Alberto Figone, La legge sulla violenza in famiglia



LA LEGGE SULLA VIOLENZA IN FAMIGLIA

LA LEGGE SULLA VIOLENZA IN FAMIGLIA

di Alberto Figone

FONTE
Famiglia e Diritto, 2001, 4, 353
Violenza


Sommario: I profili penali - Gli ordini di protezione in ambito civile - Profili processuali
Si discute da molto tempo se la nozione di violenza emergente dal diritto civile sia differente rispetto a quella del diritto penale e, magari, se all'interno dello stesso diritto civile possano distinguersi differenti nozioni di violenza (ad es. in ambito contrattuale, nel settore dei diritti reali e del possesso, nel diritto di famiglia). Talora si considera la violenza nozione generalissima che trascende ogni partizione del diritto e che potrebbe tendenzialmente coincidere con il concetto di antigiuridicità.
Certo la l. 4 aprile 2001, n. 154 non si propone di risolvere, né potrebbe farlo, tali questioni probabilmente irresolubili, ma è abbastanza significativo che essa tratti, in un medesimo contesto, della violenza in diritto civile e penale, prefigurando una reazione unitaria dell'ordinamento al fenomeno violenza, con l'assunzione, come si vedrà, dei medesimi provvedimenti, da parte sia del giudice civile, sia del giudice penale.
La l. n. 154/2001 ora richiamata ha introdotto significative innovazioni ai codici di rito, civile e penale, nonché al codice civile.Il legislatore ha previsto una serie di misure di tipo cautelare, finalizzate, come espressamente indicato nella rubrica della legge, contro la «violenza nelle relazioni familiari».
Con tale locuzione si è inteso far riferimento a situazioni di grave pregiudizio all'integrità fisica o morale, ovvero alla libertà, di un componente del nucleo familiare, anche a prescindere dall'esistenza di un rapporto di coniugio, imputabili ad un altro componente del gruppo medesimo.In presenza di siffatte situazioni, il soggetto interessato potrà chiedere al giudice civile un «ordine di protezione», tra quelli che il nuovo art. 342 ter c.c. tipizza e contempla; ciò peraltro, a condizione che i fatti non integrino reati perseguibili d'ufficio, ovvero - è da aggiungere - non sia stata presentata querela, ove ricorrano fattispecie criminose così perseguibili.Altrimenti, nell'interesse della persona offesa, spetterà al pubblico ministero chiedere al giudice (delle indagini preliminari, ovvero del dibattimento) l'adozione della corrispondente misura cautelare provvisoria, «in caso di necessità o di urgenza», in base al nuovo comma 2 bis dell'art. 291 c.p.p.
Duplice è pertanto la reazione dell'ordinamento avverso la violenza in famiglia: ad un intervento di tipo civilistico se ne affianca uno di tipo penalistico, quando più grave sia la violenza, indipendentemente dalla (e addirittura anche contro la) volontà della persona lesa.
I profili penali
Per la verità, per quanto riguarda specificamente l'aspetto penale, la nuova disciplina è assai meno innovativa rispetto al civile.Alle esigenze sottese alle misure cautelari ex novo introdotte infatti già si faceva fronte in passato utilizzando all'occorrenza, senza oltrepassare i limiti imposti dalla tipicità, le misure coercitive del divieto e dell'obbligo di dimora di cui all'art. 283 c.p.p. Sta di fatto che il nuovo art. 282 bis c.p.p. (introdotto dall'art. 2 l. n. 154/2001) viene a rendere tipiche prassi pregresse.
Le nuove misure possono essere disposte, in base ai principi generali di cui all'art. 280 c.p.p., solo quando si procede per delitti puniti con l'ergastolo o con la reclusione superiore nel massimo a tre anni, a danno dei prossimi congiunti (individuabili secondo il disposto dell'art. 307 c.p. in coniuge, parenti e affini).È prevista, peraltro un'eccezione, avuto riguardo non già alla misura della pena, bensì al titolo di reato per cui si procede; in questi casi pertanto le misure possono essere adottate pur a fronte di una pena edittale inferiore nel massimo a quella sopra individuata: violazione degli obblighi di assistenza familiare (art.570 c.p.), abuso di mezzi di correzione o di disciplina (art. 571 c.p.), prostituzione minorile (in particolare nell'ipotesi di cui al comma 2 dell'art.600 bis c.c.), pornografia minorile (nell'ipotesi di cui al comma 4 dell'art.600 ter c.p.c.), detenzione di materiale pornografico (art.600 quater c.p.), violenza sessuale (specie nell'ipotesi attenuata di cui al comma 3 dell'art.609bis c.p.), atti sessuali con minorenne (nell'ipotesi attenuata di cui al comma 3 dell'art.609quater c.p.), corruzione di minorenne (art.609 quinquies) e per violenza sessuale di gruppo (nell'ipotesi attenuata in forza del richiamo all'art.609 bis, comma 3, c.p.).
