M. Casola, Mnsioni demansionamenti trasferimenti e mobbing



Mansioni, demansionamenti, trasferimenti e mobbing



CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
Nona Commissione - Tirocinio e Formazione Professionale

Incontro di studi sul tema:Controversie di lavoro ed onere della prova

Roma, 25-27 giugno 2007


MARIA CASOLA


Mansioni, demansionamenti, trasferimenti e mobbing


Sommario
Premessa
1. La necessaria ricerca di regole generali
1.1 Essenza comune: l'inadempimento (esclusivamente) contrattuale del datore - 1.2 Conseguenze della natura contrattuale della responsabilità - 1.3 L'importanza degli atti introduttivi - 1.4 Insufficienza assertiva: conseguenze
2. Il demansionamento
2.1 Il lavoro privato - 2.2 Demansionamenti leciti - 2.3 Il ruolo della contrattazione collettiva - 2.4 Il pubblico impiego - 2.5 Gli oneri probatori - 2.6 La tutela in forma specifica
3. La promozione automatica
3.1 Il lavoro privato - 3.2 Oneri della prova - 3.3 Il pubblico impiego - 3.4 Oneri della prova
4. Trasferimenti
4.1 Elementi della fattispecie - 4.2 Oneri della prova
5. Il mobbing
5.1 Assenza di riconoscimento giuridico - 5.2 Inutilità della nozione: sussunzione negli art. 2087 e/o 1375 c.c. - 5.3 Conseguenze della riconduzione del mobbing alla disciplina dell'art. 2087 c.c. - 5.4 Oneri della prova - 5.5 Possibile sussunzione del mobbing in figure affini: il motivo illecito determinante, le discriminazioni, le molestie
6. Il risarcimento del danno
6.1 Regole generali - 6.2 Il principio di effettività del danno - 6.3 Molteplicità delle voci di danno: oneri di allegazione del lavoratore - 6.4 Schematizzazione delle voci di danno e relativi oneri assertivi/probatori.

Premessa

Il tema dell'onere della prova nelle materie oggetto della presente relazione, cioè "Mansioni e demansionamenti, trasferimenti e mobbing", va, preferibilmente, affrontato non in maniera atomizzata e ripartita per ogni istituto, ma in base a canoni interpretativi il più possibile generali. Questa basilare premessa dovrebbe, in realtà, essere tenuta sempre in considerazione nell'attività interpretativa, proprio allo scopo di rinvenire la matrice comune dei diversi istituti, soggetta all'applicazione tendenziale di regole generali, pur nel rinvenimento di eventuali specifiche deroghe.
Occorre dunque avere chiara consapevolezza della consistenza della regola generale e del suo rapporto con eventuali ipotesi eccezionali.
L'approccio metodologico in esame deve anche essere confrontato con il postulato dell'appartenenza del diritto del lavoro al diritto civile comune, con la conseguente tendenziale applicabilità, salvo specifiche discipline di settore, di schemi e forme proprie del diritto delle obbligazioni [1].
Mette conto, ancora, segnalare che lo studio dell'onere della prova deriva sostanzialmente dall'esame della struttura e della funzione delle norme sostanziali, esame appunto da svilupparsi alla luce di coordinate logico- sistematiche.
Ciò vale a giustificare la scelta euristica e redazionale di trattare, prima, il sostrato comune degli istituti assegnati, per poi delinearne, singolarmente, i rispettivi tratti caratterizzanti, sotto il profilo sostanziale. A quest'ultimo scopo, anche per assicurare un'utile funzione di aggiornamento, si è preferito dedicare attenzione alla più recenti pronunce giurisprudenziali[2] su ciascun istituto, piuttosto che indulgere in approfondimenti scientifici teorici di tipo dogmatico. Alla luce degli elementi connotanti le fattispecie sostanziali, come sopra analizzate, si è quindi esaminato, naturalmente in chiave ragionata, lo specifico atteggiarsi della distribuzione dei pesi probatori nelle diverse evenienze.
1. La necessaria ricerca di regole generali
1.1 Essenza comune: l'inadempimento (esclusivamente) contrattuale del datore Proprio nel rispetto del criterio metodologico proposto, muovendo in medias res, si evidenzia come, in linea di massima, tutti gli istituti qui esaminati presentino un elemento comune: l'essenza inadempitiva.
Infatti, in via di prima approssimazione, ben si intende come i demansionamenti, i trasferimenti, il mobbing siano figure accomunate dal concretizzare altrettante ipotesi di violazione di obblighi da parte del datore di lavoro.
Questa prima, quasi banale conclusione, importa, invece, nella materia dell'onere della prova, significative e peculiari ricadute.
Prima però di esaminare tale ultimo profilo, è capitale sgombrare il campo dai possibili dubbi inerenti la natura della responsabilità datoriale. Infatti, la qualificazione, come contrattuale od extracontrattuale, del titolo di responsabilità incide, evidentemente, anche sulla tematica dell'onere della prova.
Ora, non è qui la sede per approfondire l'argomento ora indicato, di proporzioni enormi, sembra però molto importante dare conto degli approdi interpretativi della più recente giurisprudenza.
In sintesi, si ricorda che, il tema della responsabilità datoriale, soprattutto ai sensi dell'art. 2087 c.c.. è stato tradizionalmente risolto con la tesi del duplice titolo di responsabilità, sostenendosi, con argomenti spesso tralatiziamente riportati, che la condotta datoriale violativa degli obblighi di sicurezza è tale da integrare, contestualmente, la violazione di specifici obblighi contrattuali ed anche dei precetti generali del neminem laedere. In questa direzione, almeno sino a pochissimo tempo fa, il concorso delle due azioni costituiva ius receptum[3], lasciandosi, quindi, al creditore danneggiato la scelta tra due sistemi regolativi alternativi[4].
Il sistema ora delineato è stato, dagli inizi degli anni 2000, posto in discussione da ampia giurisprudenza e da una parte della dottrina.
Si è infatti rilevato: "nessun dubbio può sussistere sulla prospettata qualificazione giuridica della stessa responsabilità - di natura contrattuale, appunto - ove si consideri, da un lato, che il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato - per legge (ai sensi dell'articolo 1374 c.c.) ... e, dall'altro, che la responsabilità contrattuale é configurabile tutte le volte che risulti fondata sull'inadempimento di un'obbligazione giuridica preesistente, comunque assunta
dal danneggiante nei confronti del danneggiato"[5].
Il fondamentale arresto delle Sezioni unite della Cassazione n. 6572/2006 (su cui v. infra) ha definitivamente suggellato la ricostruzione da ultimo illustrata: "stante la peculiarità del rapporto di lavoro, qualunque tipo di danno lamentato.. si configura come conseguenza di un comportamento già ritenuto illecito sul piano contrattuale... giacché l'illecito consiste nella violazione dell'obbligo derivante dal contratto, il datore versa in una situazione di inadempimento contrattuale regolato dall'art. 1218 cod. civ.".
Il principio di diritto ora riportato è stato confermato da tutte le sentenze pronunciate nel periodo successivo[6].
Il primo risultato interpretativo su cui occorre confrontarsi è, dunque, il seguente: tendenzialmente, i casi di violazione di diritti del lavoratore ingenerano solo la responsabilità contrattuale del datore di lavoro[7].
1.2 Conseguenze della natura contrattuale della responsabilità Procedendo nell'analisi e, in aderenza agli scopi specifici dell'indagine, si vanno ora a valutare i corollari, in tema di ripartizione degli oneri probatori, della ritenuta natura solo contrattuale della responsabilità datoriale.
Sul punto, deve aversi come punto di riferimento l'importante sentenza delle Sezioni unite 30 ottobre 2001, n. 13533, con cui è stato composto il contrasto interpretativo esistente circa le incombenze probatorie gravanti sul creditore e sul debitore, nel caso di inadempimento nei contratti a prestazioni corrispettive[8].
Prima dell'intervento delle S.U., secondo l'orientamento considerato maggioritario, il regime probatorio sarebbe diverso secondo che il creditore richieda l'adempimento ovvero la risoluzione. In particolare, nel caso in cui si chieda l'esecuzione del contratto e l'adempimento delle relative obbligazioni, l'attore sarebbe chiamato a provare unicamente il titolo che costituisce la fonte del diritto vantato, e cioè l'esistenza del contratto, e, quindi, dell'obbligo che si assume inadempiuto; nell'ipotesi, invece, in cui si domandi la risoluzione del contratto per l'inadempimento dell'obbligazione, l'attore sarebbe tenuto a provare anche il fatto che legittima la risoluzione, ossia l'inadempimento e le circostanze inerenti, in funzione delle quali esso assume giuridica rilevanza, spettando al debitore l'incombenza probatoria di essere immune da colpa, solo quando l'attore abbia provato il fatto costitutivo dell'inadempimento.
Il contrapposto indirizzo - definito minoritario in giurisprudenza ma favorito della dottrina - ha viceversa sempre optato per ricondurre ad unità il regime probatorio utile per tutte le azioni previste dall'art. 1453 c.c. (e cioè, per le azioni di adempimento, di risoluzione e di risarcimento del danno da inadempimento), avendo esse in comune il titolo ed il vincolo contrattuale che si assume violato: spetterebbe al creditore, insomma, di provare i fatti costitutivi della pretesa (fonte del credito e, ove previsto, termine di scadenza) ed allegare solo l'inadempimento ed al debitore di eccepire e dimostrare il fatto estintivo dell'adempimento.
In estrema sintesi, gli argomenti posti dalle Sezioni unite a fondamento della soluzione ora rassegnata consistono nel principio, ricavato dall'art. 2697 c.c, della presunzione di persistenza del diritto: una volta provata dal creditore l'esistenza di un diritto destinato ad essere soddisfatto entro un certo termine, grava comunque sul debitore l'onere di dimostrare l'esistenza del fatto estintivo, costituito dall'adempimento.
Inoltre, si rileva che la domanda di adempimento, la domanda di risoluzione e la domanda autonoma di risarcimento del danno servono tutte a far statuire che il debitore non ha adempiuto: le ulteriori pronunce sono consequenziali a questa statuizione, che rimane perciò eguale a se stessa quali che siano i corollari che ne trae l'attore.
A queste si aggiungono considerazioni di indole pratico: si prospetta la difficoltà per il creditore di fornire la prova del fatto negativo di non aver ricevuto la prestazione, sia pure adducendo fatti positivi contrari; laddove, la prova dell'adempimento, se effettivamente avvenuto, sembra estremamente agevole per il debitore, che di regola è in possesso di una quietanza o di altro documento relativo al mezzo di pagamento utilizzato. Ciò costituisce applicazione del principio di riferibilità o disponibilità o vicinanza della prova, ponendosi in ogni caso l'onere probatorio a carico del soggetto nella cui sfera si è prodotto l'inadempimento.
