Lamberto Sacchetti



ALLONTANAMENTO DELL'AUTORE DELLA VIOLENZA DALLA CASA FAMILIARE: UN PROBLEMA APERTO

ALLONTANAMENTO DELL'AUTORE DELLA VIOLENZA DALLA CASA FAMILIARE: UN PROBLEMA APERTO

Lamberto Sacchetti

FONTE
Famiglia e Diritto, 2001, 6, 664
Violenza

Sommario: Disparità fra protezione dei minori e degli adulti dal violento in famiglia - Il difficile rapporto fra protezione del minore repressione penale - Amministrazione della protezione e suoi limiti
La legge 28 marzo 2001, n. 149 ha introdotto negli artt. 330 e 333 c.c., relativi alla decadenza o alla limitazione della potestà dei genitori, la possibilità che il giudice disponga «l'allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore».
Disparità fra protezione dei minori e degli adulti dal violento in famiglia
L'art. 37 della L. 28 marzo 2001, n. 149 ha novellato gli artt. 330 e 333 c.c. aggiungendovi una frase che dà al tribunale per i minorenni, nell'assumere provvedimenti sulla potestà dei genitori, il potere di disporre l'allontanamento dalla famiglia «del genitore o del convivente che maltratta o abusa del minore». Provvedimento che, in caso di urgente necessità, può adottarsi in via immediata e provvisoria a norma dell'art. 336, comma 3, c.c. e che permette di risparmiare al minore vittima di un abuso in famiglia il danno ulteriore di subire egli l'allontanamento da casa, se non v'è altro modo di tenerlo al riparo dall'abusante.
Poiché allontanare invece il minore è l'atto che più espone la giustizia minorile a contestazioni, poterlo evitare con una più coerente e piena protezione della sua persona parrebbe conquista notevole del diritto minorile. Il quale certo non poteva rimanere indietro rispetto al diritto comune, cui la immediatamente successiva L. 4 aprile 2001, n. 154, dedicata al contrasto della violenza in famiglia in generale, era per fornire appunto lo strumento dell'allontanamento del soggetto reo di grave pregiudizio all'integrità fisica o morale, ovvero alla libertà personale di un altro componente del nucleo. Se non che dal parallelismo delle due leggi sorgono seri interrogativi sulla portata reale della conquista minorile.
La l. n. 154, strutturata intorno a questo strumento, è ricca di previsioni, incidenti su tutti e quattro codici; la L. n. 149 per contro è, con riferimento a esso, pressoché ermetica, introducendolo nei due detti articoli in appena due righe. Fatto che potrebbe indicare volontà legislativa di confidarne scioltamente al giudice la gestione nell'interesse del minore, se non fosse che proprio la secchezza del dettato sarà ciò che gli renderà critico utilizzarlo.
La questione principale è che il diverso spessore normativo si traduce in grave disparità di tutela giuridica dei soggetti protetti dalle due leggi. Il tribunale per i minorenni ha un nudo potere di allontanamento dell'abusante, laddove il giudice ordinario può disporre, sia in sede penale che civile, oltre al suo allontanamento, provvedimenti accessori per vietargli di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, al luogo di lavoro di essa, al domicilio di altri prossimi congiunti o di altre persone e, in sede civile, anche ai luoghi di istruzione dei figli; potendo sempre disporre, a carico dell'espulso da casa, la misura patrimoniale provvisoria del pagamento periodico di un assegno a favore delle persone che, per l'effetto, rimangano prive di mezzi adeguati, nonché ordinare al suo datore di lavoro di detrarre l'importo dell'assegno dalla retribuzione e versarlo direttamente al beneficiario. La disuguale tutela offerta dalle due leggi può delineare un'alternativa: fra adeguamento della tutela minorile alla adulta, o profili d'incostituzionalità per disuguale trattamento in situazioni omogenee.
Il tribunale per i minorenni non può arrogarsi i poteri attribuiti al giudice ordinario dalla l. n. 154 (con apposito corredo processuale nell'art. 736 bis c.p.c.). La sua giurisdizione protettiva, fra l'altro, non è assistita dal potere di costituire titoli economici. Per metterlo in materia di allontanamento alla pari dell'altro tribunale occorre un intervento legislativo, o una pronunzia additiva della Corte costituzionale.
Superare la disuguaglianza avrebbe però un costo pesante per la protezione minorile, poiché il principio di uguaglianza è invocabile pure dal soggetto che si vuole allontanare da casa, cui la l. n. 154 tende ad assicurare il rigoroso garantismo del processo penale, allargando le possibilità che già erano fornite dalle misure cautelari coercitive e limitando la casistica della introdotta misura civile degli «ordini di protezione contro gli abusi familiari» alle fattispecie in cui l'abuso non costituisca reato perseguibile d'ufficio (art. 342 bis, c.c.).
