M. Bellina, Mobbing



Mobbing
Le vessazioni al lavoratore nella Pubblica Amministrazione: profili penali

Da: Il Quotidiano Giuridico - Quotidiano di informazione e approfondimento giuridico N. 29/01/2008

Mobbing: Le vessazioni al lavoratore nella Pubblica Amministrazione: profili penali

Matteo Bellina, Dottorando di ricerca in Scienze Penalistiche nell'Università di Trieste

Anche il pubblico amministratore può essere chiamato a rispondere penalmente qualora abbia messo in pratica condotte mobbizzanti a danno degli altri dipendenti. Lo ha affermato di recente la Cassazione in una pronuncia che farà di certo discutere; se non altro perché la fattispecie di riferimento è l'art. 323 c.p., quel delitto di abuso d'ufficio che tradizionalmente svolge la funzione di "norma grimaldello"... (Vedi Sentenza Cassazione penale, Sez. VI, 07/11/2007, n. 40891).

1. Premessa: il mobbing come «legal framework»

Benché il c.d. mobbing sia un fenomeno vecchio quanto il lavoro stesso, solo negli ultimi dieci anni ha trovato un precisa collocazione giuridica all'interno delle categorie dell'illecito civile.
Anzi possiamo spingerci sino da affermare che l'evoluzione dello stesso sistema aquiliano (materia estremamente "fluida" soprattutto negli ultimi tempi) abbia, per certi versi, seguito di pari passo il cammino del mobbing: infatti il passaggio da un rigido sistema dualistico (danno patrimonialedanno morale) verso un sistema "aperto" (al danno biologico, prima, ed al danno esistenziale, poi) si è verificato in maniera significativa nel campo delle c.d. conflittualità lavorative.
Forse proprio per la sua duttilità, la categoria del mobbing ben si è prestata a ricoprire il ruolo di "officina", di luogo di sperimentazione (sul campo) delle nuove figure risarcitorie ed in generale del nuovo paradigma di un diritto civile "depatrimonializzato" (sul risarcimento dei danni da mobbing si vedano, da ultimo M. Bona, Lesioni della salute e della personalità del lavoratore mobbizzato: i danni non patrimoniali e la loro prova, in M. Bona - S. Bonziglia - A. Marigliano - P.G. Monasteri - U. Oliva (a cura di), Accertare il mobbing, Milano, 2007, p. 99 ss.; M. Sorgi, Le violazioni dei diritti dei lavoratori, in P. Cendon -Baldassarri, Il danno alla persona, Bologna, 2006, p. 1139 ss.; P. Ziviz, Danni da mobbing, in Resp. civ. prev., 2005, p. 512 ss.).
Si diceva della duttilità ("liquidità", per dirla con Bauman) della nozione di mobbing, all'oggi ancora capace di sfuggire ad una rigida opera definitoria da parte del legislatore nazionale. Il mobbing non è infatti definito da una fonte primaria, né si riscontra una perfetta sovrapponibilità delle definizioni ricavate da altre fonti (ad esempio la Circolare Inail 17 dicembre 2003, n. 71); fenomeno che persiste anche se volgiamo la nostra attenzione alle definizioni giurisprudenziali e alle indicazioni che ci provengono dalla medicina legale (in relazioni a queste ultime si veda F.
Introna, Mobbing: spunti di medicina legale e di psicopatologia forense (anche in margine all'unico processo penale di cui si abbia notizia), in Riv. it. med. leg., 2000, p. 645 ss.).
In realtà il mobbing per sua natura mal si presta ad essere cristallizzato in formule giuridiche: come una pionieristica dottrina ha evidenziato il mobbing rappresenta «una cornice che permette di apprezzare la condotta illecita nella sua interezza. In altri termini, con l'ingresso del mobbing nelle corti i vari tasselli, che prima rimanevano disgiunti e costituivano fattispecie autonome di responsabilità, possono confluire in un unico mosaico, in cui tutto il circolo vizioso del fenomeno in esame viene ad assumere rilievo, con la conseguenza di un salto qualitativo nella tutela risarcitoria del mobbizzato» (sul punto cfr. P.G. Monateri - M. Bona - U. Oliva, Mobbing, Vessazioni sul lavoro, Milano, 2000, p. 24 ss.; Idd., La responsabilità civile nel mobbing, Milano, 2002, passim, e soprattutto, Idd., Il mobbing come "legal framework": una categoria unitaria per le persecuzioni morali sul lavoro, in Riv. crit. dir. priv., 2000, p. 54 ss.).

