenziale impatto sociale. Essa non introduce "ordini", ma "misure" di protezione. Diversità in cui il pubblicismo trapassa dallo spazio della polizia a quello dell'assistenza. Anche qui delimitato dalla garanzia soggettiva del giudice e dall'iniziativa di parte. (4).
Ma è da osservare un doppio, peraltro ben connesso contenuto politico culturale della legge: pubblicismo nel modo di concepire e organizzare l'intervento protettivo, centrato sul giudice tutelare e aperto all'iniziativa e dei servizi locali (da vedere sullo sfondo del "sistema integrato di interventi e servizi sociali" previsto dalla Legge quadro n. 328/2000, che le Regioni vengono sostituendo con le proprie leggi); pragmatismo solidarista nel nuovo approccio al problema dell'incapacitazione reale e giuridica di maggiorenni.
L'art. 1 della legge, che dichiara di perseguire "la minore limitazione possibile della capacità di agire delle persone in tutto o in parte prive di autonomia, nell'espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente" non è solo programmatico: è canone di interpretazione teleologica nel coordinamento tra il nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno e quelli dell'interdizione e inabilitazione risalenti al codice civile del 1865. Tutti e tre sono stati compresi sotto la rubrica del titolo XII del libro primo, così riformulata a significarne una omogeneità di contenuto e a profilare un apparato protettivo gradualistico e organico: "Delle misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia". Però diviso in due capi, uno dedicato al nuovo, l'altro ai due vetusti istituti giuridici, la cui diversa matrice culturale rimane avvertibile (5). Ma senza costituire un problema, come ha chiarito la Corte costituzionale con sentenza interpretativa di rigetto, indicando il ruolo di sussidiarietà da loro assunto rispetto all'amministrazione di sostegno: "Solo se non ravvisi interventi di sostegno idonei ad assicurare all'incapace siffatta protezione il giudice può ricorrere alle ben più invasive misure dell'interdizione o dell'inabilitazione, che attribuiscono uno status di incapacità estesa per l'inabilitato agli atti di straordinaria amministrazione e per l'interdetto anche a quelli di amministrazione ordinaria" (6).
La Corte di Cassazione ha ulteriormente precisato che i diversi ambiti di applicazione non vanno individuati con riguardo al più o meno intenso grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto, ma bensì alla maggiore capacità di tali strumenti di adeguarsi alle sue esigenze, tenendo presente da una parte la gravità e prevedibile durata della sua mancanza di autonomia, dall'altra la flessibilità e maggiore agilità applicativa dell'amministrazione di sostegno (7).
L'Italia è giunta, seppure tardivamente in Europa, a un istituto giuridico che abbraccia un pragmatismo anglosassone. Le nozioni di capacità d'agire e di imputabilità (codificata nel 1889), assunte a indicare un funzionamento complessivo della mente, conforme alla teoria idealistica dell'unità dello spirito, hanno dato corpo a stati giuridici funzionali al controllo pubblico delle persone, in una visione dello Stato come sintesi della stabilità e dell'ordine generale. Il cambiamento politico e culturale è nel senso dell'antidogmatismo, del solidarismo e della sussidiarietà.
Il fine politico si è capovolto: non sono da proteggere i terzi dalla possibile dannosità del disabile, bensì esso anzitutto dal danno a se medesimo. La protezione va appuntata sul concreto pericolo di ciò e disporsi, con flessibilità anche temporale, per obiettivi. Lo strumento primo è quello che meno comprime la capacità d'agire del beneficiario. Residuale se non eccezionale quello che l'abolisce. L'istituto dell'inabilitazione, non abrogato ma culturalmente orfano, è per disseccarsi.
Nella figura dell'amministratore di sostegno (una sorta di curatore speciale) la protezione si traduce in compiti gestori tassativamente precisati nel decreto di nomina, cui simmetriche corrispondono determinate incapacità del beneficiario. La mappa delle quali delimita la sua attuale autonomia giuridica. "Il beneficiario conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l'assistenza necessaria dell'amministratore di sostegno" (art. 409 c.c.). Se, per es., atti personalissimi non sono compresi in tale catalogo, il beneficiario può compierli validamente quale che sia la propria infermità o menomazione. Quella psichica, contemplata dall'art. 404 c.c., non introduce insomma, come taluno si è chiesto, un nuovo stato di infermità mentale o di incapacità (8). Come l'infermità o menomazione fisica, essa può motivare l'attribuzione di compiti e poteri all'amministratore di sostegno giuridicamente uguali a quelli che spetterebbero, nelle singole questioni, al curatore dell'inabilitato e al tutore dell'interdetto, frammisti secondo opportunità tra loro e con altri meramente fattuali. Ne segue che la violazione delle disposizioni di legge, o inserite nel decreto di nomina dell'amministratore di sostegno, comporta annullabilità di atti sia di ordinaria che di straordinaria amminisrazione (art. 412).
Pubblicismo e analogie con la giustizia minorile
L'amministratore di sostegno esercita un ufficio di diritto privato, da esplicare fuori del processo: non è un ausiliario di giustizia (soggetto privo di autonomia decisionale come si ricava dall'art. 68 c.p.c.). Ma il procedimento per la sua nomina esprime un pubblicismo forte, più di quello caratterizzante i c.d. processi a contenuto oggettivo, categoria dottrinale esemplata dal processo d'interdizione, ove è "la norma particolare che fa dovere al giudice d'interdire l'infermo di mente" (9). Il legislatore ha scelto il giudice tutelare (10). Il cui potere generale di "chiedere l'assistenza degli organi della pubblica amministrazione e di tutti gli enti i cui scopi corrispondono alle sue funzioni" (art. 344, comma 2, c.c.), si integra con l'art. 405 c.c., in particolare nelle situazioni di urgente necessità di cui al comma 4. Nelle quali la possibile officiosità dei provvedimenti non pare qui estensibile fino a prescindere dal ricorso (richiesto nel comma 1) e a trasformare addirittura il giudice tutelare in organo di amministrazione attiva e di potenziale controllo sociale.
Ma, una volta aperta la procedura, se ne prevede una possibile circolazione all'interno del tribunale, sotto forma di transito dalla competenza di esso a quella del giudice tutelare e viceversa (artt. 413, comma 4; 418; 429, comma 3). Il che ricorda la protezione giudiziaria del minore, trasmigrabile officiosamente nel tribunale per i minorenni fra procedimento civile de potestate e amministrativo-rieducativo (art. 26, comma 3, l. 835/1935), tra procedimento di adottabilità e de potestate (art. 16, comma 3, l. 184/1983).
Oggettivo è l'avvicinamento allo spirito, alle modalità realizzative, alle esperienze della giustizia minorile. Il giudice tutelare che dispone l'affidamento familiare ex art. 4, comma 1, l. 184/1983 detta "i tempi e i modi dell'esercizio dei poteri riconosciuti all'affidatario" così come fa nei confronti dell'amministratore di sostegno.
Il pubblicismo dell'amministrazione di sostegno anzi sorpassa il diritto minorile nel prevedere la legittimazione processuale attiva dei servizi locali: l'art. 406, comma 3, c.c. fa obbligo ai responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza di una persona versante in condizioni da rendere opportuna l'amministrazione di sostegno, di proporre il ricorso al giudice tutelare o di fornire comunque notizia al pubblico ministero (legittimato al ricorso dal rinvio all'art. 417 c.c.). Legittimazione processuale dei servizi ignota al diritto minorile.