Si prevedono tre diverse tipologie di provvedimenti cautelari, autonome, ma collegate tra di loro.Ove la richiesta del pubblico ministero fosse accolta, il giudice potrà: 1) prescrivere all'imputato di lasciare immediatamente la casa familiare, ovvero di non farvi rientro (qualora l'imputato si trovi altrove, anche perché ad es. in stato di detenzione) e di non accedervi senza l'autorizzazione del giudice, previa l'eventuale previsione di determinate modalità di visita; 2) prescrivere altresì all'imputato, qualora sussistano ragioni di tutela dell'incolumità della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti, di non avvicinarsi a luoghi determinati, frequentati dalla persona stessa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia d'origine o dei prossimi congiunti; è fatto salvo il caso in cui la frequentazione sia necessaria per motivi di lavoro: il giudice potrà allora prescrivere le relative modalità ed imporre limitazioni; 3) ingiungere il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi, che per effetto della misura cautelare disposta rimangano prive di mezzi adeguati, eventualmente con versamento diretto da parte del datore di lavoro dell'obbligato (si tratta, come è evidente, di previsione assai singolare che attribuisce al giudice penale una competenza squisitamente civilistica).
I provvedimenti di cui sub 2) e 3) presuppongono necessariamente sia stato disposto (anche se non contestualmente, ma in precedenza) l'allontanamento dalla casa familiare di cui sub 1), tanto è vero che si caducano o perdono efficacia quando questo sia revocato.Il provvedimento di cui sub 3), se disposto a favore del coniuge o dei figli, perde efficacia altresì ove sopravvenga l'ordinanza presidenziale nel procedimento di separazione, ma anche di divorzio, ovvero altro provvedimento del giudice civile in ordine ai rapporti patrimoniali tra coniugi o al mantenimento dei figli.In altri termini viene riconfermato all'autorità giudiziaria civile il potere di determinare quanto dovuto per il mantenimento del coniuge o di figli (in sede di separazione o di divorzio, ma pure di procedimento ex art. 148 c.c., a favore della filiazione tanto legittima quanto naturale).Il provvedimento del giudice penale in ordine all'assegno può essere modificato (al pari degli analoghi provvedimenti emessi in sede civile) ove abbiano a mutare le condizioni dell'obbligato o del beneficiario; lo stesso viene revocato se la convivenza riprende.
Gli ordini di protezione in ambito civile
Ben più articolata (e per diversi aspetti problematica) l'innovazione legislativa nel settore civilistico.
È stato infatti inserito nel primo libro del codice civile un nuovo titolo («IX bis») rubricato «Ordine di protezione contro gli abusi familiari» (artt. 342 bis e ter c.c.).Gli «ordini di protezione» non sono altro che quelle stesse misure cautelari, che possono essere assunte dal giudice penale e di cui si è detto.In altri termini, il legislatore, a fronte di episodi di «violenza nelle relazioni familiari» ha previsto un doppio binario di soluzioni, a seconda che sussistano o meno gli estremi di un reato perseguibile d'ufficio. Chiara è la ratio legis : offrire forme di intervento articolate ed incisive in tutte quelle situazioni patologiche di conflitto o di sopruso familiare, che non hanno trovato (per lo meno, allo stato) una loro composizione in un procedimento di separazione personale o di divorzio.