2. Il problema della rilevanza penale del mobbing

Se accediamo a questa nozione di mobbing come «cornice» o come «legal framework» all'interno della quale trovano coesiva reductio ad unum condotte certamente illecite e condotte di per sé neutre che si colorano di illiceità qualora siano finalizzate ad una strategia mobbizzante, ci accorgiamo della sua inutilizzabilità in campo penale, laddove la ricostruzione in via interpretativa della fattispecie all'interno della predetta "cornice" si scontra con l'esigenza di tipicità delle fattispecie (sul punto D. Castelnuovo, Mobbing e diritto penale, in M. Padrazzoli (a cura di), Vessazioni e angherie sul lavoro, Bologna 2007, p.).
Non è un caso che né il nostro codice penale, né la legislazione speciale prevedano una specifica fattispecie criminosa corrispondente alla nozione corrente di mobbing (D. Castelnuovo, Mobbing e reato, in M. Bona - S. Bonziglia - A. Marigliano - P.G. Monasteri - U. Oliva (a cura di), Accertare il mobbing, cit., p. 59; C. Perini, La tutela penale del mobbing, in A.a.V.v., Mobbing, organizzazione, malattia professionale, Milano, 2006, p. 156).
In questo senso si è recentemente espressa la Corte di Cassazione sottolineando «la difficoltà di inquadrare la fattispecie in una precisa figura incriminatrice, mancando in seno al codice penale questa tipiciazzazione» (Cass., Sez. V, 9 luglio 2007, n. 33624).
In quell'occasione, diversamente da quanto hanno riportato "a caldo" i mass media, la Corte non ha affermato l'irrilevanza penale del mobbing, statuendo viceversa che una specifica fattispecie penale non esiste nel codice ovvero nella legislazione complementare correlata. Il che non significa, tuttavia, che tale comportamento non sia punibile ovvero risulti penalmente irrilevante (sul punto v. P. Pittaro, Quello che i media (non) fanno dire alla cassazione in tema di mobbing, in www.personaedanno.it).
Come è stato sottolineato già ora i vari comportamenti ascrivibili al mobber , a seconda dei casi, riconducibili a singoli reati, ovviamente se, di volta in volta, riscontrabili (P. Pittaro, Quello che i media (non) fanno dire alla cassazione, cit.)
Il problema sta tutto nell'individuazione delle fattispecie di riferimento, per la semplice ragione che il mobbing "non è sempre eguale a sé stesso", apparendo viceversa come un fenomeno caratterizzato da una connaturata indeterminatezza di contorni e mutevolezza delle sue manifestazioni.

3. Le fattispecie applicabili

Tanto nella giurisprudenza di merito quanto in quella legittimità sembra essere in via di consolidamento l'orientamento secondo il quale la condotta mobbizzante rilevi quale elemento costitutivo di numerose fattispecie criminose. In linea di massima le pronunce sul punto possono essere raggruppate secondo due direttrici (così procede C. Perini, La tutela penale, cit., p. 161 ss.), l'uno teso a reprimere le singole offese che caratterizzano l'escalation lesiva del mobbing (le c.d. rappresentazioni parziali); l'altro teso a ricercare una sintesi della progressione criminosa che culmina nell'offesa della personalità e della dignità del lavoratore (la c.d. rappresentazione unitaria).
La prima direttrice prevede l'applicazione di fattispecie quali le ingiurie, la diffamazioni, le minacce, le percosse. Sul secondo versante si collocano pronunce in tema maltrattamenti in famiglia, violenza privata, lesioni personali, volontarie o colpose e abuso di ufficio.