Va ancora considerato che  la Corte ha esteso anche all'ipotesi dell'inesatto adempimento il principio della sufficienza dell'allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), rimettendo al debitore di dimostrare l'avvenuto esatto adempimento.
La sentenza menzionata riconosce una sola eccezione al principio sancito: l'inadempimento di obbligazioni negative; dedotta, cioè, la violazione di una obbligazione di non fare, la prova dell'inadempimento rimane sempre a carico del creditore, anche nel caso in cui agisca per l'adempimento. In virtù dell'art. 1222 c.c., infatti, ogni fatto compiuto in violazione di obbligazioni di non fare costituisce di per sé inadempimento; sicché l'inadempimento delle obbligazioni negative integra sempre un fatto positivo.
Nella cornice ora delineata, va poi tenuto presente che - in deroga ai principi generali di cui all'articolo 2697 c.c., applicabili ad ogni altro tipo di responsabilità, opera la presunzione legale di colpa[9], a carico del (debitore inadempiente) responsabile del danno da risarcire, ai sensi dell'art. 1218 c.c.[10]
La regola è fondata sulla massima di esperienza per cui la violazione del rapporto obbligatorio deriva normalmente dalla negligenza del debitore e solo eccezionalmente da impedimenti insuperabili con la normale diligenza. La colpa è dunque "normalmente implicita nell'inadempimento"[11]. Di conseguenza, risulta dispensato - dall'onere probatorio relativo -proprio il creditore danneggiato.
Conclusivamente e schematicamente, il risultato interpretativo scaturente dall'intervento delle S.U. e successivamente sempre ribadito[12] è che in caso d'inadempimento contrattuale, qualsivoglia azione si intraprenda:
• il creditore deve: 1) allegare e provare il fatto costitutivo del diritto azionato 2) allegare l'inadempimento del debitore
• il debitore deve: 1) allegare e provare i fatti estintivi, impeditivi, modificativi 2) allegare e provare la non imputabilità
• eccezione per le obbligazioni negative: il creditore deve provare l'inadempimento
1.3 L'importanza degli atti introduttivi
Riassunto sopra il significato del principio di diritto affermato dalle S.U., deve operarsi qualche precisazione esplicativa, riferita alla materia lavoristica specifica[13]. Le puntualizzazioni che si vanno esponendo sono funzionali ad affrontare quel punto nevralgico nella conduzione di un processo che è lo studio iniziale degli atti introduttivi della causa. Infatti, l'esperienza giurisprudenziale evidenzia che l'attento esame dei soli atti introduttivi del giudizio molto spesso denuncia, in sé, l'inammissibilità o l'irrilevanza dei mezzi di prova e la decidibilità immediata della causa.
La sequenza ordinata dei passaggi successivi del vaglio preliminare è, schematicamente, la seguente.
1. individuazione del diritto azionato e verifica dei relativi fatti costitutivi
In prima battuta, il ricorrente ha l'onere di allegare i fatti storici che, secondo l'assunto sostenuto, sarebbero costitutivi del diritto fatto valere. Ciò significa che, dalla lettura del ricorso, deve essere possibile individuare con chiarezza il diritto azionato e le circostanze storiche, sufficientemente definite nella loro consistenza fattuale, che secondo le ragioni giuridiche fatte valere, sarebbero generatrici della situazione giuridica soggettiva azionata.
Dunque, va controllata anche la astratta correlazione tra diritto azionato e fatti generatori addotti.
Il diritto azionato deve dunque profilarsi ben definito nel suo oggetto ed astrattamente esistente in base ai fatti costitutivi asseriti.
2. apprezzamento dell'ipotetico inadempimento
In secondo luogo, il ricorrente deve almeno allegare l'inadempimento della controparte. Infatti, anche ai fini di radicare l'interesse ad agire, in ricorso ci deve essere l'allegazione di fatti storici concretizzanti la lamentata violazione del diritto: almeno in astratto, va apprezzata la sussistenza e consistenza di una reale e precisa violazione del diritto.
3. valutazione del danno lamentato e del nesso causale
Ancora in limine litis, il giudice deve valutare l'accoglibilità dell'eventuale domanda risarcitoria. Come si approfondirà, il ricorrente ha, al riguardo, l'onere di specificare le precise voce di danno patito ed allegare elementi concretizzanti il preteso nesso causale rispetto alla condotta inadempitiva lamentata.
4. fatti impeditivi, estintivi o modificativi
Solo ove le allegazioni del creditore sui punti sopra indicati siano sufficientemente determinate si radica, in capo al resistente, l'onere di contestare la fondatezza della pretesa e,
aggiuntivamente, di allegare e provare l'eventuale esistenza di fatti storici diversi, concretizzanti vicende impeditive (cioè che hanno ostato ab initio all'insorgere del diritto azionato), estintive (cioè che hanno fatto venir meno il diritto, in origine esistente) o modificative.
1.4 Insufficienza assertiva: conseguenze
Si pongono due ipotesi.
La prima è che gli oneri assertivi, come sopra delineati, in particolare dal ricorrente, non vengano gravemente assolti provocandosi la radicale nullità del ricorso, ex art. 414 c.p.c.
Siffatta evenienza, è bene chiarire, ricorre solo quando l'atto sia inidoneo al suo scopo, in applicazione della norma generale di cui all'art.156, comma 2, c.p.c., cioè quando risulti impossibile, dalla lettura dell'atto, intendere uno degli elementi identificativi dell'azione, petitum o causa petendi [14]. Diverse sono, invece, le conseguenze nel caso in cui l'atto introduttivo sia valido, contenendo elementi assertivi, in fatto ed in diritto, sufficienti per la comprensione dell'oggetto e della ragione giuridica della domanda, ma le circostanze storiche
rilevanti ed abbisognevoli di prova risultino solo genericamente allegate.
In questa seconda evenienza, infatti, superata l'eccezione di nullità del ricorso, dovrebbe dichiararsi l'inammissibilità dei mezzi di prova vertenti su fatti storici solo genericamente individuati. Ricorrendo tale ipotesi, respinte le richieste istruttorie a cagione della genericità fattuale di circostanze storiche decisive, su cui la prova dovrebbe vertere (in quanto fatti costitutivi del diritto azionato), la domanda dovrebbe essere rigettata nel merito.
2. Il demansionamento
2.1 Il lavoro privato
Ai sensi dell'art. 2103 c.c. "il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito...ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte". Come previsto dall'art. 96 att. C.c., il datore di lavoro è tenuto, all'atto dell'assunzione, a definire non solo l'inquadramento formale del dipendente ma anche il contenuto specifico dei compiti al medesimo affidati (cd. contrattualità delle mansioni).
Il termine di riferimento dell'equivalenza, contemplata dall'art. 2103 cod. civ. (nel testo risultante dall'art. 13 della legge n. 300 del 1970), e' costituito dal contenuto professionale delle mansioni stesse; sicché devono considerarsi inferiori mansioni che, rispetto alle precedenti, comportino una sottoutilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal lavoratore. La materia è stata di recente oggetto di profonda revisione da parte della Cassazione.
L'analisi della tradizionale giurisprudenza in materia, consentiva di ritenere assodati i seguenti criteri interpretativi:
a) l'equivalenza non significa "identità", ma omogeneità[15];
b) l'equivalenza va valutata in concreto rispetto ai seguenti elementi:
- contenuto materiale intrinseco dei compiti assegnati
- competenza richiesta
- livello professionale raggiunto
- possibilità di utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal
dipendente nella pregressa fase del rapporto
- grado di autonomia e discrezionalità - consistenza quantitativa dell'impegno[16],
- posizione del dipendente nel contesto dell'organizzazione aziendale del lavoro[17];
c) non sussiste l'equivalenza quando il lavoratore venga lasciato inattivo[18],
d) non costituisce invece demansionamento l'affidamento di mansioni inferiori ove queste siano meramente marginali ed accessorie ed il lavoratore sia adibito in maniera prevalente e assorbente a mansioni corrispondenti alla qualifica di appartenenza[19].
L'attuale giurisprudenza, invece, afferma "una nozione "dinamica" di equivalenza professionale, basata sulla conservazione dei tratti essenziali fra le competenze richieste al lavoratore prima e dopo il mutamento di mansioni. Costituisce, invero, principio ormai acquisito che possano legittimamente assegnarsi al dipendente, a parità d'inquadramento, mansioni anche del tutto nuove e diverse, purché affini alle precedenti dal punto di vista del contenuto professionale. L'esistenza, per così dire, di un "minimo comune denominatore" di conoscenze teoriche e capacità pratiche è condizione necessaria e sufficiente a consentire che il dipendente sia in grado di svolgere le nuove mansioni con la preparazione posseduta. Anzi, il fatto di mutare ramo di attività, operando in settori diversi della medesima area professionale, permette finanche al lavoratore d'incrementare ed arricchire il bagaglio di nozioni sviluppato nella fase pregressa del rapporto.
In quest'ottica, senz'alcun dubbio quella che meglio risponde alle attuali caratteristiche ed esigenze del mondo del lavoro, la professionalità non rileva, dunque, come un'entità statica ed assoluta, sganciata dalla realtà aziendale, bensì come patrimonio di conoscenze potenzialmente polivalente, capacità  di far fruttare nel nuovo posto di lavoro l'esperienza e le cognizioni sino a quel momento acquisite. Muovendo da una concezione siffatta di professionalità, e quindi d'equivalenza professionale, questa Corte ha affermato che se è vero che le nuove mansioni affidate al dipendente debbono essere coerenti con la specifica
competenza da lui maturata, ciò non significa che il lavoratore che abbia acquisito una esperienza nell'ambito di un determinato settore dell'azienda non possa mai essere trasferito ad altro settore nell'ambito del quale egli venga chiamato ad affrontare problemi diversi o a dover soggiacere ad una organizzazione del lavoro concepita con modalità diverse rispetto a quelle afferenti la precedente mansione: ciò che importa, nel rispetto della tutela delineata dall'art. 2103 c.c., è che, attraverso l'affidamento di compiti nuovi, del tutto estranei rispetto all'attività precedentemente svolta ed alle cognizioni tecniche già acquisite, non venga del tutto disperso il patrimonio professionale e di esperienza già maturato dal dipendente, compromettendo altresì irrimediabilmente le sue prospettive di carriera all'interno dell'impresa cui appartiene. In sostanza, il rispetto della professionalità del lavoratore subordinato - cui tende l'art. 2103 c.c. nel porre limiti allo ius variandi del datore di lavoro - non si traduce necessariamente nella continuazione delle medesime operazioni lavorative effettuate in precedenza, potendosi esso esprimere anche in tutti i casi in cui, pur nel contesto di una diversa attività lavorativa, l'esperienza professionale ivi maturata possa ritenersi utile alfine del miglior espletamento della prestazione richiesta. In tale ipotesi, infatti, il quadro complessivo delle attitudini professionali del lavoratore non viene ristretto, ma al contrario viene ampliato, potendo il lavoratore, già forte dell'esperienza acquisita, arricchire il proprio bagaglio professionale attraverso l'effettuazione di una esperienza nuova a lui affidata proprio in considerazione della consapevolezza dei problemi che egli ha già affrontato nel corso della pregressa attività"[20].