Ove mai la tutela minorile si avviasse, per motivi di uguaglianza e analogia, verso i principi della L. n. 154, l'allontanamento previsto dalla l. n. 149 avrebbe spazio unicamente allorché il fatto non costituisce reato (abusi meramente psicologici, sempreché non attingenti gli estremi del maltrattamento o della violenza privata), o quando il reato è procedibile a querela (percosse o lesioni personali guarite in non più di 20 giorni, non abitudinarie, giacché altrimenti si configurerebbe il reato di maltrattamento). In tutti gli altri casi, se il reo è maggiorenne, al tribunale per i minorenni sarebbe precluso l'ordine di allontanamento, stante la competenza del giudice penale ordinario.
Insomma, per la protezione dei minori il riferimento alla l. n. 154 è a doppio taglio: da una parte prospetta le statuizioni accessorie disponibili dal giudice ordinario, da un'altra un effetto che può largamente bloccarla.
Il difficile rapporto fra protezione del minore repressione penale
Sul rapporto, sempre stato problematico, fra protezione giudiziaria dei minori e persecuzione penale dei loro offensori la L. n. 154 getta un riverbero da cui il diritto minorile stenterà a ripararsi.
Tuttora il giudice dei minori, mosso dall'urgenza di provvedere e dall'intuitiva convenienza di modulare interventi socio-psicologici sganciati dalla repressione penale, suole comprimere la potestà dei genitori a prescindere dall'accertamento penale della verità dei fatti loro imputabili. Il problema dell'accertamento esiste, ma, nella pratica, la protezione del minore è affrancata dalla pregiudizialità del giudicato sul fatto reato. Diversi, indubbiamente, sono l'oggetto e il fine del processo penale rispetto all'oggetto e al fine della protezione minorile. Il primo guarda all'oggettiva e conchiusa storicità del reato; la seconda al pregiudizio e ai bisogni anche futuri del minore, concentrata non su un puntiforme capo d'imputazione ma sulla situazione di lui in senso ampio. Situazione in cui non mancano di rilievo i vissuti di sofferenza relazionale, cioè aspetti strettamente soggettivi.
Un provvedimento provvisorio incidente sulla potestà genitoria può, al limite, basarsi sulla sola accusa di abuso sessuale proveniente dal minore, siccome rivelatrice, nell'ipotesi minimale, d'un suo disturbo psicologico allarmante di per sé e quasi sempre connesso a problemi nei rapporti primari. È la fattispecie più conturbante che si presenta al giudice dei minori: ove l'alternativa di non fare nulla, in attesa di improbabili prove intorno all'abuso, significa abbandonare il minore a se stesso. Molti «interventi di vigilanza e sostegno» dei servizi sociali, disposti nella famiglia dai tribunali per i minorenni sotto forma di prescrizioni, al fine di meglio conoscervi e influenzarvi nell'interesse del minore le interne dinamiche, si legittimano in quest'ardua deontologia, nello stretto fra eterogenei valori costituzionali: da una parte le garanzie dell'imputato, dall'altra l'imperativo di proteggere il minore. Se si riesce a tenere le due istanze in ambiti processualmente incomunicanti esse possono coesistere. Ma se vengono a contatto, una delle due deve prevalere. E la civiltà giuridica soffre alla scelta.
Lo sforzo di separare la protezione del minore dalla persecuzione penale del genitore ha segnato decenni di giustizia minorile. La cui praticata autonomia sottende il pensiero che a giustificare l'intervento protettivo non occorre una fattispecie collimante con astratti eventi penali, né la certezza di reati in concreto, bensì il complessivo affiorare d'un pregiudizio del minore.
Nella politica del diritto, quella pratica giudiziaria e la sottesa teorizzazione sono state possibili perché, nel caso estremo, allontanato da casa era appunto il minore, onde, se i decreti di allontanamento davano luogo a contestazioni anche pubbliche, queste non facevano tanto leva sui diritti degli adulti quanto sulla discutibilità di infliggere un siffatto trauma «protettivo» al minore. Ma adesso che lo si può evitare allontanando l'offensore, il fuoco della disputa, sotto la pressione di analogie traenti verso principi penalistici di garanzia dell'imputato, è per spostarsi dalla misura protettiva del minore alla coercizione del supposto abusante. Non il modo come è stata esercitata la potestà genitoria in rapporto all'interesse del minore sarà determinante per queste decisioni, ma la dimostrazione del maltrattamento od abuso. E il conflitto sarà assai più combattuto, non tanto perché avremo un adulto in lotta per la propria libertà personale, quanto perché dominante diverrà il tema della prova d'accusa. Sicché non potrà non avvertirsi che la l. n. 154, avente ugualmente ad oggetto l'allontanamento da casa dell'adulto, privilegia il processo penale, sottoponendo di regola ai suoi rigori la prova del fatto motivante la misura. A cadere in discussione alla fine, in nome dei principi d'uguaglianza e di difesa, sarà la sfera di intervento civile del tribunale per i minorenni, se la si continuerà a ritenere pressoché indipendente dall'azione penale.