3.1. I maltrattamenti in famiglia

In una delle rare occasioni in cui la giurisprudenza di legittimità si è occupata esplicitamente di mobbing è stata fatta applicazione dell'art. 572 c.p. il quale punisce il reato di maltrattamenti in  famiglia (Cass., 12 marzo 2001, n. 10090, Erba, in Dir. giust., 13, 2001, p. 55 ss.).
Nella fattispecie concreta gli imputati erano accusati di avere, in qualità rispettivamente di titolare e di dirigente dell'impresa datrice di lavoro, «maltrattato, con atti di vessazione fisica e morale, alcuni giovani sottoposti alla [loro] autorità nello svolgimento dell'attività lavorativa e, inoltre, per avere, con i medesimi atti di violenza fisica e morale, costretto i predetti giovani a intensificare l'impegno lavorativo oltre ogni limite di accettabilità». Nel confermare la sentenza di condanna pronunciata dal giudice d'appello la Corte ha precisato che «anche se l'ipotesi di reato di più frequente verificazione è quella che dà il nome alla rubrica dell'art. 572 c.p. ("maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli"), la norma incriminatrice prevede altresì le ipotesi di chi commette maltrattamenti in danno di "persona sottoposta alla sua autorità" [...] Si tratta di ipotesi di reato, in questi ultimi casi, in cui non è richiesta, à differenza della prima, la coabitazione o convivenza tra il soggetto attivo e quello passivo, ma solo un rapporto continuativo dipendente da cause diverse da quella familiare».
Muovendo da tale assunto i giudici hanno affermato che «il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, essendo caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore dipendente, pone quest'ultimo nella condizione, specificamente prevista dalla norma penale testé richiamata, di "persona sottoposta alla sua autorità", il che, sussistendo gli altri elementi previsti dalla legge, permette di configurare a carico del datore di lavoro il reato di maltrattamenti in danno del lavoratore dipendente».

3.2. La violenza privata

Più di recente la Cassazione ha sussunto la condotta vessatoria di un datore di lavoro nella fattispecie della violenza privata di cui all'art. 610 c.p. (Cass., Sez. VI, 8 marzo 2006, n. 31413, in Dir. giust., 38, 2006, p. 59, con nota di F.M. Ferrari, Se il dipendente è confinato «nel lager» Mobbing, il persecutore è perseguibile; in Giur. it., 2007, p. 1764, con nota di M. Bellina, Sulla rilevanza penale del mobbing).
In premessa la Corte ha sottolineato come «può esservi condotta molesta e vessatoria o, comunque mobbing anche in presenza di atti di per sé legittimi e che, simmetricamente, non ogni demansionamento così come non ogni altro atto illegittimo da luogo, a cascata, a mobbing».
Affinché ciò avvenga, continuano i giudici, «è necessario che quell'atto emerga come l'espressione, o meglio come uno dei tasselli, di un composito disegno vessatorio. In definitiva, per la sussistenza del fenomeno occorre che diverse condotte, alcune o tutte di per sé legittime, si ricompongano in un unicum, essendo complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare l'equilibrio psicofisico del lavoratore». Ciò non toglie, conclude ancora la Corte, che tali condotte, esaminate separatamente e distintamente, possano essere illegittime e anche integrare fattispecie di reato.
Entrando nel merito della questione i giudici hanno chiarito cosa rappresentasse in concreto la destinazione alla predetta palazzina e come venisse percepita dai lavoratori ivi destinati, dilungandosi sulla sua totale assenza di attività lavorativa, sulla sua globale fatiscenza, sulle sue condizioni di abbandono, squallore e disdoro, che la rendevano «una specie di lager». In conclusione, secondo i giudici della Suprema corte, l'alternativa prospettata dall'azienda, e resa intellegibile alle vittime, sia attraverso la collocazione nella palazzina, sia nei colloqui intercorsi con i lavoratori, concerneva la scelta tra demansionamento e licenziamento. Le pressioni psicologiche esercitate sui lavoratori costituivano lo strumento attraverso il quale i vertici aziendali intendevano vincere le residue resistenze ad accettare deteriori condizioni di lavoro.
Nell'occasione la Corte è giunta alla conclusione che la marginalizzazione di un lavoratore subordinato dal contesto produttivo, se finalizzata ad ottenere il consenso ad un accordo di dequalificazione possa configurare un tentativo di violenza privata.