Dunque, oggi l'equivalenza va apprezzata rispetto a:
- solo un minimo comune denominatore
- potenzialità di arricchimento professionale
- le definizioni dei c.c.n.l. (v. infra).
2.2 Demansionamenti leciti
L'art. 2103 co. 2° c.c. stabilisce la nullità di qualsiasi patto contrario. Non è dunque disponibile, in via convenzionale, il diritto alla professionalità acquisita[21].
In alcune specifiche norme di legge, si ammettono ipotesi di deroga all'art. 2103 ove si tratti di salvaguardare beni ritenuti dal legislatore di rango superiore (es. l'art. 4, comma 11° legge 23 luglio 1991, n. 223[22]; l'art. 1, comma 7° e dall'art. 4, comma 4° legge 12 marzo 1999, n. 68[23]; l'art. 7, 5° co. L. 151/2001[24], già art. 30/33 della legge n. 1204/1971).
Proprio sulla falsariga delle norme derogatorie citate, la giurisprudenza ha aderito ad una lettura flessibile della norma, in base ad una interpretazione costituzionalmente orientata, volta al bilanciamento delle esigenze contrapposte e soprattutto alla tutela di interessi superiori. In questa direzione, per esempio, quando la sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore a svolgere le mansioni per le quali lo stesso è stato assunto non comporti però la totale impossibilità di svolgere qualsiasi tipo di prestazione lavorativa, la giurisprudenza legittima l'utilizzo del lavoratore, previa accettazione di quest'ultimo, in mansioni anche dequalificanti ma, comunque, in grado di permettere l'utilizzo della sua residua capacità lavorativa[25].
Ancora, si è legittimata l'assegnazione unilaterale a mansioni non equivalenti per un limitato periodo di tempo al fine dell'apprendimento di nuove tecniche[26].
Analogamente è a dirsi per il patto di demansionamento.
In particolare, si è ammessa la modifica consensuale in peius ove il demansionamento sia l'unica misura atta a scongiurare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo[27]. Anche di recente la Cassazione[28] ha affermato "costituisce principio ormai acquisito nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui l'art. 2103 c.c... non opera allorché il patto peggiorativo corrisponde all'interesse del lavoratore medesimo. Ed in effetti il diritto alla tutela della posizione economica e professionale del lavoratore deve trovare contemperamento con la tutela di altri interessi prioritari del lavoratore quale quello alla conservazione del posto di lavoro; per cui deve ritenersi legittima una interpretazione non restrittiva della disposizione anche alla luce delle maggiori e notorie difficoltà in cui versa oggi il mercato del lavoro".
I requisiti legittimanti sono: il consenso del lavoratore + condizioni che avrebbero legittimato licenziamento.
La sentenza ora citata, chiarisce che "l'onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni di fatto che avrebbero giustificato il licenziamento incombe sul datore di lavoro, in osservanza dell'art. 5 della legge n. 604/1961 e del divieto posto dall'art. 2103".
2.3 Il ruolo della contrattazione collettiva
Le considerazioni ora svolte offrono il destro per evidenziare un aspetto cruciale, di attuale rilevanza, costituito dal ruolo della contrattazione collettiva nella definizione del concetto di equivalenza.
Invero, la sanzione di nullità di ogni patto contrario sancita dall'art. 2103 c.c., si estende evidentemente anche alle clausole contrattuali collettive. In questo senso, è massima tralatizia che la valutazione che il giudice di merito è tenuto ad effettuare, in ordine all'equivalenza delle mansioni, deve essere effettuata in concreto, e non è vincolata alla classificazione delle mansioni nella contrattazione collettiva[29].
Tuttavia, ciò che è decisivo rimarcare è che se il ccnl non può vincolare il giudice nella definizione astratta dell'equivalenza, può e deve significativamente orientarlo nella definizione della quaestio facti.
Il ragionamento prende le mosse, intanto, dal rimarcare che nel giudizio di equivalenza di cui all'art. 2103, il giudice deve senza dubbio effettuare un confronto di tipo fattuale ed empirico tra i diversi tipi di mansioni, ma, come sostenuto pure dalla Cassazione citata in nota, il medesimo deve riferirsi, in via parametrica anche a quanto disposto dalla contrattazione collettiva[30]. Le considerazioni che si vanno sviluppando assumono poi particolare rilievo euristico quando si tratti di applicare norme a contenuto generico, cioè moduli normativi indeterminati, clausole generali, concetti elastici, tra i quali rientra anche il concetto di equivalenza. In casi di tal fatta, è noto che, definendo un importante revirement, la Suprema corte ha statuito che l'operazione di integrazione del contenuto di tali norme deve essere compiuta dall'interprete non con la creazione di propri canoni valutativi, di genesi personale e soggettiva, ma con la ricerca, all'interno del complessivo sistema, di criteri e principi integrativi. Tali ultime regole oggetto appunto di ricognizione, secondo la Cassazione, acquisiscono per vis abtractiva, una natura comunque giuridica, la cui individuazione ed applicazione definendo una quaestio iuris, rimane sindacabile in via diretta in sede di legittimità[31].
Ebbene, nel novero di questi criteri che l'interprete e quindi anche il giudice deve ricercare per colmare la norma indeterminata senz'altro primeggiano, nel microcosmo lavoristico, come riconosciuto nelle predette occasioni anche dalla Corte, le disposizioni della contrattazione collettiva. Infatti, per le ragioni già enucleate, la produzione regolativa delle formazioni rappresentative delle contrapposte parti contrattuali, rilevanti anche ai sensi dell'art. 2 Cost., assume portata persuasiva di assoluto rilievo. Si pensi del resto, in temi quali l'individuazione del minimo salariale ex art. 36 Cost. o l'accertamento della giusta causa di licenziamento, ex artt. 2119 e 2106 c.c., quale ampio ruolo la giurisprudenza consolidata assegni alle disposizioni pattizie[32]. Anzi, proseguendo su questa ultima falsariga, deve rammentarsi che anche le recenti innovazioni ordinamentali che hanno investito la materia del pubblico impiego hanno, già a livello normativo (v. art. 52 T.U.), segnato il recepimento proprio dell'indirizzo interpretativo che, anche nel settore privato, va vieppiù sviluppandosi (v. infra).
Peraltro, tornando al settore privato, è il caso di rammentare che, giusta pacifico insegnamento della Suprema Corte, le norme contrattuali, cui la legge affidi compiti classificatori, sono insindacabili da parte del giudice[33].
Il punto in esame ha, nell'applicazione giurisprudenziale, presentato controversi momenti di emersione per la Poste Italiane s.p.a.: poiché il caso risulta paradigmatico, ne risulta opportuna una breve analisi.
Dopo l'introduzione della nuova classificazione del personale di cui agli artt. 40 e ss. del CCNL del 26.11.1994, tutto il personale della società Poste Italiane, in precedenza suddiviso in nove categorie, è stato accorpato in quattro Aree funzionali.
L'art. 4 dell'allegato 1 prevede poi che nell'ambito dell'Area operativa, nella quale "il contenuto di specializzazione funzionale non costituisce elemento ostativo, deve essere garantita in presenza di necessità di servizio, l'intercambiabilità del personale"; il successivo art. 5, lett. b) prevede poi la possibilità della società di attuare nell'ambito di progetti di riorganizzazione aziendale, al fine di salvaguardare i livelli occupazionali, la fungibilità all'interno di ogni area. Dunque, avendo la società proceduto allo spostamento orizzontale dei dipendenti in mansioni comprese nella stessa Area, si è posto il problema della compatibilità dei principio di fungibilità ed interscambiabilità interna all'area rispetto all'art. 2103.
La questione è stata di recente definita dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione nella importante sent. n. 25033/06, statuendosi che la contrattazione può introdurre meccanismi convenzionali di mobilità orizzontale prevedendo, con apposita clausola, la fungibilità funzionale tra mansioni nella stessa area per sopperire a contingenti esigenze aziendali ovvero per consentire la valorizzazione della professionalità potenziale di tutti i lavoratori inquadrati in quella qualifica, senza per questo incorrere nella sanzione di nullità del comma secondo della citata disposizione dell'articolo 2103 c.c..
In particolare i giudici di legittimità hanno evidenziato come le parti sociali possano legittimamente introdurre nella contrattazione collettiva clausole di fungibilità compatibili con l'articolo 2103 c.c., collocando plurime e diverse mansioni nella stessa qualifica, sicché il lavoratore inquadrato in quella qualifica è idoneo, e sa di poter essere chiamato a svolgere, mansioni diverse, in ipotesi anche di livello diverso. Secondo le Sezioni unite, la dimensione individuale della garanzia dell'articolo 2103 c.c. crea degli "steccati" (sic) che certamente valgono a protezione del lavoratore nei confronti di un indiscriminato jus variandi del datore di lavoro; ma possono rappresentare anche un attrito di resistenza alla progressione professionale della collettività dei lavoratori inquadrati in quella stessa qualifica. Ed allora, se come deve ritenersi in materia , rileva non solo quello che il lavoratore fa, ma anche quello che sa fare (ossia la professionalità potenziale), la contrattazione collettiva può legittimamente farsi carico di ciò, prevedendo e disciplinando meccanismi di scambio o di avvicendamento o di rotazione che non violano la garanzia dell'articolo 2103 c.c., ma che con quest'ultima sono compatibili.