Il legislatore ha sottovalutato il pericolo rappresentato, per la protezione dei minori, dal magnetismo dei principi reggenti il processo penale. Esso stesso lo ha subito. La l. n. 149 è quella medesima che avrebbe introdotto garanzie tipiche della procedura penale (compresa la figura del difensore d'ufficio) nei procedimenti di adottabilità e sulla potestà dei genitori, se il Governo non avesse sospeso il vigore delle sue disposizioni processuali con il decreto legge convertito nella l. 24 aprile 2001, n. 150.
La mossa politica di ingaggiare la giustizia minorile sul terreno degli allontanamenti autoritativi di figure adulte può dimostrarsi incauta, destinata com'è a mettere allo scoperto il punto critico dell'intervento giudiziario minorile. Lo farà il problema dell'urgenza, sempre più presente nella casistica della protezione e che rende immediato il rischio di collisione tra due valori costituzionali: il bisogno di tutela dei minori, indilazionabile, e la non presunzione di colpevolezza dell'imputato, con il suo tempo processuale di resistenza. Non risulterà facile risolverlo neppure alla Corte costituzionale se dovrà pronunciarsi.
Difficile invero sostenere che questa misura protettiva minorile, analoga nella sostanza, sebbene civilistica, alla misura cautelare penale del divieto di dimorare in un determinato luogo, possa prescindere dai «gravi indizi di colpevolezza» tassativamente richiesti nel processo penale come condizione generale di applicabilità d'ogni misura cautelare. Difficile scinderla dalla valutazione probatoria del fatto causativo nella sua astratta consistenza penalistica, soprattutto quando il reato è procedibile d'ufficio.
Teniamo presente che l'abuso dei minori integra quasi sempre una fattispecie penale procedibile d'ufficio, quanto meno una violenza privata, ma che di rado i procedimenti minorili civili figliano processi penali. Le stesse procure della Repubblica per i minorenni raramente denunciano a quelle ordinarie i fatti da cui si desumono gli stati d'abbandono a fondamento delle dichiarazioni di adottabilità, o il grave pregiudizio del figlio motivante decadenza del genitore dalla potestà. Una sorta di stato di necessità socio-assistenziale fa porre in sordina la difesa sociale per non compromettere il ruolo dei servizi e l'intera politica del diritto sul fronte della protezione.
La giustizia minorile civile si è espansa grazie a una spinta generata proprio dal suo stretto collegamento con il mondo dell'assistenza. È una creatura dello stato sociale e delle sue mediazioni. Vive di proprie logiche e delicati equilibri. La si può anche cambiare. Ma sapendo cosa si vuole. Si può volere, per esempio, più giurisdizione e meno protezione. Non si può volere tutto: la difesa addirittura obbligatoria nei procedimenti minorili civili e mano libera al tribunale per i minorenni per allontanare ogni violento dall'abitazione del minore.
Amministrazione della protezione e suoi limiti
L'impressione è che, in una data congiuntura, il legislatore abbia voluto strafare, mirando più alle conquiste nominali che alla logica giuridica e all'effettualità di esse. Non voleva meno protezione, anzi. Ma, fuori del processo penale, l'ha cercata in direzione poco giurisdizionale, destinata sul versante minorile all'impaccio.
Il fondamento dogmatico della giurisdizione protettiva minorile, insito nel bisogno d'un giudice specializzato allorché oggetto del decidere sia la sostituzione, totale o parziale, della potestà genitoria, non sembra illuminare la l. n. 149 ove inserisce negli artt. 330 e 333 c.c. l'allontanamento del «convivente che maltratta o abusa del minore».