Mette conto notare la ragione di ciò: nell'interesse del minore i servizi non debbono farsi controparte dei genitori e chiedere di comprimerne la potestà: l'azione assistenziale non può rendersi invisa a quella famiglia. Il procedimento per l'amministrazione di sostegno, per contro, non ha essenza conflittuale: il "beneficiario" è indicato dall'art. 406 c.c. come primo fra i legittimati a richiederla.
Non siamo di fronte a un minore, ma a un adulto. Della cui capacità naturale di volere l'amministratore di sostegno può, peraltro, talora dubitarsi. Se ricorre al giudice tutelare, il servizio, che per composizione professionale è in grado di valutare tale capacità, opera sostanzialmente come nuncius della sua volontà. Al limite la supplisce. E questa ipotesi è il punto più delicato. Il giudice tutelare in ogni caso controllerà di persona. Quel ricorso non è se non la speciale forma assunta dall'aiuto sociale nel rivolgersi al giudice.
La citata sentenza 13584/2006 della Suprema Corte ha escluso che nell'amministrazione di sostegno sia imprescindibile il consenso e la capacità del beneficiario di interagire con l'amministratore. Questi lo deve tempestivamente informare circa gli atti da compiere, tuttavia l'art. 410 c.c. considera il caso di contrasto fra i due. Il perimetro dell'istituto giuridico si varca nell'ipotesi "in cui risulti necessaria una limitazione generale della capacità del soggetto".
La problematica del consenso informato nei trattamenti sanitari compiuti in situazioni d'urgenza e di compromessa libertà e capacità espressiva del paziente non può essere qui sviluppata (11). Essa incombe potenziale nel compito di "cura della persona", compreso nell'art. 405 c.c. tra quelli affidabili all'amministratore di sostegno. Si può solo dire che l'art. 32 Cost., la Convenzione Europea di Oviedo sui "Diritti dell'uomo e la biomedicina" del 1997 (rat. ed es. con l. n. 145/2001), l'art. 33, comma 5, l. 833/1978 sui trattamenti sanitari obbligatori stabiliscono principi e regole, in uno spazio giuridico confinante con la bioetica a monte, con il diritto penale a valle: rispetto inviolabile della persona umana, diritto del paziente alla cura, obblighi di soccorso e di cura, dovere di accompagnare gli accertamenti e trattamenti sanitari, anche obbligatori, con "iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione del paziente". Sussidiari i criteri del consenso presunto e del soccorso di necessità quando nessun consenso è ottenibile, collegati al principio di responsabilità professionale, diagnostica e terapeutica del sanitario.
Ma la pratica registra pure una domanda di amministrazione di sostegno in situazioni, anche d'urgenza, in cui la cura della persona non ha un fine immediatamente sanitario e dove il problema sono comportamenti irragionevoli e irriducibili, omissivi o commissivi, del possibile beneficiario, dannosi a lui e talora ad altri, che ne consiglierebbero la coazione fisica. La quale, però, non può porsi in essere se non in tre ipotesi: trattamento psichiatrico obbligatorio in degenza ospedaliera (art. 35 l. 833/1978); reato evocante il dovere della polizia giudiziaria di impedirne conseguenze ulteriori (art. 55 c.p.p.); caso di emergenza sanitaria o di igiene pubblica, o costituente grave pericolo per l'incolumità dei cittadini, tale da legittimare un'ordinanza contingibile e urgente del sindaco (artt. 50, comma 5 e 54, comma 2, d.lgs. 267/2000). Ipotesi fuori delle quali neppure il tutore provvisorio dell'interdicendo risolverebbe il problema della protezione coattiva. Qualora mai il giudice tutelare desse mandato di attuarla all'amministratore di sostegno (magari usando l'art. 344 cpv. c.c. per richiedere la pubblica amministrazione o un ente di assisterlo in un'abnorme esecuzione forzata in personam) il suo provvedimento sarebbe ricorribile in cassazione ex art. 111 Cost.
Tuttavia al giudice tutelare non sembra negabile la possibilità di istituire, a seguito del ricorso, una vigilanza sul soggetto atta a cogliere l'insorgere di una delle ipotesi legittimanti la coazione e, quindi, il presupposto per la nomina dell'amministratore di sostegno. La prassi dei tribunali minorili va tenuta presente: solitamente dietro ricorso del pubblico ministero stimolato dal servizio locale, essi aprono procedure con un decreto provvisorio e urgente diretto a legittimare il servizio a "interventi di vigilanza e sostegno", con prescrizione di riferire sul caso. Una ingerenza che, seppure volta all'aiuto, è già di per sé limitativa della sfera di libertà di chi esercita la potestà sul minore. E che nondimeno rientra fra i "provvedimenti convenienti" adottabili a norma degli artt. 333-336 c.c. anche in via temporanea ed urgente.
Il giudice tutelare ha poteri non meno ampi, esercitabili sia attraverso i "provvedimenti urgenti per la cura della persona interessata (non ancora indicata come "il beneficiario") e per la conservazione e l'amministrazione del suo patrimonio" (art. 405, comma 4); sia per la verifica della fattispecie, potendo "anche d'ufficio" disporre "accertamenti di natura medica e tutti gli altri mezzi istruttori utili al fine della decisione" (407, comma 3). Porre sotto osservazione la condotta del soggetto può essere lo strumento migliore per una diagnosi psichiatrica e per la cognizione del merito, anche al fine di determinare i compiti da eventualmente assegnare all'amministratore di sostegno.
Non si può sottacere che alla protezione di questi soggetti deboli non bastano i c.d. processi a contenuto oggettivo e le agili forme del rito camerale. Arduo problema politico-giuridico è passare dall'attenzione normativa alla vigilanza sociale, conciliandola con i diritti di libertà e privatezza della persona (12). Ma, una volta proposto il ricorso, anteriormente alla pronuncia su di esso, la fase istruttoria (o informativa) non può non implicare ingerenza nella sfera privata della persona nel cui interesse si chiede di provvedere. È snodo da non bloccare per eccesso di garantismo a favore della medesima. Il giudice è già di per sé una garanzia. Perciò appunto, ligio al ruolo, può sentire il bisogno di più convincenti informazioni prima di decidere. Nei tribunali per i minorenni è quotidiano il momento in cui esso, al quale nessuna norma impone una sorta di informazione di garanzia, o decide di sentire subito il soggetto e, se del caso, avvertirlo degli accertamenti necessari, o, a tutela del bene da proteggere (si pensi al delicatissimo approccio al c.d. abuso in famiglia), istituisce senza indugio la forma più acconcia di controllo sul campo. Opporre al giudice tutelare, ai fini dell'amministrazione di sostegno, una tutela rigida e assoluta del diritto di libertà privata potrebbe essere abuso concettuale della parte di questo diritto toccata al solo scopo di verificare se, e in che modo, il suo titolare debba essere aiutato (divenire cioè "beneficiario").
Sta di fatto, in ogni modo, che la vis problematica ed espansiva della materia in oggetto sfida le strutture deputate a gestirla. La legge scommette sulla disponibilità di persone davvero idonee ai compiti dell'amministrazione di sostegno, ma prevedendo di regola la gratuità della stessa (artt. 379-411 c.c.) ed escludendo che ne possano derivare oneri per il bilancio dello Stato (art. 413, u.p., c.c). Legge che può sospingere verso una società più solidale, capace di sussidiarietà, di valorizzare il c.d. "stato sociale di prossimità" (parenti, vicini, volontari) e tutto il "Terzo settore" (coinvolgibile ai sensi dell'art. 408, comma 3, c.c.). Ma che può farlo se funzionerà il nuovo "sistema integrato di interventi e servizi sociali" già menzionato e la rete, da esso prevista, della più ampia partecipazione istituzionale e sociale.