3.3. Il mobbing sessuale

Infine le ipotesi di mobbing sessualmente connotate (in relazione alle quali si rinvia a B. Romano, Il mobbing: ai confini del diritto penale, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2004, p. 167 ss.) possono integrare il delitto di violenza sessuale nonché la contravvenzione di molestie e disturbo alla persone di cui già si è detto.
Come è stato osservato dalla dottrina appare più probabile che la condotta vessatoria integri il reato di atti sessuali con abuso di autorità piuttosto che il reato di violenza sessuale in generale, considerato che nella prassi il mobbing sessuale normalmente coincide con una pratica quasi esclusivamente verticale (C. Perini, La tutela penale, cit., 165), complice probabilmente anche l'assenza di una norma specifica che attribuisca autonoma rilevanza penale alle molestie sessuali (B. Romano, Il mobbing: cit., p. 168 ss.).
Va però rilevato come affinché la fattispecie di cui all'art. 609-bis possa trovare applicazione è necessaria la sussistenza di una pluralità di elementi l'accertamento dei quali in sede giudiziaria non sempre è agevole (si allude, in modo particolare alle difficoltà correlate all'accertamento della costrizione). In materia pertanto la norma di cui all'art. 609-bis si candida ad uno spazio applicativo residuale, volto a sanzionare solo le condotte connotate da una maggior offensività (C. Perini, La tutela penale, cit., 165).