E' ancora da segnalare che nella successiva e recentissima sentenza n. 8596/2007 la Cassazione ha voluto, consapevolmente, portare "ad ulteriori sviluppi la giurisprudenza sulle mansioni promiscue e vicarie. Più specificamente la contrattazione collettiva può prevedere che le mansioni corrispondenti alla qualifica di appartenenza siano costituite dallo svolgimento (promiscuo, appunto) di plurime attività diverse, talune anche con carattere di prevalenza  rispetto ad altre (Cassazione, Sezione lavoro, 1987/04; 16461/03), ovvero che le mansioni assegnate comprendano eventualmente anche attività vicarie di diverso livello (Cassazione, Sezione lavoro, 9141/04; 14738/99) analogamente la stessa contrattazione collettiva può introdurre clausole di fungibilità che, verificandosi specifici presupposti di fatto, consentano una mobilità orizzontale tra le mansioni svolte e quelle, pur diverse, rispetto alle quali sussiste un'originaria idoneità del prestatore a svolgerle secondo un criterio di professionalità potenziale per ciò che il lavoratore sa fare, anche se attualmente non fa". In sintesi, ed in conclusione, ne risulta affermato, "come principio di diritto, che ... le convenzioni delle parti sociali pongono, dunque, legittimi e razionali meccanismi di mobilità orizzontale prevedendo, con apposita clausola, la fungibilità funzionale tra mansioni diverse ma con un nucleo di omogeneità ed affinità al fine di sopperire, come detto, a contingenti esigenze aziendali ovvero per consentire la valorizzazione della professionalità potenziale di tutti i lavoratori inquadrati in quella qualifica senza per questo incorrere in alcuna sanzione di nullità... Le considerazioni ora fatte inducono a ribadire che una interpretazione dell'articolo 2103 c.c. abbandonando
l'ottica di una cristallizzata tutela del "singolo lavoratore" a fronte dello jus variandi dell'imprenditore - debba privilegiare un ponderato esame del dato normativo che tenga pure conto dei complessi problemi di riconversione e di ristruttuazìone delle imprese (che impongono una attenuazione di una rigidità della regolamentazione del rapporto di lavoro capace di ostacolare detti processi) e che, in tale direzione, venga a configurarsi come naturale evoluzione di un indirizzo giurisprudenziale volto ad assegnare alla contrattazione collettiva incisivo rilievo nella gestione dei rapporti lavorativi delle imprese anche nelle sue articolazioni locali, in ragione delle specifiche situazioni che si possono verificare nelle varie realtà aziendali e territoriali, e che possono richiedere un adeguamento degli organici con una accentuata flessibilità proprio per soddisfare le diverse esigenze sopravvenute in dette realtà"[34].
Si è, dunque, di fronte alla presa d'atto della Cassazione dell'intervenuta "globale rivisitazione dei precedenti orientamenti giurisprudenziali sull'articolo 2103 c.c., con il riconoscere, nella materia in esame alla contrattazione collettiva la possibilità di una identificazione di mansioni fungibili (e tra di esse legittimamente interscambiabili), condizionando la legittimità di detta flessibilità alla circostanza che tra le suddette mansioni si riscontri quantomeno un nucleo di
omogeneità ed affinità"[35].
Per le ricadute sui carichi probatori, v. infra, par. 2.5.
2.4 Il pubblico impiego
L'art. 52 del d.lgs. n. 165/2001 definisce, in maniera esaustiva ed ex novo, la "disciplina delle mansioni" nel lavoro pubblico e dunque la medesima deve collocarsi tra "le diverse disposizioni" (ex art. 2, co. 2) contenute nel decreto di riforma di deroga alla normativa civilistica. Conseguenza ne è che, nel lavoro pubblico è, almeno in parte qua, radicalmente esclusa l'applicabilità dell'art. 2103 c.c.
Il testo della disposizione risultante dalla cd. seconda privatizzazione segna un apprezzabile passo nella direzione dell'allineamento con regole e principi giusprivatistici.
Intanto, va valorizzato il dato letterale nel suo riferirsi al concetto di "mansioni". Si assiste cioè al passaggio dalla precedente prospettiva, ancorata alla "qualifica di appartenenza", cioè ad un dato puramente formale, ad un criterio concreto ed empirico, cioè quello strettamente mansionistico.
La norma sancisce quindi il diritto del lavoratore ad essere adibito alle mansioni "per le quali è stato assunto". Si rileva dunque, anche in questo ambito, la contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico, con riferimento precipuo alla stretta negozialità delle mansioni, principio già sancito dall'art. 2103 c.c.
L'art. 52 dispone, poi, che il dipendente può essere adibito anche "alle mansioni considerate equivalenti nell'ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi".
Tra i settori pubblico e privato sussiste una fondamentale differenza di diritto positivo: l'art. 2103 parla di mansioni equivalenti "alle ultime effettivamente svolte"; l'art. 52, viceversa, tratta di mansioni "considerate equivalenti nell'ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi".
L'art. 2103 attribuisce rilievo, come termine di paragone, alle mansioni di fatto e da ultimo espletate, dunque rende rilevante tutta la crescita professionale che, a livello diacronico, il dipendente si trovi ad aver sviluppato, secondo la realtà aziendale contingente  singolarmentevissuta. Di contro, l'art. 52[36] si riferisce solo alle mansioni pattuite al momento dell'assunzione o (salvo avanzamento) a tutte quelle astrattamente qualificate equivalenti nella disciplina pattizia. Si pone dunque l'interrogativo relativo al ruolo rivestito dalle norme contrattualcollettive nel contesto del giudizio di equivalenza. Sul punto risultano oggi formulate, in giurisprudenza ed in dottrina, due diverse tesi.
1) Secondo il primo orientamento, inderogabilmente, alla contrattazione collettiva sarebbe assegnata la definizione del concetto di equivalenza.
Il giudizio di equivalenza sarebbe dunque, in questa sede, non un'indagine di fatto, ma un giudizio d'interpretazione di norme contrattuali. Infatti, sarebbe la stessa legge che ha volutamente rimesso all'autonomia collettiva la valutazione del "merito" della professionalità, secondo un concetto di equivalenza non in concreto ma in astratto[37].
Il rinvio operato dall'art. 52 al contratto collettivo sarebbe quindi di tipo costitutivo[38] "di un vero e proprio potere regolativo: spetterebbe in modo esclusivo alla contrattazione precisare la portata dell'equivalenza[39]". L'intervento del giudice sarebbe, perciò, consentito solo a fronte di clausole collettive irrazionali o incoerenti, violative degli obblighi di buona fede[40].
2) Secondo altro indirizzo, invece, il giudizio di equivalenza dovrebbe essere sempre condotto in concreto, come avviene nell'impiego privato, ma i contratti collettivi non fornirebbero all'interprete un mero indice ermeneutico, ma lo vincolerebbero ad operare il giudizio entro l'ambito da esse stabilito.
Ora, valutando il "significato proprio delle parole secondo la loro connessione", in armonia con la ratio legis, considerato anche il modo con cui gli operatori negoziali hanno recepito la delega[41], ben si ricava che il c.c.n.l. vincola l'interprete nella determinazione del confine classificatorio entro o oltre il quale deve essere affermata/esclusa l'equivalenza. La norma, infatti, non parla di mansioni definite equivalenti dalla contrattazione collettiva, ma di "mansioni considerate equivalenti nell'ambito della qualificazione professionale prevista nei
contratti collettivi". La "considerazione" dell'equivalenza, cioè l'apprezzamento in concreto della stessa, deve essere sviluppata all'interno della qualificazione professionale prevista nei contratti collettivi.
Dunque, il c.c.n.l. ha signoria definitoria solo nella costituzione del limite oltre il quale sicuramente non può esservi equivalenza (es. area) o dei parametri delimitativi del giudizio in concreto. Dovrebbe perciò escludersi l'ipotesi della immediata rimessione al prudente e libero apprezzamento del giudice della valutazione sull'equivalenza, con indagine direttamente condotta ad personam sulla specifica professionalità interessata, a prescindere dalle norma pattizie[42]. Peraltro, molti c.c.n.l. hanno recepito la delega proprio ribadendo la necessità che, nell'ambito stabilito, l'equivalenza sia poi verificata in concreto[43].
Si segnala che la Cassazione sembra avere sposato (pur senza particolari approfondimenti) la tesi dell'affidamento alla contrattazione collettiva della definizione dell'equivalenza, almeno come limite vincolante di valutazione.
Così nella recente sent. n. 55/2007, si sostiene che il "principio fissato ora dal D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 52, postula una condizione di equivalenza fissata all'interno dei singoli contratti collettivi. Ancora, pur se in obiter dictum nella sent. n. 13372/2003 si legge "È costantemente riconosciuto nella giurisprudenza di questa Corte che ai fini dell'applicazione dell'art. 2103 cod. civ., spetta all'autonomia collettiva fissare la gerarchia delle mansioni e delle relative qualifiche allo scopo di stabilire la "categoria superiore" e le "mansioni superiori". Ma, occorre che tale potere (espressione di una specifica idoneità in materia dello strumento negoziale collettivo, che ha ricevuto recenti conferme in sede legislativa, ad es. nella materia dei rapporti di lavoro pubblici contrattualizzati, dove al contratto collettivo è affidata anche la individuazione dell'equivalenza delle mansioni: v. ora art. 52 del d.lgs 30 marzo 2001, n. 165".
Nella sent. N. 17774/2006, poi, in un caso del comparto Ministeri, la Corte, implicitamente attenendosi alla definizione di equivalenza della norma pattizia[44], chiarisce il significato ampio e flessibile della "esigibilità" delle mansioni[45], peraltro riconoscendo l'onere del lavoratore di allegare e dimostrare la "sostanziale estraneità professionale" delle mansioni richieste rispetto alla propria professionalità essenziale.
Questa lettura è del resto in linea con la recente lettura flessibile dello stesso art. 2103 c.c. affermata dalle Sezioni unite citate; dunque, andrebbero rispettate le clausole contrattuali affermative di criteri di fungibilità tendenziale entro ambiti predefiniti e ciò per due ragioni correlate: la rivisitazione del concetto di professionalità (e quindi di equivalenza) e la rilevanza in materia delle pattuizioni collettive[46].
Sul consenso al demansionamento nel pubblico impiego, risulta di dubbia soluzione la questione inerente la validità di un patto tra il dipendente e l'amministrazione datrice circa l'assenso all'adibizione a mansioni inferiori.
Nel lavoro privato, l'art. 2103 cpv. espressamente sanziona con la nullità qualsiasi patto contrario al suo precetto. Nulla invece è previsto nell'impiego pubblico. La prima giurisprudenza di merito pronunciatasi, ha esteso l'art. 2103 cpv. sulla base del rinvio generale alle norme codicistiche[47]. La soluzione però non convince, attesa la voluta omissione nel pubblico impiego, di una norma uguale al 2103. Dunque deroghe convenzionali, individuali e collettive, paiono doversi ammettere. Ciò anche in base al trend interpretativo ormai sempre più condiviso, per cui sarebbe ammessa la deroga all'art. 2103 ogni volta che si tratti di salvaguardare beni di rango superiore (v. supra).