Codicillo sulla difesa tecnica
L'auspicio, ovviamente, non può stare in parallelo con la linea dottrinaria e giurisprudenziale secondo cui nel procedimento per la nomina dell'amministratore di sostegno va applicato l'art. 82 c.p.c. e richiesta a pena di nullità insanabile la difesa tecnica. Postulazione in verità inusitata presso il giudice tutelare (non avanzata neppure con riferimento alla procedura per l'interruzione della gravidanza della minorenne, che pure riguarda la vita del concepito, riconosciuto soggetto di diritto dall'art. 1 l. n. 40/2004). Ma argomentata assumendo, sul piano sostanziale, che qui è in causa la capacità d'agire del soggetto non diversamente che nei giudizi di interdizione e inabilitazione e, sul piano processuale, che di riflesso l'art. 720bis c.p.c. non solo estende all'amministrazione di sostegno gli artt. 712, 713, 716, 719, 720 c.p.c. (in quanto compatibili), ma pure i mezzi d'impugnazione del reclamo alla corte d'appello e del ricorso per cassazione, garanzia, quest'ultima, non riconducibile nell'ambito dei procedimenti camerali di giurisdizione volontaria (13).
Ora è palese che l'oggetto e gli scopi delle tre misure protettive sono diversi: le due datate hanno per oggetto l'infermità di mente e come scopo, visto adesso come strumentale alla protezione dell'infermo, eliminare o ridurre la sua capacità d'agire; la nuova ha come oggetto il pericolo da impossibilità soggettiva di autogestirsi, e come scopo istituire un gestore dotato di poteri sottratti alla sfera giuridica del beneficiario, nella quantità e per il tempo strettamente necessari al suo aiuto. L'art. 427 c.c. ha mitigato il regime dell'interdizione e dell'inabilitazione appunto per ridurne la diversità dall'amministrazione di sostegno. Ma le tre misure sono state collocate due in un capo, una in un altro, a mostrare fisionomia e propensioni diverse: formalismo processuale da una parte, sostanzialismo dall'altra. Non può dirsi che il legislatore, libero di scegliere la forma della tutela giudiziale secondo esigenze anzitutto di stabilità del provvedimento (14), persegua per tutte e tre le misure la formazione del giudicato (15). Il contesto storico e giuridico della riforma dà ragione dell'opzione antiformalista insita nell'amministrazione di sostegno.
La competenza funzionale è stata attribuita al giudice tutelare conforme alle attese maturate nel dibattito svoltosi a partire dagli anni 80 intorno alla c.d. "bozza Cendon" (16). L'auspicio era di un organo capace di dare "semplicità amministrativa" alla soluzione di problemi umani in cui è il principio costituzionale di solidarietà a dovere sopravanzare ogni altro, per assicurare "scelte rapide, poco costose, deformalizzate" (17). Era scontato che il legislatore dovesse decidere sul crinale tra garantismo processuale e protezione assistenziale, garantita pur sempre da un giudice. E chiaro che non si voleva scendesse nel versante del primo, dove sono inevitabili complicazioni costi ed ostacoli.
Se anche per la nomina dell'amministratore di sostegno fosse stata adottata la fictio iuris di configurare il ricorrente come controparte del soggetto da proteggere, il ruolo in particolare dei servizi assistenziali sarebbe risultato antitetico a quello istituzionale. Imporre loro il patrocinio dell'avvocato non si concilierebbe, a prescindere dalla crisi fiscale dello stato sociale, con l'obbligo di attivarsi presso la giustizia (18).
Chi riconosce una continuità ideologica nel protezionismo avviato con la l. n. 154/2001 e proseguito con la 6/2004 si rende ben conto che, se gli ordini di protezione, quantunque diretti contro una parte, possono richiedersi dall'interessato personalmente, è rettilineo che l'amministrazione di sostegno, non richiesta contro nessuno, prescinda dal patrocinio legale (19). La sua oggettività giuridica non è conflittuale ma assistenziale. Il decreto del giudice tutelare non conclude un "giudizio", non accerta un diritto né condanna chicchessia: realizza un unico interesse. Non ci sono "parti" da garantire. Non può esserci soccombenza. Il giudice deve solo verificare i presupposti d'una protezione necessaria. È il dominus assoluto della procedura. Non c'è esecuzione di parte, ma attuazione officiosa a mezzo dell'amministratore di sostegno. Il quale deve riferirgli periodicamente affinché, grazie ai suoi poteri officiosi, esso giudice tenga adeguata la misura sino a quando non la dichiari cessata (artt. 405, comma 5, n. 6; 407, comma 3 e 4; 413, comma 1 e 4, c.c).
Né dovrebbe bastare a irretire nel contenzioso il rilievo che, contro il decreto di secondo grado, è ammesso ricorso per cassazione. In un procedimento camerale d'essenza unilaterale (l'interessato può anche ricorrere in vista d'una propria futura incapacità), ma esposto a imprevedibili applicazioni, ricordare la ricorribilità in cassazione può essere premura per chi, avendo sempre la facoltà di farsi assistere da un avvocato, deduca un diritto violato e il contenuto di sentenza del decreto (20), nonché per la funzione di nomofilachia della Suprema Corte, attivabile anche dietro ricorso nell'interesse della legge (art. 363 c.p.c.). Il principio di realtà, in ogni modo, offre un argomento sussidiario, poiché questa stessa previsione processuale può avere modificato il diritto.
Affidamento condiviso: riforma criptica
Di tutt'altra lega del protezionismo verso gli adulti deboli è quello a favore dei minori figli di genitori che si separano, giunto con la l. n. 54/2006 in una pioggia preelettorale. Lega tenera, di ideologismo empirismo e malcerta progettualità, che vorrebbe connettere una risposta alle istanze dei "padri separati" al nucleo d'una nuova giustizia per la famiglia, non sviluppato per insufficienza politica, ma cripticamente confidato a un maggiore impegno e potere dei tribunali civili in questa materia.
Il diritto del minore di mantenere con i genitori separati un rapporto equilibrato e continuativo, affermato nell'incipit dell'art. 155 c.c, non vuole essere metagiuridico come i tanti "nuovi diritti" declinanti le pretese dell'uomo postmoderno. Nondimeno, privo d'azione, fa chiedere se non contenga solo enfasi su un interesse tutto rimesso alla volontà pubblica di soddisfarlo. L'avvio del capoverso con le parole "Per realizzare la finalità indicata dal primo comma...", dice che l'intera riforma è consequenziaria alla premessa e permette di leggerla come corollario adattivo, nella crisi della coppia, del diritto, analogamente senza azione, sancito nel Titolo I della l. 1983, n. 184: "Il minore ha diritto di crescere nell'ambito della propria famiglia". L'art. 155 c.c. protegge anche il "diritto"del minore a "conservare rapporti significativi" "con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale". Ma c'è ridondanza giuridica. Si tratta di interessi relazionali che il diritto minorile registra e tutela in quanto tali (per espresso nell'art. 12, comma 1, l. 184/1983). Ma l'interiorità pertiene alla psicologia e alla morale. Diritto assoluto della persona è che quei rapporti non siano materialmente impediti.