4. Il Mobbing nella p.a. ed il delitto di abuso d'ufficio

I primi episodi di mobbing giudizialmente accertati riguardavano condotte verificatisi in contesti lavorativi privati. Solo in un secondo momento i giudici civili hanno avuto occasione di pronunciarsi anche su episodi mobbizzanti avvenuti all'interno della pubblica amministrazione.
Di recente la Cassazione si è pronunciata per la prima volta sulla rilevanza penale del mobbing all'interno della pubblica amministrazione in particolare dando applicazione alla fattispecie di abuso d'ufficio (Cass., Sez., VI, 7 novembre 2007, n. 40891, inquesto Quotidiano giuridico, 16 novembre 2007, con nota di S. Corbetta, Mobbing nel pubblico impiego: quale rilevanza?).
Per quanto non constassero precedenti specifici sul punto parte della dottrina (D. Castelnuovo, Mobbing e reato, cit., p. 90 ss. ) si era espressa in favore della sussumibilità della condotta mobbizzante nella fattispecie dell'abuso d'ufficio nell'ipotesi in cui il mobber rivestisse la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio (sulle qualifiche di Pubblico Ufficiale e di Incaricato ad un Pubblico Servizio si vedano, A. Bondi, Nozioni comuni e qualifiche soggettive, in A. Bondi - P. Di Martino - G. Fornasari (a cura di), Reati contro la pubblica amministrazione, Milano, 2006, p. 3 ss.; O. Di Giovine, voce Pubblico Ufficiale (dir. pen.), in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, p. 4782 ss; nella manualistica v. G. Fiandaca - E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, I, 4ª ed., Bologna, 2007, p. 167 ss.) e la condotta accedesse ad un rapporto di pubblico impiego.
Ai sensi dell'art. 323 c.p. «salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni» (sull'abuso d'ufficio, in particolare dopo la riforma del 1997, si veda: C.F. Grosso, Condotte ed eventi del delitto di abuso di ufficio, in Foro it., 1999,V, c. 329 ss.; G.A. De Francesco, La fattispecie dell'abuso di ufficio: profili ermeneutici e di politica criminale, in Cass. pen., 1999, p. 1633 ss.; A. Manna, Abuso d'ufficio e conflitto di interessi nel sistema penale, Torino, 2004, passim; D. Manzione, voce Abuso d'ufficio, in Dig. disc. pen., Agg., Torino, 2001, p. 1 ss.; A. Pagliaro, La nuova riforma dell'abuso d'ufficio, in Dir. pen. proc. 1997, p. 1394 ss.; S. Seminara, Il nuovo delitto di abuso di ufficio, in St. Juris, 1997, p. 1251 ss. Nella manualistica v. G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale, cit., p. 243 ss.)
Qualche breve cenno preliminare alla struttura del delitto di cui all'art. 323 c.p. come novellato dalle riforme del 1990 e del 1997.
Come bene protetto dalla fattispecie viene indicato in termini generali, il buon andamento e l'imparzialità della pubblica amministrazione ai sensi dell'art. 97 Cost. In realtà vi sono ragioni per ritenere che il reato sia plurioffensivo e protegga non solo il bene predetto, ma, quantomeno nell'ipotesi del c.d. abuso in danno, anche i diritti (patrimoniali e non) del privato cittadino che subisce l'abuso.
Il legislatore del 1997 ha ridefinito la struttura oggettiva della fattispecie sul modello dei reati di evento facendo coincidere il nucleo centrale del fatto punibile con la produzione di una vantaggio o di un danno ingiusto, elemento che sussiste allorquando il pubblico dipendente subisca pregiudizi di ordine biologico, morale o esistenziale a seguito della condotta mobbizzante (G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale, cit., p. 247). A differenza del vantaggio che deve essere patrimoniale l'evento di danno è invece menzionato nella fattispecie senza specificazione alcuna con la conseguenza che il pregiudizio arrecato a terzi può avere tanto carattere patrimoniale quanto carattere non patrimoniale (G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale, cit., p. 248).
La modifica legislativa operata dalla legge 26 aprile 1990, n. 86 ha introdotto nella struttura del reato il requisito della c.d. doppia ingiustizia, nel senso che deve essere contra legem non solo la condotta, ma anche il fine perseguito dall'agente, sicché il reato in esame non sussiste quando, pur essendo illegittimo il mezzo impiegato, il fine di danno o di vantaggio non sia di per sé ingiusto.
Se è vero che il fine perseguito dal mobber di per sé non può mai ritenersi legittimo, la strategia mobbizzante è tale da connotare di illiceità tanto la condotta quanto il fine perseguito.
La legge subordina la punibilità dell'abuso al fatto che codesto avvenga con modalità tipiche vale a dire «in violazione di norme di legge o di regolamento». Ci si è chiesti se qualunque violazione di
legge o di regolamento valgano ad integrare la modalità richiesta dall'art. 323 c.p. o se non debba trattarsi di violazione di norme, in qualche modo, "qualificate" (la questione è posta magistralmente da G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale, cit., p. 251 ss., i quali, tuttavia, non giungono ad una soluzione univoca).
In primo luogo è generalmente esclusa la rilevanza della violazione di norme non specifiche, programmatiche o di principi generali: affermare, ad esempio, che vi è violazione di legge perché non è stato assicurato il buon andamento della pubblica amministrazione presidiato dall'art. 97 Cost., equivarrebbe ad affermare la perenne sussistenza dell'elemento, attraverso un ragionamento circolare. Così la Cassazione, nella celebre sentenza Tosches (Cass., sez. II, 4 dicembre 1997, n. 877, Tosches, in Studium Juris, 1998, p. 1389), ha affermato che «per quanto concerne le modalità tipiche di realizzazione del fatto, è evidente che la violazione di legge o di regolamento può integrare il delitto di abuso di ufficio solamente se la norma violata non è genericamente strumentale alla regolarità dell'attività amministrativa (e concerne ad esempio un obbligo meramente procedimentale, come quello relativo all'obbligo di motivazione) o una norma generalissima e di principio come, ad esempio, quella prevista dall'art. 97 Cost.»; la questione è maliziosamente arginata da Tribunale Napoli, 30 novembre 1999, in Cass. pen., 2001, p. 1027, con nota critica di C. Capelli, Abuso d'ufficio e tipologia delle fonti: sulla rilevanza penale della violazione di un «sistema di norme», secondo il quale «se è vero che la violazione di norma di legge, necessaria ad integrare l'elemento oggettivo del reato, non può consistere nella generica violazione dei doveri di imparzialità e buon andamento della p.a. previsti dall'art. 97 cost., è altresì vero che non deve necessariamente consistere nella violazione diretta ed immediata di un precetto, ma può anche consistere nella violazione di un sistema di norme»).
Parimenti è escluso che ad integrare il reato sia sufficiente la violazione di norme procedurali, destinate a svolgere la loro funzione solo all'interno del procedimento, senza incidere in modo diretto o mediato sulla c.d. fase decisoria di composizione del conflitto di interessi materiali oggetto di valutazione amministrativa (Cass. pen., Sez. VI, 1 marzo 1999, n. 5488, in Giust. pen., 2000, II, c. 345).
Come ha sottolineato la giurisprudenza (Cass., Sez. VI, 30 settembre 1998, n. 12238, De Simone, in Riv. pen., 1999, p. 51 «la violazione di "norme di legge o di regolamento" deve comportare la riconoscibile sussistenza di un nesso di derivazione causale fra detta violazione e l'evento costitutivo dell'ingiusto vantaggio patrimoniale proprio o altrui e dall'ingiusto danno altrui; il che può verificarsi solo con riferimento a norme che siano dotate di specifico contenuto precettivo, la cui inosservanza vada ad incidere su posizioni soggettive "sostanziali" (o finali), con esclusione, per converso, dei casi in cui l'inosservanza abbia ad oggetto norme meramente programmatiche (come quella dettata dall'art. 97 cost. sul buon andamento e l'imparzialità della p.a.), ovvero norme procedurali destinate a svolgere la loro funzione solo all'interno del procedimento, senza incidere in modo diretto o mediato sulla c.d. fase decisoria di composizione del conflitto di interessi materiali oggetto di valutazione amministrativa, e ciò tenendo inoltre presente che l'ingiustizia della condotta, in quanto costituita da violazione di norme di legge o di regolamento ovvero da omessa astensione nei casi in cui questa è obbligatoria, può non dar luogo alla ingiustizia dell'evento, parimenti necessaria per la sussistenza del reato, quando quell'evento (vantaggio proprio o altrui ovvero danno del terzo), corrisponda a una posizione soggettiva meritevole di essere giuridicamente tutelata, quale, ad esempio, un potere della p.a., un diritto soggettivo o un interesse legittimo del terzo».
Infine l'abuso per essere punibile deve essere commesso intenzionalmente: l'assunzione del c.d. dolo intenzionale quale elemento soggettivo tipico del reato di abuso d'ufficio implica che il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio commetta l'abuso proprio allo scopo di avvantaggiare patrimonialmente sé stesso, ovvero di danneggiare il terzo (G. Fiandaca - E. Musco, Diritto penale, cit., p. 255).