Se l'intento del legislatore di offrire tutela ai soggetti deboli all'interno della conflittualità familiare è certamente da valutare positivamente, la normativa ex novo introdotta (sulla scorta di analoghi istituti propri degli ordinamenti di common law ) non si armonizza appieno con la disciplina vigente e, per più aspetti, può sollevare seri dubbi di legittimità costituzionale.Si tratta infatti, come si vedrà, di un intervento del giudice estremamente penetrante, che incide indubbiamente sulle libertà fondamentali e sembra muoversi in controtendenza alle nuove esigenze manifestatesi nel diritto di famiglia, attente e rispettose all'autonomia negoziale dei coniugi nel momento della crisi familiare.È evidente peraltro che di autonomia negoziale si può parlare quando i coniugi si trovano su un piano di formale e sostanziale parità: la violenza invece fa sicuramente venir meno tale condizione.E tuttavia è da ritenere che il giudice debba governare questo potere assai ampio in modo particolarmente cauto e rispettoso dei diritti di tutti i soggetti coinvolti.
Come si è anticipato, il giudice civile (ed in prosieguo si vedrà quale) può adottare «ordini di protezione» «quando la condotta del genitore o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all'integrità fisica o morale, ovvero alla libertà di altro coniuge o convivente».Si tratta di previsione estremamente ampia, che spazia dal grave pregiudizio alla vita, alla salute fisica e all'incolumità del familiare, fino ad arrivare a quello alla salute psichica e alla «libertà». Verificandosi detti presupposti (che la norma individua in modo assai generico), il giudice, adito con un procedimento a cognizione sommaria, di tipo sostanzialmente cautelare, può assumere provvedimenti che incidono su diritti fondamentali della persona, riconosciuti e garantiti dalla Carta costituzionale, in particolare agli artt. 13 e 16 (libertà personale, libertà di circolazione e soggiorno), ma anche all'art. 42 (proprietà privata). Ciò in mancanza di quel sistema rigoroso di condizioni e verifiche, che legittima il giudice penale a limitare tali diritti, ove sia ipotizzabile una fattispecie delittuosa.Il giudice civile, infatti, ritenuta la sussistenza di un «grave pregiudizio» nei termini sopra evidenziati, può disporre l'allontanamento dalla casa familiare, nonché vietare di frequentare determinati luoghi per colui (coniuge o convivente) che tenga la condotta «violenta».
L'ordine di allontamento può essere assunto anche nei confronti di chi sia proprietario esclusivo della casa familiare: si evidenzia qui un contrasto con le conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza relativamente all'assegnazione della casa familiare, in assenza di figli minori (o di figli maggiorenni, ma non economicamente autosufficienti); si esclude infatti che in tali casi il coniuge non proprietario possa essere assegnatario della casa familiare, in sede di separazione o divorzio.Dunque, quando una grave situazione di conflitto familiare si verifichi prima (o indipendentemente) dal giudizio di separazione o divorzio, il coniuge (o convivente) potrebbe essere tenuto ad allontanarsi dalla casa di sua proprietà (naturalmente se autore della «violenza»).Se da un lato, come anticipato, è auspicabile la massima cautela nell'applicare le nuove norme (per non violare i principi costituzionali in precedenza richiamati), dall'altro si evidenziano notevoli problemi di coordinamento anche con gli artt. 330 e 333 c.c., alla luce della recente modifica di cui alla l. n. 149/2001.Nell'ambito del procedimento per la decadenza dalla potestà (quando il genitore violi o trascuri i doveri o abusi dei poteri inerenti la potestà) il tribunale per i minorenni può disporre l'allontanamento del genitore o del convivente (del genitore) che maltratta o abusa del minore; analogo provvedimento è possibile assumere nell'ambito del procedimento di limitazione della potestà.Solo apparentemente le previsioni normative, approvate nel corrente anno, poco prima del termine della legislatura, paiono armonizzarsi: il tribunale per i minorenni interviene solo quando la situazione di pregiudizio riguardi il minore; il tribunale ordinario (ai sensi della l. n. 154/2001, come meglio si vedrà), invece, in presenza di un conflitto tra adulti (coniugi o discendenti).In realtà la questione è più complessa: l'art.5 della l. n. 154/2001 (su cui si tornerà infra) estende l'applicabilità della nuova disciplina ai casi in cui soggetto passivo della violenza familiare sia persona diversa dal coniuge o convivente, ricomprendendovi implicitamente pure i figli minori.Vi sarebbe quindi una sovrapposizione di competenze, tra due organi giudiziari diversi, relativamente all'ordine di allontamento dalla casa familiare, mentre il conflitto di competenza non dovrebbe sussistere per quanto riguarda il divieto di frequentare determinati luoghi, ancorché il tribunale per i minorenni - nell'assumere i provvedimenti atipici ex art. 333 c.c. - potrebbe far riferimento proprio al contenuto di tale ordine di protezione.Si potrebbe allora ritenere che le ipotesi previste dagli artt. 330 e 333 c.c. siano una sorta di disciplina speciale rispetto a quella generale individuata dalla legge in commento; sarebbe allora necessario, in coerenza, affermare che la violenza sui figli minori è esclusa dalla l. n. 154/2001, costituendo essa un comportamento pregiudizievole o un grave abuso della potestà dei genitori, che potrebbe dar luogo alla decadenza dalla potestà stessa o ai provvedimenti adottabili dal tribunale per i minorenni.