C'è nella l. n. 54/2006 tensione a un perseguimento totalizzante dell'affidamento condiviso, esplicita nell'art. 4/2, che ne dispone l'applicazione "anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati". Si è usato il sostantivo "genitori", anziché "coniugi" o "parti", perché nei casi di divorzio e nullità del matrimonio non ci sono più coniugi e tra genitori non coniugati l'affidamento dei figli non ha mai contemplato parti nel senso della lite. Ma l'onnicomprensione, anziché contrarre a essenziale linearità la riforma, ha dato al suo intento sistemico modi sfuggenti, atteggiati nei punti cruciali a reticenza, se non ad avventurata rimessione a ciò che sarà per venirne.
Ne risulta abbozzato un sistema a più incognite. Quattro le principali: esiste ancora o no, in rapporto all'affidamento e al mantenimento della prole, la separazione consensuale dei coniugi, e se sì quale, adesso, la sua ragione? Quale natura e portata ha l'affidamento "a un solo genitore" (detto "esclusivo")? Quale il valore delle sanzioni applicabili al genitore che viola il regime dell'affidamento condiviso? Quale l'applicabilità della novella all'affidamento dei figli naturali?
Il riformatore impone senza apparenti alternative il regime dell'affidamento condiviso, la cui vera novità è costituita dal permanere dell'esercizio pieno della potestà sui figli minori in ambedue i genitori nonostante la separazione. A rendere "piglia-tutto" questo regime, la gamma dei poteri prescrittivi confidati al giudice si ispira all'empirismo dell'amministrazione di sostegno. Egli, valutata prioritariamente la possibilità che i minori restino affidati a entrambi i genitori (affidamento alternato ?), indica il genitore collocatario e, nelle questioni di ordinaria amministrazione, "può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente" (previsione necessaria a salvarne la tranquillità da interferenze del genitore fisicamente lontano, altrimenti legittime su ogni decisione corrente relativa al minore). Se non che, mentre il costruttivismo giudiziario dell'amministrazione di sostegno è tutto rimesso alla prudenza del giudice (tutelare), nel mondo della separazione coniugale esiste la consensuale, che pone un primo problema di fondo.
La separazione consensuale
Gli artt. 155 c.c. e 4 l. n. 54/2006 parrebbero denotare tacita abrogazione della norma sull'affidamento della prole nella separazione consensuale (art. 158, cpv., c.c.), la cui speciale disciplina stride in un contesto proteso a realizzare egalitariamente il diritto del minore. La difformità può infatti venire meno se si ritiene detta norma assorbita dall'art. 155 c.c. considerando, fra l'altro, che a questo rinvia l'art. 155sexies, ove è previsto l'ineludibile ascolto del figlio (21).
L'art. 155 c.c. contiene in effetti una indicazione di carattere generale nel dire che il giudice deve prendere atto, se non contrari all'interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori, sia riguardo all'affidamento (comma 2), sia al mantenimento (comma 4). È formulato in modo da potere accogliere ogni accordo dei genitori in proposito. Possibilità che sembra divenuta regola nel finalistico art. 4 della l. n. 54/2006, contemplante l'estensione delle norme sull'affidamento condiviso a richiesta dei genitori. Articolo composto da due commi: il primo, relativo alle pronunce già emesse all'entrata in vigore della stessa legge, indicante i casi di "decreto di omologa della separazione consensuale, di sentenza di separazione giudiziale, di scioglimento, di annullamento, o di cessazione degli effetti civili del matrimonio"; il secondo, destinato al tempo successivo, che ripete le menzioni, aggiungendo il caso dei "procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati", ma non più contemplando le separazioni personali. Omissione che quadra con l'ipotesi abrogatoria. Invero: nel primo comma le separazioni personali sono previste con intento di promozione ex post dell'affidamento condiviso; nel secondo, relativo al diritto ormai vigente, avere omesso la consensuale può ben confermare la scomparsa dell'art. 158 cpv. c.c. Quanto alla separazione giudiziale, sarebbe stato pleonastico tornare a nominarla, dato che l'intera novella si rivolge a essa.
Se non che pesa il fatto che la riforma sostanziale e quella processuale in materia di separazione dei coniugi (leggi n. 80 e 263 del 2005) non abbiano fatto cenno all'art. 158, cpv., c.c. quando sarebbe stato breve statuirne l'abrogazione. E l'interprete non può ritenere questa se non è inequivoca. Il che non si dà nella specie, dominata dall'ambivalenza. La non menzione delle separazioni coniugali nel comma in esame può avere altra spiegazione. Se, invero, nel primo comma i beneficiari della previsione andavano necessariamente tutti indicati, non era così nel secondo: né per quanto concerne i coniugi che si separano giudizialmente, per il già citato motivo di essere i diretti destinatari della legge, né per quanto concerne i separandi consensualmente, ché, se vogliono, hanno facoltà di adottare l'affidamento condiviso, così come possono ai sensi del primo comma.
Ma una tale facoltà scopre il fianco alla legge, poiché rende chiaro che, nella consensuale, se i coniugi possono volere l'affidamento condiviso (e dovrebbero precisare in quali termini), possono pure non volerlo.
A stento si può sostenere che il giudice possa negare l'omologazione perché nell'accordo manca una clausola vincolante quanto meno al principio, inderogabile nell'affidamento condiviso, del "comune accordo" nelle "decisioni di maggiore interesse per i figli relative all'istruzione, all'educazione e alla salute". Sostenere, cioè, che il rispetto di questo principio è divenuto contenuto "necessario" dell'accordo di separazione, alla stregua, ad es., della previsione di cessata convivenza dei coniugi.
È vero che il valore pubblicistico della tutela dei minori, reggente il comma 2 dell'art. 158 c.c., riduce a "rilevanza meramente propositiva endoprocedimentale" gli accordi dei separandi in ordine all'affidamento e mantenimento dei figli, sicché il relativo controllo del giudice investe nel merito ogni punto dell'accordo che coinvolga il loro interesse (22). Ma rispettare il principio dell'affidamento condiviso può attenere alla legittimità dell'accordo, non al merito dell'interesse, che non può essere astratto. E sulla legittimità "la dottrina recente sembra orientata ad estendere il controllo giudiziale anche al contenuto di singoli aspetti dell'accordo concernenti i rapporti fra i coniugi, ma solo in presenza di clausole nulle perché contrarie al buon costume, all'ordine pubblico o a norme imperative, ove cioè i coniugi abbiano disposto in ordine a diritti indisponibili" (23). Mentre la Suprema Corte ha affermato che la potestà genitoriale di entrambi i genitori non è principio di ordine pubblico internazionale (24). Lo ha fatto tenendo presenti le diverse tradizioni e culture degli ordinamenti interni. Prudenza giusta nella società multietnica, che nel diritto di famiglia non può tollerare un tasso di imperatività monoculturale superiore alla coesione sociale realisticamente perseguibile. Né mai sulla separazione consensuale s'è fatta questione di legittimità costituzionale.
Insomma: la riforma si è fermata, realistica ed elusiva, davanti al liberalismo della consensuale, che non si combina con il protezionismo minorile. Laddove i separandi possono avere buoni motivi per concordare un affidamento monogenitoriale, la tutela pubblicistica dell'interesse della prole non può andare oltre un controllo puramente interdittivo (poiché altrimenti sopprimerebbe la fisionomia privatistica di questo tipo di separazione personale) e sommario (non potendo affrontare le variabili da cui dipende l'interesse concreto) di un giudice tanto impotente alle verifiche che nei repertori della giurisprudenza "non esiste quasi traccia di provvedimenti di diniego di omologazione a norma dell'art. 158, comma 2, c.c." (25) .