5. La recente pronuncia della Cassazione

Come già accennato di recente la Cassazione (Sez., VI, 7 novembre 2007, n. 40891, cit.), si è pronunciata su un episodio di mobbing verificatosi all'interno della pubblica amministrazione.

5.1. La fattispecie concreta

Questa in sintesi la fattispecie: l'imputato, in qualità di sindaco di un comune, veniva tratto a giudizio per rispondere del delitto di cui all'art. 323 c.p., per avere abusato della sua qualifica, adottando tre provvedimenti con cui disponeva che una dipendente del comune, con la sesta qualifica funzionale e le mansioni di coordinatrice economa dell'asilo comunale, fosse destinata a svolgere le mansioni di prevenzione e accertamento delle violazioni in materia di sosta dei veicoli.
Secondo i giudici di merito risultava provato che il sindaco avesse tenuto nei confronti della dipendente un comportamento vessatorio e persecutorio, consistente, in particolare, nell'avere, di punto in bianco, senza alcun provvedimento formale, esautorato delle sue funzioni la dipendente, destinandola a svolgere mansioni apparentanti a qualifiche interiori.
Una condotta del genere integrava perciò gli estremi del mobbing, che si estrinseca, secondo il giudice d'appello, «in quei comportamenti con cui il datore di lavoro e il superiore gerarchico esercita una sorta di terrorismo psicologico (fatto di vessazioni, umiliazioni, dequalificazioni professionali, eccesso ricorso alle visite mediche di controllo anche a fronte di referti confermativi della patologia denunciata dal lavoratore, ecc.), nei confronti di uno o più dipendenti, così da coartare o piegarne la volontà e che sovente è causa di gravi patologie interessanti la sfera neuropsichica del soggetto esposto».
Il giudice d'appello aveva infatti ritenuto illegittimi i provvedimenti di demansionamento adottati nei confronti della dipendente, per violazione dell'art. 56 del d.lgs. n. 29 del 1993, e dell'art. 2043 c.c., ritenendo altresì provato il dolo, posto che la condotta tenuta del sindaco era intesa a recare intenzionalmente pregiudizio alla parte lesa.
La difesa dell'imputato ricorreva in cassazione incentrato le proprie doglianza sull'adeguatezza della motivazione del provvedimento e sul fatto che la violazione di un contratto collettivo dal quale derivano le qualifiche e le mansioni corrispondenti, non potesse dar luogo ad una violazione di legge o regolamento rilevante ai sensi dell'art. 323 c.p.