2.5 Gli oneri probatori
Poiché l'art. 2103 c.c. non contiene alcuna specifica disciplina, in ipotesi singolare o eccezionale, in materia di ripartizione dell'onere della prova, secondo il sistema interpretativo individuato all'inizio della relazione, dovrà farsi riferimento ai principi generali regolatori della materia dell'inadempimento contrattuale[48].
La questione che si pone è, tuttavia quella della controversa configurabilità del precetto dell'art. 2103 come obbligazione datoriale di non fare (art. 1222 c.c.): obbligo di non adibire il prestatore a mansioni non equivalenti. Aderendo, infatti, a tale ultima ricostruzione, il riparto degli oneri probatori dovrebbe essere definito secondo l'ipotesi eccezionale tipizzata dalle Sezioni unite nella citata sentenza n. 13533; dunque, trattandosi di obblighi negativi, il lavoratore dovrebbe allegare e provare (oltre l'esistenza del diritto) anche l'inadempimento (in via successiva, allegare e provare le voci di danno ed il nesso causale).
Se, invece, si ritiene, come sembra preferibile, che l'equivalenza comporti un obbligo di fare, cioè di assegnare mansioni equivalenti, l'onere della allegazione dell'inadempimento graverà
sempre sul lavoratore, ma la prova dell'adempimento, quale fatto estintivo, incomberà sul datore di lavoro. Quest'ultima è senz'altro, la posizione prescelta dalla Cassazione.
"Allorquando da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o un demansionamento o comunque un inesatto adempimento dell'obbligo del datore di lavoro ex art. 2103 c.c. è su quest'ultimo che incombe l'onere di provare l'esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l'una o l'altro siano state giustificate dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari (ovvero, in base al principio generale di cui all'art. 1218 c.c., comunque da una impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile"[49].
In sintesi:
· il diritto che viene azionato è il diritto allo svolgimento di mansioni equivalenti. Il fatto costitutivo del diritto consiste, quindi, nella individuazione del contenuto delle mansioni di assunzione o delle ultime effettivamente svolte.
· Il fatto inadempitivo, della cui allegazione il lavoratore è comunque onerato, consiste nella assegnazione a mansioni che si assumono deteriori. Questo punto è molto importante, perché dalle asserzioni storico-giuridiche contenute in ricorso il giudice deve essere già posto in condizione di apprezzare in astratto (rispetto all'attuale concetto di equivalenza) la modificatio in peius, sulla base di elementi fattuali circostanziati e specifici[50].
Dunque, nel ricorso deve essere contenuta una comparazione analitica del contenuto delle mansioni di provenienza e di destinazione, con adeguate argomentazioni circa la lamentata disomogeneità[51]. In questa direzione, la violazione dell'art. 2103 deve essere supportata da oneri assertivi precisi, senza che possa rimettersi il dedotto demansionamento al fatto notorio, alla sensibilità comune, al mero confronto tra qualifiche o a formule vaghe e generalizzanti.
· Solo ove gli oneri assertivi che precedono siano stati sufficientemente assolti si radica l'onere del convenuto di contestazione e di allegazione di fatti impeditivi, estintivi o modificativi.
2.6 La tutela in forma specifica
In passato la giurisprudenza aveva dubitato circa la legittimità, in caso di dequalificazione del lavoratore dipendente, di una sentenza di condanna del datore di lavoro ad adibire il lavoratore alle mansioni in precedenza assegnate, soprattutto in considerazione del carattere eccezionale del provvedimento di reintegrazione, consentito nei soli casi previsti dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970. Le pronunce emanate in epoca successiva hanno osservato che, anche a voler ritenere che il c.d. ordine di reintegrazione nelle specifiche mansioni esercitate prima della illegittima destinazione ad altro incarico non sia suscettibile di esecuzione forzata, è tuttavia consentita l'emanazione dell'ordine in questione da parte del giudice, restando inteso che il datore di lavoro può ottemperarvi anche assegnando il dipendente a mansioni diverse e caratterizzate soltanto dal requisito della equivalenza alle precedenti.
Con la sentenza n. 425/2006 la Corte è intervenuta a razionalizzare la materia.
Se si riconosce che la violazione della norma imperativa di cui all'art. 2103 cit. implica la nullità del provvedimento datoriale - ha osservato la Corte - si deve parimenti ammettere la possibilità che al lavoratore sia accordata una tutela piena, mediante l'automatico ripristino della precedente situazione, fatto salvo, ovviamente, il c.d. jus variandi del datore di lavoro; tale situazione non ha nulla a che vedere con quella prevista dall'art. 18 della L. 300/70, il cui richiamo costituisce un falso problema. L'ordinamento vigente - ha affermato la Corte -privilegia la tutela satisfattoria dell'interesse leso (cfr. Cass. S.U. n. 141/2006); alla sua realizzazione è preordinata la pronuncia di condanna del datore all'adempimento in forma specifica; tutela che è anch'essa "reale", al pari di quella prevista dall'art. 18 cit., in quanto comporta la persistenza del rapporto illegittimamente modificato del datore, ma appartiene alla sfera del diritto comune, non essendo assimilabile al regime "speciale" previsto per il licenziamento ritenuto illegittimo.
Quanto al pubblico impiego, il 2° comma dell'art. 68 sancisce il potere-dovere del giudice ordinario di adottare nei confronti della P.A. tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna richiesti dalla natura dei diritti tutelati.
E' giusto il caso di constatare che, stricto iure, la norma è priva di contenuto precettivo innovativo, posto che essendo, gli atti di gestione del rapporto lavorativo di natura privatistica,
in ogni caso non avrebbe trovato applicazione l'art. 4, 2° comma, della l. n. 2248 del 1865, all. E.
Comunque, l'art. 68 vale proprio a ribadire l'obiettivo della pienezza e della effettività della tutela da assicurarsi al dipendente pubblico .
3. La promozione automatica
3.1 Il lavoro privato
La giurisprudenza in materia di promozione automatica del lavoratore adibito temporaneamente all'esercizio di mansioni superiori risulta ormai assestata. Se ne riportano qui gli approdi interpretativi più rilevanti[52].
· sulla durata minima del periodo
In primis, circa la durata minima dell'espletamento delle mansioni superiori necessaria per l'acquisto del diritto alla qualifica superiore, l'art. 2103 c.c. la quantifica in tre mesi; la contrattazione collettiva può tuttavia introdurre condizioni di miglior favore. La derogabilità in peius del termine trimestrale indicato è invece consentita solo per i dirigenti ed i quadri, ex art. 6 legge 13 maggio 1985, n. 170.
Secondo l'ormai prevalente orientamento giurisprudenziale dovrebbe, ai fini del computo delperiodo in questione, attribuirsi rilievo alle sole giornate di lavoro effettivo e non anche a quelle
di sospensione del rapporto[53].
Gli eventi sospensivi hanno comunque effetto non interruttivo, ma appunto sospensivo, dovendo quindi ricongiungersi il periodo di applicazione precedente a quello successivo alle ferie o alla malattia[54].
A seguito di importanti pronunce della Corte di legittimità, è acclarato che il diritto alla promozione automatica non richiede la rigorosa continuità del periodo, essendo sufficienti anche molteplici brevi assegnazioni a mansioni superiori per un periodo complessivamente maggiore di un trimestre[55].
Permane tuttavia contrasto esegetico circa la necessità o meno, in casi quali quelli ora esposti, della prova dell'intento fraudolento del datore di lavoro.
Per un primo filone giurisprudenziale, infatti, non sarebbe necessario dimostrare un tale tipo d'intento datoriale, essendo al riguardo sufficiente una programmazione iniziale degli incarichi e una predeterminazione utilitaristica di un comportamento inteso ad ovviare, con una pratica
elevata a sistema, esigenze necessariamente ricorrenti o comunque suscettibili di riproporsi con carattere di regolarità e quindi con prevedibile periodicità[56].
Secondo altra corrente invece, ai fini dell'insorgenza del diritto, dovrebbe risultare l'intento fraudolento del datore di lavoro diretto ad impedire la maturazione del diritto alla promozione.
Tale intento sarebbe desumibile proprio dalla frequenza e sistematicità delle reiterate assegnazioni a mansioni superiori tali da palesare la predeterminazione da parte datoriale di tale contegno per sottrarsi all'applicazione della norma in esame; viceversa la volontà elusiva dovrebbe escludersi ogniqualvolta le suddette reiterate assegnazioni risultino giustificate dalla particolare natura dell'attività espletata[57]. Quello da ultimo citato è proprio il caso dei cd. sostituti programmati, cioè di quei dipendenti che espletano istituzionalmente mansioni di vicari di colleghi assenti con diritto alla conservazione del posto[58].
Uno dei punti fermi sulla questione è stato posto dalle Sezioni unite della Cassazione per la specifica fattispecie di sussistenza di obblighi contrattuali del datore di lavoro di coprire il posto vacante mediante concorso. La sentenza 28 gennaio 1995, n. 1023 ha infatti statuito che, ove il contratto collettivo preveda che la copertura di una posizione di lavoro nell'organico aziendale debba avvenire mediante procedura concorsuale, il datore di lavoro - nelle more dello svolgimento del concorso - può coprire tale posto adibendovi a rotazione dipendenti di qualifica inferiore per distinti periodi che, singolarmente considerati, non siano superiori a quello previsto per l'acquisizione della qualifica superiore ex art. 2103 c.c., senza che sia possibile cumularli. In tal caso infatti - argomenta la Corte - la alternanza delle assegnazioni di mansioni superiori non è significativa di alcun intento del datore di lavoro di eludere il rispetto della legge e di avvantaggiarsi di prestazioni lavorative di più elevato livello senza il riconoscimento della corrispondente qualifica, ma risponde (salvo prova contraria) all'esigenza organizzativa di coprire temporaneamente il posto al quale, successivamente ed in via definitiva, dovrà essere assegnato il vincitore del concorso[59].
Si è precisato comunque che la parte datrice potrebbe adibire a rotazione dipendenti di qualifica inferiore ad un posto da coprire mediante concorso, senza maturazione del diritto a qualifica superiore, solo per il tempo strettamente necessario per l'indizione e lo svolgimento del concorso previsto dal regolamento o dal contratto collettivo[60]. Naturalmente, anche in subiecta materia, vi è ampio utilizzo dei principi di correttezza e buona fede[61].
· svolgimento delle mansioni superiori Il carattere vicario delle mansioni svolte preclude il diritto del sostituto all'inquadramento nella qualifica superiore. Dunque, se tra le mansioni tipiche della qualifica di appartenenza sono compresi compiti di sostituzione del dipendente di grado più elevato, la sostituzione non crea il diritto alla promozione[62].