Dunque l'enfasi sul diritto del minore all'affidamento condiviso è retorica: non si tratta di un vero e indisponibile diritto. Irrigidirsi su di esso potrebbe promuovere le separazioni di fatto (26).
Il riformatore ha voluto credere in ciò che ha scritto. Ma che il giudice possa davvero passare dalle prescrizioni generiche ai dettagli, impuntarsi nello stabilire competenze e modalità di presenza dei genitori, non avendo, neppure nella separazione giudiziale, i mezzi per seriamente conoscerne le risorse personali, è più ingenuo che paternalistico. La pretesa, in particolare, che egli fissi "la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire... all'educazione dei figli" (incongrua alla corresponsabilità insita nella condivisione dell'affidamento) disturba il giudice, che viene moralmente coinvolto, per esempio, nella disputabilità di un'eventuale culpa in educando per danno cagionato dal minore. Il tribunale ordinario non è attrezzato per emettere giudizi di idoneità somiglianti a quelli riservati al tribunale per i minorenni ai fini dell'adozione. E, fra altro, si pronuncia nell'intorbidamento prodotto dalla crisi della coppia.
Siamo alle ragioni per cui, nella pratica, la riforma tende a concludersi in formule di stile, riproducenti o parafrasanti la lettera della legge, smaltita e ridotta a legge bandiera. Anche se variamente vista: anche nel senso di ritenere precluso al giudice della separazione disporre od omologare qualsiasi regime che non contempli il pieno esercizio della potestà da parte di entrambi i genitori, benché ciò possa essere di fatto impossibile o moralmente impensabile (27). Fidenti nell'effetto pedagogico della regola.
L'affidamento a un solo genitore
L'affidamento "esclusivo" (tale è chiamato nel testo dell'art. 152bis c.c.), divenuto oggetto misterioso per assenza di chiarimenti (28), cela oggettivamente potenzialità complesse.
Si dice che - "secondo l'interpretazione che sembra emergere dal testo di legge e dai lavori preparatori" - la potestà continua a essere esercitata da entrambi i genitori "anche quando le parti o il giudice dovessero prevedere l'affidamento esclusivo dei figli ad uno solo dei genitori" (29). Il riferimento positivo è alla frase di apertura del comma 3 dell'art. 155, comma 3, c.c.: "La potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori." Ivi il dogma, intangibile anche nel caso dell'affidamento esclusivo. Benché questo, contemplato in altro articolo, oggettivamente consideri l'ipotesi della non condivisione.
L'art. 155bis c.c. recita: "Il giudice può disporre l'affidamento ad un solo dei genitori qualora ritenga con provvedimento motivato che l'affidamento all'altro sia contrario all'interesse del minore". Non precisa la causa di tale contrarietà, se latamente morale o pratica. Ma è certo che essa non può escludere il giudizio sull'attitudine del genitore al proprio ruolo, che deve anzitutto essere educativo. Lo impongono l'ampiezza connotativa della lettera e l'inserimento nell'art. 155, cpv., c.c. di valutazioni del giudice proprio sulla capacità educativa dei singoli genitori, postulate dal suo potere di fissare diversamente "la misura e il modo" con cui ciascuno deve svolgere il proprio compito educativo. A difficoltà meramente logistiche di uno, o comunque pratiche, dovrebbe rimediare il giudice stesso grazie all'indeterminata modulabilità dell'affidamento condiviso. È la grave inettitudine se non la pravità del genitore ciò che può prevalere sull'interesse del minore a conservare un rapporto "continuativo" con lui.
L'art. 155bis, comma 2, c.c. dispone di fare salvi, "per quanto possibile, i diritti del minore previsti dal primo comma dell'art. 155": ovviamente se residuano margini di attitudine positiva nel genitore escluso. Siamo quindi al cospetto d'una previsione speculare ai provvedimenti sulla potestà di cui agli artt. 330 e 333 c.c. Speculare nel senso dell'immagine invertita: una volta focalizzata la legge sull'interesse del minore e non sulla potestà del genitore, la compressione cade, protettivamente, sul primo e solo di riflesso sulla seconda. L'art. 155bis è avaro di chiarimenti. Nell'ultima parte si limita a squadrare, arcigno e minatorio, il genitore che, senza fondato motivo, domandi per sé l'affidamento esclusivo. Ma è certo che, per un genitore, venire del tutto escluso dall'affidamento è peggio di perdere la potestà (che nella famiglia unita non necessariamente comporta l'allontanamento dal figlio - vedi art. 330, cpv., c.c.). A cotesto genitore può rimanere soltanto l'obbligo di contribuire al mantenimento del figlio.
Se così è, il potere in materia di potestà del giudice della separazione risulta decisamente aumentato. In passato si discuteva della possibile concorrenza di provvedimenti emessi nell'interesse della prole in sede di separazione coniugale e di giustizia minorile. Si riconosceva che quelli di cui agli artt. 155 e 333 c.c., in quanto volti a una regolazione dell'affidamento implicante limitazioni della potestà genitoria nell'interesse del figlio, hanno oggettiva coincidenza. Pacificamente riservata al giudice minorile era la pronuncia di decadenza dalla potestà. Ma il quadro è mutato. L'esclusione di un genitore dal coaffidamento eccede l'art. 333 c.c. Il giudice della separazione che dispone l'affidamento esclusivo non pronuncia una decadenza dalla potestà, ma non può dubitarsi che debba potere escludere il genitore tanto più pienamente quanto maggiore è il pericolo da esso rappresentato per l'intereresse evolutivo del figlio. Questa legge va letta cercando una coerenza nell'ordinamento, che, ove emerga un bisogno di protezione, guarda ora al modo pratico di soddisfarlo, non all'etichetta giuridica dello strumento. Se così non fosse, davanti al genitore inidoneo il giudice della separazione sarebbe disarmato, esasperando non il problema, bensì addirittura il bisogno d'un intervento del giudice della potestà.
Il nuovo sistema sembra per contro rendere più netta ed esclusiva la linea già tracciata da quella giurisprudenza di legittimità che, senza disconoscere la competenza del tribunale per i minorenni radicata nell'art. 38 disp.att. c.c., ha tenuto ferma la competenza del giudice della separazione a emettere ogni provvedimento dispositivo o modificativo delle condizioni di affidamento e di esercizio della potestà dei genitori (30).
In fondo c'è da chiedere che senso e utilità conservi il vecchio distinguo tra esercizio e titolarità della potestà, già appoggiato al comma 2, u.p., dell'art. 317 c.c. e al diritto di vigilanza sulla prole del genitore non affidatario, dal momento che, se il giudice non dispone diversamente, l'affidamento condiviso prevede anche nell'ordinaria amministrazione il paritario accordo dei genitori. La competenza del giudice della separazione a disporre un affidamento letteralmente antitetico al condiviso (dietro "opposizione" a questo, come dice la rubrica dell'art. 155bis c.c.) esprime, nella specifica materia, ampio potere di neutralizzare la potestà del genitore inaffidabile.
La normativa sull'affidamento del figlio minore profila un microsistema chiuso e autoreferente: un giudice funzionalmente competente per l'affidamento, giudice che può scindersi in più organi secondo le competenze territoriali qualora, nello svolgersi di esso, sorgano controversie tra i genitori. In questo caso l'art. 709ter c.p.c. attribuisce la competenza al tribunale del luogo di residenza del minore, conforme alla consolidata giurisprudenza di diritto minorile in tema, appunto, di potestà genitoria.