5.2. L'elemento oggettivo secondo la Corte

La Corte, in primo luogo, ha confermato la sussistenza della violazione di legge, individuata, come nei precedenti gradi di giudizio, nell'art. 56 d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, all'epoca vigente (secondo cui "il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni proprie della qualifica di appartenenza, nelle quali rientra comunque lo svolgimento di compiti complementari e strumentali al perseguimento degli obiettivi di lavoro", potendo essere adibito "occasionalmente e ove possibile con criteri di rotazione, compiti o mansioni immediatamente inferiori, se richiesto dal dirigente dell'unità organizzativa cui è addetto"), e dell'art. 7 cnnl dei dipendenti degli enti locali, recepito nel d.P.R. 1993, n. 593.
Tali norme, infatti, consentono che il dipendente possa essere adibito a svolgere compiti di una qualifica immediatamente inferiore, ma a precise condizioni: l'occasionalità di tale destinazione e la possibilità che ciò avvenga con un criterio di rotazione. Nel caso di specie, invece, il sindaco aveva violato quelle disposizioni, sotto più profili, in quanto: non aveva motivato in ordine ai criteri di scelta del dipendente da demansionare; aveva omesso di prevedere la rotazione tra i dipendenti; non aveva motivato in relazione alla mancato rispetto di detti requisiti.

5.3. L'elemento soggettivo

Quanto all'elemento soggettivo, la Cassazione si è ricollegata all'orientamento, ormai consolidato, secondo cui «l'avverbio "intenzionalmente", che figura nel testo della norma incriminatrice, esclude la configurabilità del dolo sotto il profilo indiretto od eventuale, e richiede che l'evento costituito dall'ingiusto vantaggio patrimoniale o dal danno ingiusto sia voluto dall'agente e non già semplicemente previsto ed accettato come possibile conseguenza della propria condotta, in ipotesi diretta ad un fine pubblico, sia pure perseguito con una condotta illegittima. Ciò, beninteso, a patto che il perseguimento di tale fine non rappresenti un mero pretesto, col quale venga mascherato l'obiettivo reale della condotta» (nel senso che il dolo dell'abuso d'ufficio è configurabile nella sola forma del dolo intenzionale, con esclusione, quindi, del dolo diretto e del dolo eventuale, cfr. Cass.,  Sez. VI, 28 febbraio 2007, n. 18468, inDir. pen. proc., 2007, 1284; Cass., Sez. VI, 1 giugno 2000, Spitella, ivi, 2000, 1359; Cass., Sez. VI, 14 gennaio 1998, Branciforte, in Riv. pen., 1998, 613).
Il dolo richiesto dall'art. 323 c.p. è quindi escluso laddove possa ritenersi, con ragionevole certezza, «che l'agente si propone il raggiungimento di un fine pubblico, proprio del suo ufficio» (nel senso che non è ravvisabile il dolo del delitto di cui all'art. 323 c.p.p. quando il fine perseguito dall'agente è l'attuazione di un interesse pubblico, cfr. Cass., Sez. VI, 28 febbraio 2007, n. 18468, cit., Cass., Sez. VI, 7 aprile 2005, Fabbri, in C.E.D. Cass., n. RV231343; Cass., Sez. VI, 6 maggio 2003, Cangini, ivi, n. 226566; Cass., Sez. VI, 22 novembre 2002, Casuscelli, ivi, n. 222860).
Un tanto non si era verificato nel caso di specie, dal momento che la reiterata destinazione della dipendente allo svolgimento di mansioni di ausiliario del traffico appare «costituire - afferma la Cassazione - il suggello di tutta una serie di elementi caratterizzanti quel fenomeno sociale noto come mobbing, consistente in atti e comportamenti posti in essere dal datore di lavoro o dal superiore gerarchico che mira a danneggiare il dipendente, così da coartarne o da piegarne la volontà: comportamenti testi, nella fattispecie, a dequalificare professionalmente la parte lesa, tale da concretare oltre il reato di abuso d'ufficio in danno di costei, da integrare altresì, l'illecito di cui all'art. 2043 c.c., essendo derivata, quale ulteriore conseguente di detti comportamenti "mobbizzanti", una seria patologia neuro-psichiatrica» in danno della dipendente (nel senso che «può esservi condotta molesta e vessatorie o, comunque, mobbing, anche in presenza di atti di per sé legittimi e che, simmetricamente, non ogni demansionamento così come ogni altro atto illegittimo dà luogo, a cascata, a mobbing», per la cui sussistenza occorre che «quell'atto emerga come l'espressione, o, meglio, uno dei tasselli, di un composito disegno vessatorio».