Di recente, si è precisato che questo limite opera solo se la sostituzione è occasionale, "non nel caso in cui la funzione vicaria sia travalicata in ragione del carattere permanente della sostituzione e della persistenza solo formale della titolarità in capo al superiore delle mansioni proprie della relativa qualifica, per effetto di una stabile scelta organizzativa del datore"[63].
L'assegnazione deve, inoltre, essere piena, nel senso che deve implicare l'assunzione del livello di responsabilità e di autonomia tipica delle mansioni superiori[64].
· sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto Secondo l'indirizzo interpretativo ormai consolidato, la fattispecie "assenza con diritto alla conservazione del posto" si estende anche a situazioni ulteriori e diverse rispetto alle ipotesi di sospensione del rapporto legalmente tipizzate (sciopero, adempimento di funzioni pubbliche elettive, infortunio, malattia, gravidanza, puerperio, chiamata alle armi). In tal senso si ritiene che il sindacato sul provvedimento datoriale debba esplicarsi non solo alla luce delle disposizioni legislative, ma anche alla stregua di quelle previste nella contrattazione collettiva; queste ultime infatti ben potrebbero tipizzare fattispecie di temporanea assenza del dipendente comportante la necessità di sostituzione temporanea.
Rimarrebbe del resto impregiudicato il sindacato sui poteri organizzativi del datore di lavoro ove risulti in concreto l'uso fraudolento da parte di quest'ultimo di espedienti per eludere il precetto stabilito dall'art. 2103 cit. a favore del sostituto[65].
In applicazione del principio interpretativo enunciato si è escluso il presupposto dell'effettiva vacanza del posto nel caso di ferie del dipendente da sostituirsi[66]; nell'ipotesi di collega sospeso dal lavoro perché posto in cassa integrazione guadagni[67]; nella situazione dell'assente per l'espletamento di attività sindacale, in forza di permessi retribuiti previsti dalla contrattazione collettiva[68].
Secondo la Cassazione[69], nell'ipotesi in cui un lavoratore subentri ad altro nello svolgimento delle mansioni superiori di un dipendente assente con diritto alla conservazione del posto non è ravvisabile un fenomeno di sostituzione mediante scorrimento (o «a catena» o «a cascata») e lo svolgimento delle mansioni superiori non è utile, ai fini dell'acquisizione della corrispondente qualifica ai sensi dell'art. 2103 c.c., neppure al lavoratore subentrante all'originario sostituto, con detto subentro attuandosi, in definitiva, la sostituzione del lavoratore assente (anziché del suo sostituto)[70].
In talune ipotesi è stata aperta una breccia alla regola della portata ostativa alla promozione del carattere solo vicario delle mansioni superiori svolte, allorché l'esigenza della sostituzione sia derivata da un'obiettiva insufficienza o da carenza dell'organico dell'impresa, fatti che è il dipendente a dover provare o almeno dedurre. In tali evenienze invero il riferimento alla sostituzione di lavoratori assenti sarebbe solo diretto a giustificare l'affidamento di mansioni superiori, reso invece necessario da carenze strutturali di organico, si ché il sostituto andrebbe a
ricoprire un vero e proprio posto nell'organigramma effettivo dell'impresa[71].
Naturalmente, cessata la causa della sostituzione (per esempio, per dimissioni del sostituito) l'eventuale proseguimento dello svolgimento delle suddette mansioni diviene utile ai fini del superiore inquadramento solo quando superi i tre mesi, senza possibilità di cumulo col periodo anteriore [72].
Il carattere vicario delle mansioni espletate preclude non solo il diritto alla promozione, ma anche quello alla maggiore retribuzione per il periodo della sostituzione, allorché l'assegnazione stessa non sia stata piena. Tale ultima condizione si verifica sia quando la sostituzione non abbia riguardato mansioni proprie della qualifica rivendicata, né comportato l'assunzione dell'autonomia e della responsabilità tipiche della qualifica stessa[73] sia ancora quando le mansioni proprie della qualifica del sostituto comprendano compiti di sostituzione di dipendenti di grado più elevato[74], sia, infine, quando l'attività sostitutiva abbia concorso con mansioni prevalenti dell'inferiore qualifica di appartenenza[75].
E' utile far presente che alcuni c.c.n.l., in ipotesi di sostituzione di dipendente assente con diritto alla conservazione del posto, pongono a carico del datore di lavoro l'obbligo di comunicare per iscritto al sostituto i motivi dell'adibizione alle mansioni superiori ed il nominativo del dipendente sostituito[76].
· assegnazione a mansioni superiori Il presupposto del diritto al superiore inquadramento non è costituito solo dalla circostanza che il lavoratore svolga mansioni superiori, ma che egli vi sia «assegnato»; pertanto, deve escludersi che il diritto al superiore inquadramento possa acquisirsi per effetto del mero svolgimento di un compito superiore e della mera inerzia del datore di lavoro, ove questa, per le precise circostanze in cui si esplichi, non esprima univocamente ed inequivocabilmente un consenso; infatti l'assegnazione delle mansioni è un atto in cui si esplica il potere organizzativo del datore di lavoro (qualora le mansioni non siano dedotte nel contratto di lavoro) e non costituisce, invece, «terreno di iniziativa» del lavoratore[77].. Tuttavia, l'assenza di investitura formale è irrilevante ai fini de quibus[78].
La prova del consenso del datore di lavoro costituisce oggetto di accertamento necessario soltanto qualora il datore di lavoro contesti (fatto impeditivo) la pretesa del dipendente provando che le mansioni superiori sono state svolte contro la sua espressa volontà[79].
In tema di rapporto di lavoro degli addetti ai pubblici servizi di trasporto, deve rammentarsi che la sussistenza dell'ordine scritto del direttore dell'azienda costituisce elemento costitutivo della domanda di promozione al grado superiore per lo svolgimento delle relative mansioni. La esistenza di tale requisito deve dunque essere provata dal lavoratore che rivendichi la promozione e, pertanto, nel caso in cui l'ordine sia stato impartito dal vice-direttore, incombe sul prestatore l'onere di allegare e provare che questi abbia agito su delega o disposizione del direttore, posto che la delega, costituisce, in tal caso, un elemento integratore della fattispecie[80].
· Non risultano concordi le opinioni, giurisprudenziali e dottrinali, sulla necessità o meno del consenso, anche implicito, del lavoratore, per la promozione automatica.
Per la rinunciabilità, da parte del dipendente, al diritto all'assegnazione a mansioni superiori, si argomenta che il potere di assegnazione provvisoria a mansioni superiori è da ritenersi implicitamente ricompreso nello ius variandi unilaterale che l'art. 2103 c.c. riconosce al datore di lavoro, in quanto soddisfa l'esigenza di tutela della professionalità della mano d'opera che la norma persegue; il consenso del dipendente è invece necessario per l'operatività della c.d. promozione automatica che dalla suddetta assegnazione possa eventualmente derivare[81]. In senso contrario, ha chiarito che l'art. 13, l. n. 300 del 1970 non contiene un assoluto divieto, per il datore di lavoro, di assegnare il lavoratore a mansioni superiori senza il suo consenso: è pertanto consentito alla contrattazione collettiva disciplinare le modalità secondo le quali, nei limiti derivanti dall'esigenza di tutela della professionalità del lavoratore, può e deve esercitarsi l'anzidetto ius variandi in melius[82].
· E' importante anche chiarire che nel lavoro privato l'argomento speso sovente dalla parte datrice, circa l'insussistenza della qualifica pretesa nell'organico aziendale è giuridicamente inconcludente. Infatti, nell'ambito del lavoro privato domina un principio di effettività, per il quale risulta tendenzialmente predominante il dato materiale riscontrabile. In questo senso, il meccanismo di promozione automatica di cui all'art. 2103 c.c., persegue essenzialmente lo scopo di adeguare il modello organizzativo a mutate esigenze operative. Di contro, nel contesto pubblico, è l'organizzazione, che è regola giuridica astratta, a determinare la gestione. Dunque è la realtà ad essere dominata dall'atto amministrativo, cioè dalla forma. In questa prospettiva la rigidità della dotazione organica, come norma di diritto obiettivo e, più in generale, la signoria dello stato di diritto sullo stato di fatto, corollari del principio di legalità dell'azione amministrativa, costituiscono la ratio portante della diversa disciplina  menzionata.
La prospettiva che si va illustrando risulta spesso posta dalla Cassazione a base di varie decisioni. La Corte, infatti, proprio constatando l'adibizione continuativa di un dipendente ad una certa mansione risale alla conclusione della relativa carenza di organico, con la conseguente necessità di suo adeguamento (cfr. per esempio, Cass. n. 13940/2000).
Dunque, la mancata previsione aprioristica della qualifica ambita nell'organico formale non ha alcuna rilevanza, potendosi, semmai, dimostrare, ex post, proprio il dato deficitario dell'organizzazione del soggetto datore di lavoro, oggetto di necessario adattamento.
· Anche nella materia delle promozioni automatiche la giurisprudenza conferma la tesi interpretativa ormai ampiamente diffusa nel settore lavoristico inerente l'insussistenza di un principio di parità di trattamento tra i dipendenti. In particolare si è ritenuto che nel nostro ordinamento non è possibile individuare un principio che imponga la parità di trattamento tra lavoratori che svolgano identiche mansioni; infatti, l'art. 36 Cost. si limita a garantire la sufficienza e la proporzionalità della retribuzione alla qualità e alla quantità del lavoro prestato, mentre il canone della ragionevolezza, che rappresenta un utile criterio di valutazione del rispetto da parte del legislatore del principio di uguaglianza posto dall'art. 3 Cost., non può essere applicato con la stessa efficacia nella valutazione dei regolamenti privati di interessi, che siano frutto dell'autonomia contrattuale; ne consegue che, a fronte di una contrattazione collettiva che introduca posizioni e trattamenti diversificati, è precluso al giudice l'esame della razionalità del regolamento contrattuale, a meno che risultino violate specifiche norme di diritto
positivo[83]. Ai fini che interessano, non può dunque assumere alcuna utile efficacia euristica la comparazione soggettiva delle diverse posizioni lavorative in seno all'organizzazione aziendale.