Le sanzioni applicabili al genitore inadempiente
L'articolo da ultimo citato introduce, nel comma 2, un apparato sanzionatorio volto da un lato a dare autorità al giudice dell'affidamento, da un altro a ribadire la blindatura dell'affidamento condiviso, poiché implicitamente esclude, per lo stesso fatto da esso sanzionabile, un'altra competenza funzionale. Cioè il tribunale per i minorenni.
Si tratta di sanzioni applicabili "in caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento". Il giudice viene dotato d'un ventaglio di mezzi persuasivi e punitivi speciali perché comprimere la potestà sarebbe sconveniente all'affidamento condiviso. Ratio legis: stimolare al corretto esercizio di essa il genitore lasso o in ogni modo inosservante il regime disposto. Nell'assoluta impossibilità di ricondurlo all'ortodossia (si pensi alla sottrazione del minore), può rimediarsi con l'affidamento esclusivo a richiesta dell'altro genitore (art. 155bis, cpv., c.c.).
La prima misura prevista è l'ammonimento: intimazione, da immaginare prospettante atti più duri. E qui irrompe un pubblicismo che da paternalistico si fa autoritario e reciso. Segue infatti l'attribuzione al giudice del potere di "disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori", nei confronti del minore o dell'altro genitore. Che, se non è l'inizio d'una common law nostrana, con il giudice facitore in ambiti predeterminati del diritto compresi i titoli esecutivi, capace di "disporre" alla svelta un risarcimento, non si capisce cosa sia (31). Forse scatto di ottimismo della volontà verso una sbrigativa giustizia per la famiglia. Infine si dà al giudice il potere di "condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria". Norma deragliante dai binari della legge di depenalizzazione 689/1981. Dalla quale sono tenute separate la contestazione dell'infrazione da parte dell'organo di polizia, l'ordinanza-ingiunzione di pagamento della sanzione da parte dell'organo amministrativo, la sua opponibilità davanti al giudice di pace. Nel giudice che accerta sanziona e condanna, reso organo di amministrazione oggettiva meno garantista dell'amministrazione stessa, è obliata la terzietà. Echeggia, meno controllata, quella "pubblica sicurezza familiare" cui si accennava parlando degli "ordini di protezione".
La misura minima della sanzione, 75 euro, fa intendere che gli interventi punitivi possono essere a ripetizione. Ma con procedure, da avviare con ricorso, che possono costare alla giustizia più del risparmiato tribolo sulla competenza intorno alla potestà dei genitori separandi e separati. L'improbabile attivazione di sanzionamenti siffatti non tranquillizza, poiché sottoporli a scrutinio di costituzionalità si fa perciò stesso improbabile. Per il solo fatto di essere legge dispiegano effetti riflessi.
L'affidamento dei figli naturali
All'idea di attrarre, senza clausola di compatibilità, i procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati nella normativa dell'affidamento condiviso forse non è stato estraneo il timore che questa, complicata e destinata a innescare più che prevenire conflitti, aggravi altrimenti la fuga dal matrimonio; e all'ermetismo del relativo dettato il sapere che esso destabilizza, senza sufficiente cognizione di causa, quell'assetto ordinamentale con cui si misurano da oltre trent'anni i progetti di legge sul "tribunale per la famiglia", o "per i minorenni e la famiglia". L'art. 4 cpv. della l. 54/2006 disorienta con riferimento sia al diritto sostanziale, sia all'identificazione del giudice competente a provvedere sulla prole naturale (vige ancora l'art. 317bis c.c. e, in rapporto a esso, l'art. 38 disp.att. c.c.?)
Eppure la famiglia naturale, che si diffonde e cui soprattutto appartengono i soggetti deboli, andrebbe toccata con prudenza e chiarezza. Finora essa ha fruito, per una regolazione giudiziaria dei rapporti tra i genitori e la prole, dell'accesso semplice ed economico alla giustizia minorile. L'articolo applicato era il 317bis c.c., che certamente è rimasto in vigore, se non altro perché disciplina l'esercizio della potestà genitoria finché non si ricorra a un giudice (32). Senza contare che il titolo della l. n. 54/2006 e l'intero suo contenuto si riferiscono alla "materia della separazione dei genitori", mentre i genitori naturali non sono tenuti a convivere e dunque la loro separazione è libera ipotesi fenomenica.
La riforma guarda alla situazione familiare con intento conservativo dei rapporti genitori-figlio, se positivi. La presunzione che nella famiglia legittima rapporti del genere esistano prima della separazione è juris tantum, vincibile allorché il giudice dispone l'affidamento a un solo genitore. Nella famiglia naturale una presunzione simile non c'è. In essa il diritto del figlio "di mantenere un rapporto continuativo con ciascuno dei genitori" dovrebbe presupporre la prova che quel diritto in capo a lui sia sorto.
La novella non assume i rapporti familiari, alla cui tutela mira l'affidamento condiviso, come integrativi dello status di figlio. La potestà genitoria, i doveri e diritti reciproci tra genitori e figli sanciti dall'art. 147 c.c., sistematicamente collegato con l'art. 30 Cost., sono una conseguenza del rapporto di filiazione (33), che non è in causa quando si controverte di essi.
Né si può sottoporre la coppia naturale a una deontologia più rigida di quella imposta alla coniugata, cui si offre la separazione consensuale, con i suoi margini di libertà. E deve aggiungersi che sarebbe recessivo portare l'affidamento dei figli naturali in un recinto giuridico non fatto per loro.
La dottrina spiegò come non si dovessero confondere i poteri del giudice dei minori ex art. 317bis con quelli intrinseci agli agli artt. 330 e 333 c.c., ancorati a ipotesi di condotta del genitore pregiudizievole al figlio. Ritenere che nella famiglia naturale si possa incidere sulla potestà più liberamente che nella famiglia legittima sarebbe incostituzionale, vista l'uguale garanzia assicurata dall'art. 30 Cost. al rapporto educativo familiare (34). Ma era avvertimento teorico giacché, nella pratica, per consentire al tribunale per i minorenni di muoversi scioltamente nel superiore interesse del minore, bastava che il pubblico ministero, legittimato in ogni momento dall'art. art. 336, comma 1, c.c., chiedesse comunque di provvedere sulla potestà dei genitori. Pubblico ministero non semplicemente interveniente come nei processi di famiglia, ma dotato di legittimazione processuale attiva, nel più ampio dispiegamento del compito assegnatogli dall'ordinamento giudiziario (art. 73) di vegliare alla tutela dei diritti degli incapaci.
Non pare bastevole un colpo di penna a ridisegnare tutto ciò. Deve esserci un limite a un modo di legiferare corsaro in cui il non detto prevale sul dettato. Forse la Corte Costituzionale può utilizzare a difesa dell'ordinamento la categoria giuridico-politica della irragionevolezza della norma, quando questa incide senza l'indispensabile esplicitazione.
La legge sull'affidamento condiviso, come si desume dal suo definirlo un diritto, è nel solco della scelta politico-legislativa del 1975 di considerare materia privata gli interessi personali dei singoli membri della famiglia. Scelta che è stata per trent'anni bilanciata dall'interventismo pubblico del tribunale per i minorenni (35). Il quale risulta però oggettivamente osteggiato da questa stessa legge. Che forse ha fatto assegnamento, durante la propria gestazione, sul progetto dell'allora guardasigilli Castelli, di unificare le competenze in materia di famiglia e minorile in sezioni specializzate dei tribunali ordinari. Da cui il pubblicismo nuova maniera ora immesso nel diritto di famiglia in forme strane e incompiute.