Si è visto che l'art. 342 bis c.c. parrebbe limitare il (penetrante) intervento del giudice civile ai soli casi di condotta violenta, posta in essere dal coniuge o dal convivente, a danno dell'altro coniuge o del convivente.La norma assai opportunamente, ai fini che qui interessano, equipara coniugio e convivenza more uxorio (e sotto questo aspetto rappresenta una previsione significativa, all'interno della più generale problematica del riconoscimento e della tutela della famiglia di fatto).Il già richiamato art. 5 l. n. 154/2001 dispone peraltro che «le norme della presente legge si applicano, in quanto compatibili, anche nel caso in cui la condotta pregiudizievole sia stata tenuta da altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente, ovvero nei confronti di altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente».La previsione pertanto estende notevolmente l'operatività degli ordini di protezione, offrendo tutela a tutti i componenti del nucleo familiare, ivi compresi i minori (vittime di una «violenza» proveniente dal genitore, dal suo convivente, o da altri soggetti), salvo che si accolga la tesi restrittiva sopra ipotizzata, nonché altre persone, legate da vincoli di parentela o affinità.
Il contenuto dell'ordine di protezione - già lo si è detto - corrisponde a quello delle misure cautelari adottabili in sede penale in forza del nuovo art. 282 bis c.p.p., con qualche marginale differenza.Il giudice, infatti, una volta accertata una situazione di «violenza» (nell'accezione di cui all'art. 342bis c.c.) può disporre l'allontanamento del giudice, convivente o familiare «colpevole» dalla casa familiare, prescrivendogli altresì, ove occorra, di non avicinarsi ai luoghi frequentati da colui che ha invocato l'ordine di protezione «ed in particolare al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia d'origine, ovvero al domicilio di altri prossimi congiunti o altre persone ed in prossimità dei luoghi d'istruzione dei figli della coppia, salvo che questi non debba frequentare i medesimi luoghi per esigenze di lavoro».Insieme con l'ordine di allontanamento, ed in alternativa o congiuntamente con il divieto di cui sopra, il giudice può disporre l'intervento dei servizi sociali del territorio, di un centro di mediazione familiare, nonché di associazioni che abbiano come scopo statutario il sostegno o l'accoglienza di donne, minori o altri soggetti vittime di abusi familiari. Può altresì essere posto a carico del responsabile di «violenza» familiare il pagamento di un assegno a favore dei conviventi che, per effetto dell'allontanamento e delle eventuali altre misure assunte, rimarrebbero privi di «mezzi adeguati», con eventuale ordine di pagamento diretto a carico del datore di lavoro dell'obbligato.Quest'ultimo rappresenta, per più aspetti, un provvedimento ibrido, una commistione tra quelli di cui agli artt. 148 comma 2 e 156 comma 6 c.c., anche se connotato da una maggior discrezionalità del giudice per quanto riguarda i presupposti.Come è noto, l'art. 148 comma 2 c.c. attribuisce al giudice (il presidente del tribunale) il potere di ordinare che una parte dei redditi del genitore, che sia venuto meno al dovere di mantenere i figli, sia versata direttamente all'altro genitore (dal datore di lavoro, ma anche da chi sia tenuto a prestazioni periodiche verso l'inadempiente: ente pensionistico, conduttore di immobile in locazione ecc.). Presupposto dell'ordine di pagamento è l'inadempimento; il quantum può essere già stato determinato (ad es. in una sentenza di separazione o divorzio o in un verbale ex art. 317 bis c.c. davanti al giudice minorile) ovvero essere quantificato dallo stesso presidente (che ben potrebbe ingiungere il pagamento pure quando il genitore inadempiente non avesse alcun rapporto con soggetti terzi, possibili destinatari di un ordine di corresponsione diretta al beneficiario).A sua volta l'art. 156 comma 6 prevede una procedura analoga (ma di tipo prettamente esecutivo), di competenza del collegio o dell'istruttore se la domanda interviene in corso di causa, a fronte dell'inadempienza nel pagamento dell'assegno di separazione.L'ordine di pagamento di cui alla novella del 2001 (ed anche sotto questo aspetto la disciplina suscita qualche perplessità) può accedere all'ordine di allontanamento dalla casa familiare, alla condizione che, per effetto di detto allontanamento, i conviventi rimarrebbero privi di mezzi adeguati; si prescinde quindi da qualsivoglia inadempienza, essendo sufficiente una sola presunzione di inadempimento, con conseguente mancanza di quanto occorrente alla famiglia per il suo mantenimento.