6. Osservazioni

In realtà almeno in un'occasione la Cassazione ha ritenuto che rientra nelle ipotesi di «violazione di norme di legge o di regolamento» anche la violazione dell'art. 2043 c.c., qualora il pubblico ufficiale ponga in essere un'attività illegittima, potendo l'interesse privato cedere ed essere sacrificato di fronte all'interesse pubblico, solo se l'attività dei pubblici poteri sia legittima.
Ciò significa che ogni ipotesi di abuso in danno, per il sol fatto di aver prodotto un danno ingiusto in violazione dell'art. 2043 c.c., deve considerarsi effettuato «in violazione di norme di legge» potendo così integrare la fattispecie di cui all'art. 323 c.p.
Secondo Cass. pen., Sez. VI, 24 febbraio 2000, n. 4881, in Riv. pen., 2000, 575, «alla luce del recente orientamento giurisprudenziale espresso dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione (sent. n. 500 del 22 luglio 1999) secondo cui deve riconoscersi all'art. 2043 c.c. il rango non più di norma secondaria, volta a sanzionare con l'obbligo del risarcimento una condotta vietata da altre norme, sebbene di norma primaria, volta a garantire la riparazione di qualsivoglia danno ingiusto, identificabile nella lesione, non giustificata da altre norme, di un interesse rilevante per l'ordinamento, deve ritenersi configurabile il reato di abuso di ufficio, sotto il profilo della produzione a taluno di un danno ingiusto, ogni qual volta il soggetto che esplica una funzione o un servizio pubblico abbia posto in essere un'attività da riguardarsi come illegittima dalla quale sia derivata non la lesione di un interesse legittimo in sé considerato, ma la lesione dell'interesse al bene della vita che risulta meritevole di protezione alla stregua dell'ordinamento ed al quale l'interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, si collega».
Ma è possibile raggiungere il medesimo risultato anche seguendo una diversa strada ed in particolare valorizzando la portata dell'art. 2087 c.c. Infatti se è vero che qualora si verifichi un dannoso alla personalità fisica o morale del lavoratore, eziologicamente riconducibile all'omissione del datore di lavoro, si viola l'art. 2087 c.c. è giocoforza dimostrato che si ha «violazione di legge» ogni qual volta il datore di lavoro ponendo in essere condotte mobbizzanti o omettendo di impedirle cagioni un danno al lavoratore.
D'altro canto una norma penale posta a tutela non solo della Pubblica Amministrazione, ma anche dell'interesse del privato cittadino, come l'art. 323 c.p. può essere valorizzata anche quale strumento di tutela del dipendente pubblico, il quale per il sol fatto di essere legato alla P.A. da un rapporto di lavoro, non può essere considerato un minus rispetto ad ogni altro privato ed essere sottratto alla tutela apprestata dalla norma.