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(1) V. Paolini, Un utile strumento strumento processuale contro la violenza domestica: l'ordine di protezione, in Quest. giust., 1995, 671; A. Figone, La legge sulla violenza in famiglia. Commento, in questa Rivista, 2001, 4, 355 ss., 356.
(2) F. Auletta, Misure (civili) contro la violenza nelle relazioni familiari: ipotesi ricostruttive della l. n. 154/2001, in questa Rivista, 2003, 295.
(3) Così, G. Morani, La nuova tutela giurisdizionale, in favore del familiare più debole e bisognoso di protezione contro la condotta pregiudizievole, la violenza e gli abusi nelle relazioni domestiche, in Dir. fam. pers., 2004, 220 ss., 227; perplesso invece G. De Marzo, La legge sulla violenza familiare: uno studio interdisciplinare, in questa Rivista, 2002, n. 5, 537 ss., 547, che stima ragionevole attribuire alla parte solo il potere di proporre personalmente l'istanza.
(4) Pubblicismo da non confondere con il paternalismo, anche se la "protezione delle persone contro se stesse" è stata definita paternalismo. Cfr. F. Cosentino, Il paternalismo del legislatore nelle norme di limitazione dell'autonomia dei privati, in Quadrimestre, 1993, 119, 120. La scelta della l. n. 6/2004 di comprimere al minimo le possibilità di iniziativa della persona disabile si è mossa "in senso antipaternalista". Cfr. R.Caterina, Paternalismo e antipaternalismo nel diritto privato, in Riv. dir. civ., II, 2005, 771 ss., 781.
(5) A. Venchiarutti, Poteri dell'amministrazione di sostegno e situazione dl beneficiario, in Nuova giur. Civ. comm., 2005, I, 9, 16, parla di "superamento degli schematismi tradizionali improntati alla netta contrapposizione tra capacità e incapacità legale". Cfr. P. Cendon, Le origini dell'amministrazione di sostegno, in Id. (cur.) Persona e danno, Milano, 2004, II, 1391 ss.
(6) Corte Cost. 9 dicembre 2005, n. 440, in questa Rivista, 2006, 2, 121 ss., con nota F. Tommaseo, L'amministrazione di sostegno al vaglio della Corte Costituzionale. L'A. nota che la maggiore ampiezza ed elasticità di presupposti fa dell'amministrazione di sostegno uno strumento generale di tutela degli incapaci, rispetto a cui l'interdizione e l'inabilitazione si configurano quali strumenti speciali utilizzabili nei ristretti limiti indicati dalla legge. Rapporto graduato che si riflette nella diversa estensione dei poteri rispettivamente dell'amministratore di sostegno e del tutore o del curatore, che in nessun caso possono coincidere integralmente. Cfr., M.N. Bugatti, Le incerte frontiere tra amministrazione di sostegno e interdizione, in questa Rivista, 2006, 1, 56 ss, nota a Trib. Bologna, 1.8.2005, n. 1996 e Trib. Bologna, 1.8.2005, n. 2016, dove l'A. conclude nel senso che, a seguito della pronuncia della Consulta, sul discrimen tra amministrazione di sostegno e interdizione emergono orientamenti e parametri distintivi suscettibili di applicazione pressoché generale.
(7) Cass., sez. I civ., sent. 12 giugno 2006, n. 13584.
(8) L. Milone, L'amministrazione di sostegno, a cura di S. Patti, cit., 2005, 102, si chiede: "Ci troviamo di fronte ad un livello superiore di protezione dei disabili o ad una terza forma di incapacità ?"
(9) Categoria primieramente concepita da Allorio, L'ordinamento giuridico nel prisma dell'accertamento giudiziale, in Problemi di diritto, I, Milano, 1957, 116 ss.
(10) Non è la prima volta che il giudice tutelare è chiamato a garanzia della persona in una congiuntura ove il dovere di prenderne cura si confronta con i suoi diritti di libertà e autodeterminazione. Ricordiamo l'art. 35 l. 833/1978, che prepone il giudice tutelare alla convalida del trattamento psichiatrico in condizioni di degenza ospedaliera disposto dal sindaco. Al comma 6 di quell'articolo, che gli consente di adottare provvedimenti urgenti per amministrare il patrimonio dell'infermo, si appigliarono i decreti che nel panorama giuridico segnarono la prima comparsa della figura dell'amministratore di sostegno (in un caso con applicazione analogica a favore di un non infermo di mente). Cfr. Pret. Pinerolo, decreti 14 e 16 dicembre 1996, in Dir. Fam.,1997, 1483-1484, con nota Venchiarutti, Protezione del disabile e interventi del giudice tutelare, in cui l'A. segnala che i giudici tutelari non di rado usano il potere provvisorio di cui all'art. 361 c.c. per provvedere a favore anche di maggiorenni, senza che poi segua il processo per l'interdizione o l'inabilitazione.
(11) Cfr. F. Ruscello, Amministratore di sostegno e consenso ai trattamenti terapeutici, nota a trib. Modena, 15.9.2004, in questa Rivista, 2005, 1,85.
(12) In direttive regionali sono previsti "monitoraggi" da parte dei servizi locali delle situazioni di minori "a rischio". Opportunamente il Codice in materia di protezione dei dati personali (d.lgs. n. 196/2003) nell'art. 73 riconosce "di rilevante interesse pubblico" i trattamenti di dati personali sensibili per finalità socio-assistenziali, con particolare riferimento ai minori. Riguardo agli anziani dimoranti nelle proprie abitazioni, numerosi comuni attivano monitoraggi nei periodi estivi ritenuti di rischio. Il diritto deve venire incontro a queste esigenze sociali e solidaristiche, non ignorarle o addirittura contrastarle con allegazioni formalistiche.
(13) F. Tommaseo, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica, in questa Rivista, 2004, 607; Idem, in AA. VV., L'amministrazione di sostegno, a cura di S. Patti, Familia, Milano, 2005, 181-212, in part., 194, ove, rilevato che la forma dell'atto introduttivo è identica a quella prevista per i giudizi di interdizione e inabilitazione, ritiene il carattere contenzioso del processo per la nomina dell'amministratore di sostegno, che produce "provvedimenti dichiarativi assistiti dall'autorità della cosa giudicata essendo pronunciati al culmine di una trama processuale assistita dalla somma garanzia del ricorso per cassazione e pertanto non riconducibile nell'ambito dei procedimenti camerali di giurisdizione volontaria". Conf.: Trib. Padova, 21.5.2004, in questa Rivista, 2004, 6, 607, con nota Tommaseo; Corte app. Milano, 11 gennaio 2005, in questa Rivista, 2005, n. 2, 178, con nota Tommaseo. App. Milano, 15.2.2005, in Dir. fam. e pers., 2005, 829, con nota La Torre, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica e intervento del P.M., 840, ss.; App. Milano, 11.10.2001, in Dir. e giust. 2006, n. 9, 35. Contra: trib. Modena, 22.2.2005, in Dir. Fam e pers., 2005, 954; App.Venezia, 16.1.2006, in Dir. e giust. 2006, n. 9, 32; P. Baccarani, L'amministratore di sostegno, Milano, 2006, 312-322. Sul web altra giurisprudenza e dottrina.