Sulla stessa falsariga si esclude possa essere in sé considerato atto discriminatorio vietato l'attribuzione da parte dell'imprenditore di una qualifica superiore ad un dipendente e non ad altro impiegato in identiche mansioni. A quest'ultimo pertanto, salva l'applicazione dell'art. 15
dello statuto dei lavoratori, potrà essere riconosciuta la qualifica superiore solo ove si riscontrino singulatim verificate le condizioni a tale fine richieste dalla normativa collettiva e dall'art. 2103 c.c.[84]. Nella medesima prospettiva va letto l'orientamento giurisprudenziale per così dire simmetrico, secondo cui è legittima l'attribuzione al lavoratore, quale trattamento di favore, di una qualifica superiore a quella corrispondente alle mansioni svolte, essendo in tal caso irrilevante chiedere di provare, ad inficiare la validità del conferimento, la non corrispondenza in concreto della qualifica formale alle mansioni effettive[85].
· Va rammentato, anche per quanto qui interessa, che la disciplina prevista dall'art. 2103 c.c. ha carattere inderogabile, comportando la nullità di ogni disposizione contrattuale contraria[86]. Ancora, si è opinato che in sede di applicazione dell'art. 2103 sono irrilevanti i titoli d'investitura o di studio posseduti dal lavoratore che rivendica la qualifica superiore, giacché, eccettuato il caso in cui esclusivamente a titoli del genere sia ancorata la attribuzione della qualifica e salvo ogni giudizio sulla validità di limitazioni simili poste dalla disciplina collettiva, quel che occorre valutare è se il lavoratore abbia esercitato mansioni superiori a quelle corrispondenti alla qualifica assegnatagli, in quanto è tale esercizio, come fatto, che da solo si sostituisce ai requisiti formali[87].
E' utile ancora ricordare che diritto del lavoratore al riconoscimento di una qualifica superiore - e cioè ad una diversa collocazione nell'impresa attraverso l'attuazione degli strumenti classificatori all'uopo predisposti - soggiace alla prescrizione ordinaria decennale di cui all'art. 2946 c.c. Viceversa va osservato che qualora il lavoratore deduca l'espletamento di mansioni superiori, rispetto a quelle corrispondenti alla qualifica riconosciutagli, non per conseguire un diverso inquadramento, ma, in via strumentale, per ottenere un adeguamento del trattamento retributivo, anche ai fini della maggiorazione della indennità di fine rapporto, il diritto vantato è soggetto non alla prescrizione decennale - propria appunto del diritto alla qualifica - ma a quella quinquennale ex art. 2948 c.c.[88]. Detto termine breve decorre anche quando il diritto a tali differenze venga fatto valere contemporaneamente al diritto all'attribuzione alla qualifica superiore, soggetto alla prescrizione ordinaria[89].
· E' utile precisare, in materia di giudicato formatosi su domanda di riconoscimento di qualifica superiore ai sensi dell'art. 2103 c.c., che il medesimo ricomprende ogni possibile profilo inerente il fatto costitutivo dedotto, estendendosi ad ogni possibile ragione di fatto che l'attore avrebbe potuto dedurre a sostegno della pretesa[90].
3.2 Oneri della prova
E' pacifica l'affermazione per cui grava sul dipendente che rivendichi la superiore qualifica l'onere di dimostrare il contenuto delle mansioni effettivamente svolte e la loro corrispondenza a quelle delineate dal contratto collettivo di categoria per il livello preteso. "Incombe sul lavoratore, che rivendica nei confronti del datore di lavoro una superiore qualifica professionale in relazione alle mansioni svolte, dimostrare:
- la natura e il periodo di tempo durante il quale le mansioni sono state svolte;
- il contenuto delle disposizioni individuali, collettive o legali in forza delle quali la qualifica superiore viene rivendicata;
- la coincidenza delle mansioni svolte con quelle descritte dalla norma individuale, collettiva o legale di riferimento"[91].
Di recente la Suprema corte ha peraltro ribadito che, al fine dell'adempimento agli oneri imposti dall'art. 414 nn. 3 e 4 il lavoratore interessato deve specificare, con sufficiente analiticità, le mansioni effettivamente svolte e la normativa collettiva applicabile[92].
E' d'uopo ancora ricordare che la giurisprudenza costante di legittimità afferma che, nella domanda del dipendente rivolta ad ottenere l'inquadramento in una più elevata qualifica, deve ritenersi implicitamente inclusa la rivendicazione di una qualifica inferiore, ma pur sempre superiore a quella di fatti riconosciuta[93] .
Circa poi l'iter logico che il giudicante deve seguire per pervenire ad un corretto accertamento del diritto del lavoratore ad un inquadramento professionale superiore, in conseguenza delle mansioni concretamente svolte, il medesimo, dopo avere considerato dette mansioni, le loro modalità di espletamento e la configurazione dell'unità produttiva, deve richiamare le declaratorie contrattuali ed operare il necessario raffronto[94]. Detta valutazione del giudice del merito costituisce un giudizio di fatto, censurabile in sede di legittimità solo per violazione dei criteri di ermeneutica nell'interpretazione della disciplina collettiva in tema di qualifiche o per vizi di motivazione[95]. Poiché l'appartenenza delle mansioni superiori ad altro lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto (così come il dissenso alla prestazione) è generalmente configurata come l'eccezione alla regola di cui all'art. 2103 c.c., si tratterebbe di un fatto impeditivo del diritto azionato. Il relativo onere allegatorio e probatorio spetta dunque al datore di lavoro[96]. Ma si registra, anche l'opinione (minoritaria) contraria, di chi configura la circostanza de qua come fatto costitutivo del diritto[97].
3.3 3.3 Il pubblico impiego.
- SITUAZIONE ANTE PRIVATIZZAZIONE
In questo specifico ambito, la giurisprudenza amministrativa si è sempre dimostrata granitica nel ritenere che, salvo che una legge non disponga diversamente, le mansioni svolte da un dipendente, che siano superiori rispetto a quelle dovute sulla base del provvedimento di nomina o di inquadramento, sono del tutto irrilevanti, sia ai fini economici che a quelli della progressione in carriera, ovvero della emanazione di un provvedimento di preposizione ad un ufficio. Si afferma, infatti, che è inapplicabile in materia di pubblico impiego il principio privatistico di effettività sancito dall'art. 2103 c.c., a ciò ostando le norme che disciplinano l'assunzione a mezzo di concorso, la progressione in carriera, i requisiti e gli organici[98], in sintonia con i valori di imparzialità e di buon andamento enunciati dall'art. 97 Cost.[99].
Per esigenze di completezza va precisato che la questione è rimasta parzialmente incisa, pur se non in maniera risolutiva, da alcune pronunce della Corte Costituzionale, nelle quali si è affermata l'applicazione diretta anche al personale della P.A. delle norme degli artt. 36 Cost. e 2126 c.c.[100].Sulla base di tali interventi si sono avute alcune decisioni del Consiglio di Stato in adunanza plenaria, che hanno riconosciuto al dipendente pubblico il diritto al trattamento economico corrispondente all'attività svolta[101].
Una parte della giurisprudenza amministrativa si è uniformata all'orientamento inaugurato dall'Adunanza plenaria nelle decisioni sopra citate[102].
La giurisprudenza amministrativa prevalente, invece, a fronte di sentenze interpretative di rigetto della Corte Costituzionale, come tali non vincolanti, ha confermato l'indirizzo più restrittivo, escludendo così che l'orientamento più favorevole ai lavoratori, ora menzionato, avesse un effettivo seguito. In particolare si è ritenuta, in casi di tal fatta,  l'inapplicabilità l'art. 2126, c.c., norma che riguarderebbe solo lo svolgimento del lavoro da parte di chi non è dipendente pubblico o di chi è stato assunto in base ad un titolo nullo o annullato e che, comunque, non legittima la deroga o la disapplicazione degli atti di nomina o d'inquadramento di tali dipendenti[103]. Secondo altra opzione interpretativa, pur largamente condivisa, il diritto al superiore trattamento economico insorgerebbe solo in presenza di prova documentale dell'affidamento di mansioni superiori, quando l'espletamento di queste risulti prevalente e quando il posto coperto risulti vacante[104].
Le decisioni dell'adunanza plenaria del Consiglio di Stato nn. 22 del 1999, 10 del 2000 e poi, da ultimo, 3 del 2006 hanno riaffermato, con ampie motivazioni, l'originaria tesi della irrilevanza assoluta, giuridica ed economica, dello svolgimento di fatto di mansioni superiori nell'ambito del pubblico impiego, anche sulla base dell'efficacia non retroattiva dell'art. 15 d.lgs. n. 387/1998.
- L'ART. 52 del D.LGS. n. 165/2001
Nel contesto normativo e giurisprudenziale sin qui illustrato si inserisce la nuova disciplina delle mansioni del dipendente pubblico introdotta dall'art. 56 del d.lgs. n. 29 del 3 febbraio 1993, modificato dall'art. 25 del d.lgs. n. 80 del 1998 e dall'art. 15 del d.lgs. n. 387 del 1998, ora art. 52 del d.lgs. n. 165/2001[105].
La disposizione richiamata, nel suo primo comma, espressamente sancisce che "l'esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell'inquadramento del lavoratore".
Al quarto comma poi la norma riconosce, in caso di adibizione a mansioni di qualifica superiore, il diritto al relativo "trattamento".
Dunque, anche a seguito della nota riforma di privatizzazione del pubblico impiego, si è voluto attribuire portata decisiva non al dato fattuale delle mansioni, ma a quello formale risultante della qualifica[106].
Specifica menzione va quindi effettuata al sesto comma del medesimo art. 56, il quale attribuisce ai contratti collettivi la facoltà di "regolare diversamente gli effetti di cui ai commi 2°, 3° e 4°". Taluni autori hanno esaltato tale norma come novità "eclatante". Si è infatti sostenuto che il legislatore, con tale disposizione, consentendo alle parti sociali di derogare alle disposizioni di legge, lascerebbe aperta la possibilità di prevedere, in sede di contrattazione collettiva, meccanismi di avanzamento automatico di carriera, sulla base dell'attività lavorativa effettivamente espletata[107]. La conclusione interpretativa esposta non appare tuttavia così incontrovertibile. Va soprattutto evidenziato, rimanendo ancorati ad un'interpretazione fedele al senso delle parole, che il citato comma sesto riconosce alle parti sociali autonomia di regolamentazione solo nella materia di cui ai commi 2°, 3 ° e 4°.
Ebbene, poiché l'affermazione sopra riportata, di irrilevanza, ai fini della promozione automatica, dell'esercizio di fatto di date mansioni, è viceversa contenuta nel primo comma della disposizione, non sembra che la medesima possa essere validamente derogata da eventuali difformi previsioni contrattuali.
I commi 2, 3 e 4 dell'art. 52 tipizzano le ipotesi nelle quali il dipendente può essere legittimamente assegnato allo svolgimento di mansioni superiori. E' questo l'unico punto di relativa flessibilità di un sistema classificatorio basato sul ruolo organico, formale e rigida individuazione delle prevedibili necessità di forza lavoro.