Gli ordini di protezione, proprio perché misure di tipo provvisorio, hanno una durata limitata nel tempo: tale durata è determinata dal giudice, con decorrenza dall'avvenuta esecuzione del provvedimento e comunque non può essere superiore a sei mesi.In tale lasso di tempo i coniugi (o i conviventi) devono essere in grado di risolvere la situazione conflittuale, accettando di ritornare sotto lo stesso tetto, ovvero optando per la separazione (o l'allontanamento volontario). Il termine può essere peraltro prorogato «su istanza di parte, soltanto se ricorrano gravi motivi, per il tempo strettamente necessario».Si tratta di previsione assai ambigua che attribuisce eccessivo potere discrezionale al giudice; non si prevede infatti alcun termine finale predeterminato alla proroga, né si escludono (e quindi implicitamente si ammettono) ulteriori proroghe dopo la prima.Ancora una volta è da confidare in una cauta e rigorosa interpretazione della norma, per superare i già espressi dubbi di costituzionalità di una disciplina che legittima un intervento incisivo del giudice nella famiglia, con conseguente compressione dei diritti fondamentali dei componenti della medesima.Il giudice che ha emesso l'ordine di protezione è competente anche per la relativa esecuzione; provvede infatti ad emanare i provvedimenti più opportuni, potendosi avvalere anche della forza pubblica e dell'ufficiale sanitario.L'elusione di un ordine di protezione imposto dal giudice viene punita, a querela della persona offesa, con la pena prevista dall'art. 388 c.p. («mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice»).
Profili processuali
L'art. 3 della l. n. 154/2001 ha introdotto un nuovo capo (il «V bis») nel titolo II del libro quarto del codice di rito, rubricato «Degli ordini di protezione contro gli abusi familiari». Viene così configurato un nuovo tipo di procedimento (di cui all'art. 736 bis c.p.c.), finalizzato all'emanazione degli ordini di protezione, con elementi propri di quello cautelare e della volontaria giurisdizione. In comune con il procedimento cautelare, quello neo-istituito presenta il fatto che competente è il giudice monocratico, la cui decisione è oggetto di reclamo al collegio, di cui non fa parte il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato.Peraltro l'ordine di protezione, al contrario di un provvedimento cautelare, non è strumentale ad una pronuncia da assumersi nella pieneza della cognizione, ma è di per sé idoneo a realizzare in modo definitivo la tutela degli interessi azionati in giudizio. Per espressa previsione del legislatore il procedimento, tanto in primo grado, quanto in sede di reclamo, è in camera di consiglio; ad esso si applicano, in quanto compatibili, gli artt.737 ss. c.p.c.Dispone il comma 1 dell'art. 736bis c.p.c. che la domanda per un ordine di protezione si propone con ricorso al tribunale del luogo di residenza o domicilio dell'istante, che provvede in camera di consiglio in composizione monocratica.La domanda può essere proposta anche dalla parte personalmente, senza pertanto patrocinio di un legale.La scelta, ispirata alla finalità di rendere più snello e meno oneroso il procedimento (tanto è vero che l'art.7 prevede che tutti gli atti, documenti e provvedimenti relativi al procedimento in esame siano esenti da ogni imposta e tassa), lascia peraltro perplessi.Proprio una materia così tecnica e delicata, che coinvolge diritti di primaria importanza, avrebbe dovuto invece richiedere necessariamente la presenza di un legale.Di regola, i procedimenti in camera di consiglio si svolgono davanti al tribunale, in composizione collegiale; il novellato art.50 bis c.p.c. prevede tuttavia che possa essere diversamente disposto, con attribuzione della competenza - come nella specie - al giudice monocratico.Non è previsto l'intervento del pubblico ministero e, dunque, lo stesso deve ritenersi non obbligatorio, esulando il procedimento da quelli contemplati nell'art. 70 comma 1 c.p.c.; il pubblico ministero peraltro ben può intervenire ai sensi del comma 3 della medesima norma.Il presidente del tribunale designa il giudice a cui è affidata la trattazione della domanda; dispone l'art.736 bis comma 2 c.p.c. che questi abbia a sentire le parti, ancorché non sia previsto (diversamente dal comma 3) su chi (istante o cancelleria) incomba l'onere della notifica del ricorso e del decreto di fissazione di udienza.