(14) G. Franchi, Controllo giurisdizionale sugli atti di stato civile e forma dei provvedimenti, in Giur. it., 1964, I, 1, c. 32 ss.
(15) Il potere del giudice tutelare di modificare in ogni tempo, anche d'ufficio, le decisioni assunte con il decreto di nomina dell'amministratore di sostegno (art. 407, comma 4, c.c.) "è incompatibile con il sistema del giudicato" Così A.Chizzini, in G. Bonilini, A. Chizzini, L'amministratore di sostegno, Padova, 2004, 322. L'A., pur avvertendo la poca chiarezza della legge, conclude che per questo decreto il procedimento sia "preferibile ricostruirlo nei termini della volontaria giurisdizione" (324).
(16) Cfr. P. Cendon, Infermi di mente ed altri "disabili" in una proposta di riforma del codice civile. Relazione introduttiva e bozza di riforma, in Dir. fam. pers., 1992, 895, ss.
(17) Sulle origini della legge 6/2004 e la sua contestualizzazione internazionale cfr. E. Calò, Amministrazione di sostegno, Milano, 2004.
(18) Cfr. M. Paladini, Amministrazione di sostegno e interdizione giudiziale: profili sistematici e funzionalità della protezione alle caratteristiche relazionali tra il soggetto debole e il mondo esterno, in Riv. dir.civ, 2005, II, 585, ss., in part. 601.
(19) Cfr. Paladini, Amministrazione, cit., 600. L'A., dato atto delle diversificate opinioni espresse su questo punto dai più autorevoli studiosi del processo civile, rileva che "proprio la natura che la riforma del 2004 ha attribuito anche ai provvedimenti di interdizione e inabilitazione - misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia - induce a rimeditare la premessa originaria costituita dall'asserita necessità dell'assistenza tecnica in tali procedimenti. Non trattandosi di procedimenti "contro l'interdicendo o l'inabilitando, bensì di procedimenti nell'interesse degli stessi soggetti, non pare che essi possano essere equiparati ai procedimenti di natura contenziosa che richiedono l'assistenza tecnica del difensore".
(20) Cfr. Cass., I, 6 febbraio 1993, n. 1502 in Giur. it., 1994, I, 1615, con nota C. Di Bartolomeo, che ha ritenuto ammissibile il ricorso ex art. 111 Cost. avverso un decreto di rimozione del tutore in una procedura di adottabilità. E ciò in quanto quel provvedimento censurava un affidamento disposto dal tutore preludendo alla revoca dello stesso, fatto che, a prescindere dal carattere provvisorio o definitivo dell'affidamento, può sempre pregiudicare il diritto del minore alla salute psico-fisica.
(21) Ascolto previsto dall'art. 12 Conv. Onu 1989 sui diritti del fanciullo, rat. ed es. con l. n. 176/1991, richiamato da Corte Cost., sent. 30 gennaio 2001, n. 1. L'informazione e consultazione del minore, in tutti i procedimenti che lo riguardano, è prevista dall'art. 3, Conv. Eur. Strasburgo 1966, sull'esercizio dei diritti dei bambini, rat. ed es con l. n. 77/2003.
(22) C. Lumia, La separazione consensuale, in Trattato di Diritto di Famiglia, diretto da P. Zatti, Vol.I, Tomo II, Milano 2002, 958 ss., p. 995. Cfr. Cass.1995, n. 2700, secondo cui al giudice, ai sensi dell'art. 158, cpv.,c.c., compete una penetrante indagine circa la conformità delle condizioni inerenti l'affidamento e il mantenimento dei figli minori al loro interesse. Ma dottrina e giurisprudenza sono vaghe o mute in punto di esempi.
(23) Così M. Sesta, Diritto di famiglia, II ed., Padova, 2005, 282. Conforme, Dogliotti, Separazione e divorzio, Torino, 1995, 14; cfr. F. Scardulla, La separazione personale dei coniugi e il divorzio, IV ed., Milano 2003, 104, secondo cui i coniugi non possono pretendere che sia omologato un accordo in contrasto con le norme inderogabili che disciplinano il matrimonio. Osserviamo che il concetto dovrà essere aggiornato e approfondito, in quanto il diritto del minore sancito nel primo alinea dell'art. 155 c.c., esteso alla situazione dei figli naturali, non rientra fra le norme che disciplinano il matrimonio. I "doveri verso i figli" sinteticamente scolpiti nell'art. 147 c.c. parrebbero ora accresciuti, ma da una normativa a teleologia speciale, diretta al regime della separazione e avente come destinatario non ciascun genitore, bensì il figlio minore nei suoi rapporti con la coppia genitoriale e con la parentela allargata (se stati "significativi").
(24) Cass. 9 giugno 2005, n. 12169.
(25) E. De Feis, Separazione consensuale: difficile equilibrio tra autonomia privata e tutela dei figli minori, nota a App. Caltanissetta, 6-12 aprile 2005, in questa Rivista, 2006, 191 ss., 195.
(26) Cfr., L. Sacchetti, Dell'affidamento congiunto imposto, nota a Trib. Venezia, 22 gennaio 2003, in questa Rivista, 2003, 241 ss., 246.
(27) Cfr. G. Dosi, Le nuove norme sull'affidamento e sul mantenimento dei figli e il nuovo processo di separazione e di divorzio, Supplemento a Dir. e giust., n. 23/2006, 112-114.
(28) Cfr. M. Marino, Separazione e divorzio, Il Sole 24 ore, Milano, 2006, 50, che nota nella legge la singolare omissione di ogni caratteristica dell'affidamento esclusivo.
(29) Dosi, Le nuove norme, cit, 24, 28-29.
(30) Cfr. Cass. 1562/1987, che ha riservato al tribunale per i minorenni il solo provvedimento ablativo della potestà, cui il giudice ordinario deve adeguarsi; Cass. 1998, n. 3222, che, ritenuta la competenza del tribunale per i minorenni anche a provvedere ex art. 333 c.c., ha ribadito che il giudice ordinario deve tenerne conto come factum superveniens; Cass. 2000, n. 1213, con ulteriori considerazioni, in questa Rivista, 2000, 462, con Il commento, di F. Tommaseo.
(31) Non occorreva questa previsione per fare entrare il danno da violazione dei precetti relativi all'affidamento condiviso, a titolo di "illecito endofamiliare", nel catalogo in espansione del danno aquiliano esistenziale. Su cui, cfr. G. Facci, Il "nuovo danno non patrimoniale" nelle relazioni familiari, in questa Rivista, 2005, 3, 304 s.
(32) Cfr. A. Bucci-A.M. Soldi, Le nuove riforme del processo civile, Padova, 2006, 149, secondo cui, mancando "una specifica regolamentazione" della crisi della famiglia naturale, l'art. 38 disp. att. c.c. ne attribuiva la competenza al tribunale per i minorenni, sicché ora subentrerebbe quella del tribunale ordinario, "ferma restando la specifica funzione regolatrice del tribunale per i minorenni solamente in ordine alla potestà genitoriale" .
(33) Cfr. T. Montecchiari, La potestà dei genitori, Milano 2006, 24.
(34) Così M. Giorgianni, Commentario al diritto italiano della famiglia, diretto da Cian, Oppo, Trabucchi, Padova, 1992, IV, 341.
(35) Cfr., M.Sesta, Privato e pubblico nei progetti di legge in materia familiare, in Studi in onore di Pietro Rescigno, II, Diritto privato, I, Persone, famiglia successioni, proprietà, Milano, 1998, 811 ss., 826.