Sottoporre chi non è genitore all'intervento del tribunale per i minorenni mostra tutta la propria anomalia allorché allontanato sia il proprietario o locatario della casa familiare. La misura non costituisce un diritto soggettivo (come nelle fattispecie in cui il giudice dispone l'assegnazione della casa familiare nelle procedure di separazione coniugale o divorzio, provvedimento di natura contenziosa e costitutiva, che «trova la sua fonte originaria nella convivenza fondata sul matrimonio e sulla solidarietà economica di cui all'art. 143, comma 3, c.c.») (1): crea una semplice soggezione all' imperium . La quale, se a tempo indeterminato, nei confronti di persona senza obblighi verso il minore è irragionevole, anzi arbitraria. Nella l. n. 154 un termine, fissato anche a favore del soggetto avente obblighi familiari, lo leggiamo: sei mesi, prorogabili su istanza di parte «se ricorrano gravi motivi per il tempo strettamente necessario». Sul punto la l. n. 149 è invece muta, onde parrebbe ineludibile il ricoso integrativo all' analogia legis , se non si intende riconoscere al tribunale per i minorenni una specie di potere di requisizione per pubblico interesse (minorile).
Il fatto è che l'intera normativa di contrasto non penale della violenza in famiglia inclina al contenuto oggettivamente amministrativo, corrispondente a quel bisogno d'autorità che fonda l'amministrazione come tutela diretta e concreta del bene eletto dal legislatore. Guardiamo gli «ordini di protezione» introdotti dalla l. n. 154 nel codice civile. Benché emessi con procedura di tipo cautelare, non hanno carattere di tutela giurisdizionale interinale d'un diritto nelle more della pronuncia definitiva: non v'è un merito da accertare, non hanno un seguito processuale ma efficacia a termine. Vogliono semplicemente assicurare alle vittime una sospensione del maltrattamento domestico. Il giudice civile vi svolge una funzione di ordine pubblico (familiare). E forse ciò ha condizionato il legislatore della l. n. 154, che, pago di rispettare l'art. 13, comma 2, Cost. nel prevedere un decreto motivato del giudice, non ha stabilito altra garanzia processuale del soggetto da allontanare se non che il giudice lo debba sentire.
Avere introdotto in parallelo analoga misura nel diritto minorile si giustifica in quanto la si applichi ai genitori. In tale ottica può anche reputarsi che non averla sottoposta a un termine massimo di durata abbia in sottinteso che una loro inidoneità al ruolo non conosce in natura convalescenza automatica. Se non che la l. n. 149, accomunando al possibile allontanamento dei genitori quello del convivente, dal quale non può pretendersi idoneità alcuna, si fa oscura, velleitaria e asistematica. Avrebbe senso in un «tribunale per la famiglia» che fosse competente a giudicare ogni fatto di interesse familiare. Nel tribunale per i minorenni la norma stride e si impronta a poteri quasi commissariali di difesa diretta del minore.
In verità, se un convivente abusa del minore, chi sul minore esercita la potestà avrebbe pieno titolo per proteggerlo: estromettendo l'abusante o portandosi il minore in altra dimora. Se non ne ha la forza, gli si offre l'art. 5 della l. n. 154 per chiedere, in nome del minore, l'ordine di protezione del giudice ordinario. È nell'ipotesi della sua inerzia che dovrebbe agire la giustizia minorile. Non contro il convivente abusante, bensì contro chi si appalesa inidoneo a proteggere il figlio. Soggetto cui il tribunale per i minorenni dovrebbe prescrivere di rimuovere il pericolo se non vuole che provveda esso a collocare il minore in luogo sicuro.
La novella, del resto, ha conferito il potere di allontanamento al tribunale per i minorenni nel contesto di articoli presupponenti una condotta genitoriale di «grave pregiudizio» (art. 330 c.c.), o «comunque pregiudizievole al figlio» (art. 333 c.c.) e non contemplanti l'audizione del convivente (art. 336 c.c.). Articoli che comportano «una sorta di disciplina speciale rispetto a quella generale» della l. n. 154 (2) e fanno sì che la competenza funzionale del detto tribunale, per una implicita forma di speciale connessione determinata dall'età minore della vittima, divenga attrattiva della competenza a provvedere anche contro un convivente privo di potestà su di lei. Ma se così è deve seguirne che lo stesso tribunale, ove non riscontri il presupposto di una condotta genitoria in nesso causale con l'abuso del convivente, deve declinare la competenza, ancorché abuso sussista. D'altra parte è chiaro che, qualora il genitore maggiorenne fosse per avventura egli pure vittima del violento, alla sua protezione non potrebbe provvedere l'organo minorile.
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(1) Così A.Villa, Assegnazione e poteri del giudice in materia di casa familiare, nota a ord. Trib. Milano 29 ottobre 1999, in Giur. it., 2001, 1175 ss., con bibliografia; ma vedi pure, Dogliotti, Separazione e divorzio, Torino, 1995, 88 ss.; 235 ss.
(2) Così A. Figone, La legge sulla violenza in famiglia , in Famiglia e diritto, 2001, n. 4, 355-359, in particolare 357.