Il giudice designato ha ampi poteri istruttori, potendo procedere nel modo che ritiene più opportuno e disponendo, ove del caso, indagini tramite polizia tributaria sui redditi, sul tenore di vita e sul patrimonio personale e comune delle parti.Pronuncia poi decreto motivato, per legge immediatamente esecutivo.Sul modello dei procedimenti cautelari il comma 3 dell'art.736bis c.p.c. ammette la possibilità di adozione di un ordine di protezione inaudita altera parte; nel silenzio della norma è da ritenere che il giudice possa esercitare tale potere solo in ipotesi eccezionali, quando l'instaurazione del contraddittorio, ancorché con tempi brevissimi per la notifica del ricorso e la comparizione, potrebbe esporre l'istante, con elevata probabilità, ad un pregiudizio gravissimo.In questo caso verrà fissata un'udienza di comparizione entro il termine massimo di quindici giorni, ove confermare, modificare o revocare l'ordine di protezione assunto senza contraddittorio.Come si è anticipato, avverso il decreto del giudice monocratico è ammesso reclamo al collegio; detto reclamo non sospende ex se l'esecutività dell'ordine di sospensione, ma il collegio potrebbe adottare un provvedimento interinale in questo senso, prima della decisione nel merito.Il decreto del tribunale in composizione collegiale, per espressa disposizione, non è impugnabile.
Ragioni di celerità sono alla base dell'art.4 della l. n. 154/2001, in forza del quale i procedimenti per l'adozione di ordini di protezione possono essere trattati anche durante il periodo feriale.
Come si è già anticipato, le misure di protezione non possono essere chieste se tra i coniugi penda procedimento di separazione o divorzio, quando si sia già svolta l'udienza presidenziale e siano stati assunti i provvedimenti provvisori ed urgenti in base all'art.706 c.p.c., ovvero all'art. 4 della l. n.898/1970.
Ordini di protezione pertanto potranno essere chiesti ed emessi anche durante il tempo intercorrente tra il deposito del ricorso per separazione o divorzio e l'udienza presidenziale; essi peraltro sono destinati a perdere automaticamente efficacia, una volta presi i provvedimenti presidenziali. L'art.8 della l. n. 154/2001 prevede tuttavia che ordini di protezione possano essere assunti nel corso di quei procedimenti. Dunque, l'istruttore, durante il giudizio di separazione o divorzio, potrà essere richiesto dell'adozione di un ordine di protezione.Tale ordine potrà avere ad oggetto pure l'allontanamento dalla casa coniugale quando il presidente nulla abbia disposto circa l'assegnazione della casa medesima, in mancanza di prole minorenne.Pare invece da escludere che l'istruttore possa emettere un ordine di pagamento a carico del datore di lavoro, essendo la materia regolata, con disposizioni di natura speciale, dai già richiamati artt. 148 comma 2 c.c., 156 comma 6 c.c. e comma 3 l. n. 898/1970. Il tenore letterale della norma pare escludere che il presidente stesso possa assumere gli ordini di protezione, ma siffatta interpretazione apparirebbe estremamente contraddittoria: infatti, da un lato, sarebbe caducato l'ordine di protezione anteriore e, dall'altro, non si potrebbe assumere un altro ordine, se non da parte dell'istruttore, nella fase successiva del procedimento; sembra quindi preferibile interpretare la previsione normativa nel senso che anche il presidente possa discrezionalmente assumere tali provvedimenti, evitando così una soluzione di continuità che potrebbe talora rivelarsi assai pregiudizievole.