In tutti i casi è necessaria la sussistenza di "obiettive esigenze di servizio", cioè di ragioni verificabili e sindacabili inerenti l'organizzazione del lavoro, tali da rendere necessitato il mutamento in melius delle mansioni del lavoratore; le stesse andranno evidentemente esternate nell'atto di adibizione.
La norma consente detta assegnazione solo con riguardo alla "qualifica immediatamente superiore" a quella rivestita dall'interessato.
Si rende dunque necessario chiarire il concetto di "qualifica" utilizzato dal legislatore in relazione al nuovo sistema di classificazione del personale, cui si è già fatto cenno. Sorge, infatti, l'interrogativo se la norma si applichi solo nel caso di mansioni proprie di altra area/categoria (usando la terminologia usata nei ccnl) o anche nelle ipotesi di spostamento interno all'area, per esempio in mansioni corrispondenti ad un livello economico superiore.
Pare doversi accedere a tale seconda opzione interpretativa, atteso che, nel nuovo sistema classificatorio, sovente nella stessa area/categoria sono raggruppati più profili tra loro eterogenei sia per il contenuto professionale che per l'aspetto retributivo, profili interconnessi solo per procedure selettive interne ascendenti. L'autonomia delle singole posizioni interne all'area impone, dunque, di ritenere qualifica superiore, ai sensi della norma in esame, anche il superiore profilo nell'ambito dello stessa area di appartenenza[108] , salvo norme espresse in senso diverso[109].
La norma tipizza due ipotesi che legittimano il mutamento di mansioni: a) la vacanza del posto in organico[110] e b) la sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto (esclusa l'assenza per ferie).
Intanto, è il caso di sottolineare che, in ambedue le evenienze, il conferimento delle mansioni superiori deve avvenire "di diritto", cioè sulla base di un atto formale di assegnazione proveniente dal dirigente dell'unità organizzativa interessata[111]. Il Consiglio di Stato ha spiegato che tale requisito mira ad impedire che il singolo dipendente, di propria iniziativa o col consenso compiacente di altri organi incompetenti, possa assumere incarichi di livello superiore, aggirando le procedure selettive[112]. In questo senso, si è ritenuto che il difetto di tale atto formale non sia sanabile attraverso un atto ricognitivo dell'organo competente che attesti, ex post, l'effettivo svolgimento delle mansioni .
Andando a valutare le singole ipotesi, nella prima evenienza l'horror vacui giustifica lo spostamento in questione, tuttavia la lettera a) del comma 2, dell'art. 52 delimita lo spazio temporale in cui è possibile tale copertura straordinaria in sei mesi, prorogabili fino a dodici in caso di attivazione delle ordinarie procedure di copertura. Infatti il successivo quarto comma impone all'Amministrazione di procedere entro novanta giorni dall'assegnazione provvisoria all'avvio delle procedure necessarie per la provvista di personale. Il superamento del termine
semestrale, senza avvio dei concorsi, comporta l'improrogabilità dell'assegnazione a mansioni superiori. Lo sforamento del termine di novanta giorni non sembra invece accompagnato da alcun precipuo effetto per l'amministrazione.
Quanto alla seconda ipotesi, con espressione mutuata dall'art. 2103 cit., la necessità di sostituzione di un collega assente con diritto alla conservazione del posto giustifica l'ius variandi ; è esclusa l'ipotesi delle ferie, durante le quali dunque non si può legittimamente provvedere alla sostituzione con lavoratore di grado inferiore .
Va peraltro precisato che, a mente  del comma 3° dell'art. 52, costituisce esercizio di mansioni superiori solo l'attribuzione in "modo prevalente, sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti" propri di dette mansioni . Dunque, anche in difetto della prevalenza per uno solo dei predetti aspetti, non vi sarà titolo per le differenze retributive[113].
Quanto agli effetti della fattispecie tipizzata e sin qui illustrata, il comma 4° dell'art. 52 riconosce al lavoratore interessato il diritto al trattamento previsto per la qualifica superiore per il periodo di effettiva prestazione . Nel concetto di "trattamento" deve farsi rientrare non solo una certa posizione retributiva, ma anche tutta la congerie di situazioni giuridiche correlate ad una certa posizione di servizio (es. valutabilità come titolo; indennità accessorie[114] ).
Ove poi ci si interrogasse sull'ipotesi d'inosservanza dei requisiti previsti dalla disposizione (per esempio insussistenza di obiettive esigenze di servizio; copertura del posto vacante per più di un anno), il 5° comma dell'art. 52 sancisce la nullità dell'assegnazione a mansioni di qualifica superiore, ma al lavoratore si riconosce la differenza di trattamento economico rispetto alla qualifica superiore.
Dunque è da escludere che lo scorretto esercizio del ius variandi crei l'effetto di stabilizzazione di cui all'art. 2103 c.c., proprio per quel principio generale, insuperabile, di cui al comma 1°, dell'insensibilità dell'inquadramento formale rispetto alla realtà fattuale. L'assegnazione fuori dei limiti consentiti è nulla, cioè è improduttiva di effetti, giuridici e contrattuali (per esempio non è valutabile come titolo); genera invece il solo diritto del lavoratore alla "differenza di trattamento economico" (da ritenersi di ampiezza inferiore rispetto all'ipotesi di svolgimento di diritto delle mansioni). Trattandosi di obbligazione ad oggetto contra legem il prestatore potrebbe comunque legittimamente rifiutarsi di adempiere. Peraltro, con disposizione che riecheggia altre norme del nuovo sistema del lavoro pubblico, se la forma non può seguire il fatto, rimane comunque la responsabilità del dirigente che ha disposto l'assegnazione invalida per dolo o colpa grave (cfr. art. 3 D.L. 23.10.1996 n. 543). Trattasi, in effetti, di azione di rivalsa della P.A. nei confronti del dipendente responsabile per il danno erariale dal medesimo cagionato. È da ritenersi che in tale evenienza debba fornirsi la prova di un danno effettivo subito dalla P.A., allorché, ad esempio, le medesime esigenze obiettive di servizio avrebbero ben potuto essere soddisfatte con altri strumenti economicamente più convenienti (es. mobilità orizzontale; correzione dell'orario di lavoro; passaggi da amministrazioni diverse del comparto). Non appare convincente, viceversa, la tesi di una responsabilità formale, cioè con danno presunto, proprio perché con la corresponsione della retribuzione al dipendente interessato e con lo svolgimento da parte sua, anche solo di fatto di una prestazione, è in effetti implicita l'idea di una utilitas comunque ricevuta dall'Amministrazione. L'ultimo comma dell'art. 52, ai fini dell'entrata in vigore della nuova disciplina, adotta il criterio certo della decorrenza stabilita dai contratti collettivi, potendo lo stesso art. 52 trovare applicazione solo in sede di attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali. Fino a tale data il legislatore ribadisce che "in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza può comportare il diritto ad avanzamenti automatici". Si trova poi definita l'attribuzione ai contratti collettivi del potere di regolare diversamente "gli effetti di cui ai commi 2°, 3° e 4°".
Risulta chiara ed apprezzabile la scelta legislativa di imperniare comunque tutto il sistema mansionistico sulle scelte delle parti sociali. Nella significativa scelta di delegificare anche questa materia si ha, del resto, un'ulteriore conferma della fiducia riposta dal legislatore, sulla falsariga dell'esperienza privata, nella capacità delle organizzazioni rappresentative di meglio comporre i conflitti e realizzare gli interessi contrapposti.
Peraltro i primi contratti di comparto hanno per lo più confermato la disciplina dell'art. 52 (v. art. 3 Regioni), rinviando, semmai, per un'eventuale integrazione ad una futura contrattazione.
Se i nuovi criteri contrattuali d'inquadramento del personale costituiscono la spina dorsale del sistema legale di regolamentazione delle mansioni, va da sé che quest'ultimo non possa essere operativo senza la compiuta definizione della disciplina pattizia. E' così spiegato l'ultimo comma dell'art. 52 che prevede appunto il differimento del vigore della norma.
Il temporaneo congelamento degli effetti dell'art. 52 è tuttavia limitato al solo profilo qualificatorio: il comma 6 della norma, che estendeva l'inapplicabilità della stessa anche ai profili retributivi, è stato modificato dal decreto n. 80, così da rendere immediatamente vigente il precetto attributivo di diritti patrimoniali .
Nonostante lo spazio lasciato alle organizzazioni rappresentative, va, comunque, evidenziato quanto, nell'economia dell'art. 52, pesi ancora il retaggio di un'amministrazione burocratica e formalista. Infatti il legislatore ha rimesso alle parti sociali la regolamentazione del fenomeno mansionistico, riservandosi, tuttavia, una zona franca di spiccato rilievo.
In particolare merita di essere osservato che l'ultimo comma dell'art. 52 concede autonomia alle parti sociali solo nella regolamentazione degli "effetti di cui ai commi 2°, 3° e 4°", ciò vuol dire che le fattispecie tipizzate dovrebbero rimanere ferme così come le ha imposte il legislatore[115]. In questo senso lo spazio per la deroga ai predetti commi risulta in effetti circoscritto al solo svolgimento di mansioni superiori "di diritto" (cioè nelle fattispecie tipizzate) non anche di mero fatto (il primo comma dell'art. 52 rimane infatti inderogabile) .
Seguendo tale ragionamento si ricava che, per esempio circa la promozione automatica per svolgimento di mansioni superiori prevista dagli organismi rappresentativi, comunque
rimarrebbe fermo l'importante ed ingombrante presupposto della "vacanza di posto in
organico". Infine è giusto il caso di ricordare che, secondo quanto disposto dall'art. 19, 1°
comma, del decreto legislativo n. 29 citato, per i dirigenti pubblici è espressamente e
radicalmente esclusa l'applicabilità dell'art. 2103 c.c.
3.4 Oneri della prova
Il diritto al (solo) trattamento economico della qualifica immediatamente superiore sorge se il
ricorrente ALLEGA E PROVA i seguenti fatti costitutivi del diritto:
· sussistono obiettive esigenze di servizio +
· vacanza posto in organico (per non più di 6/12 mesi) oppure
· sostituzione di dipendente assente con conservazione del posto (escluso ferie) +
· le mansioni superiori devono essere prevalenti
Se non ricorrono tali condizioni, l'assegnazione è nulla, ma rimane il diritto alla differenza di
trattamento economico.
I ccnl non possono derogare al divieto di promozione automatica[116].
4. Trasferimenti
4.1 Elementi della fattispecie
Il primo comma, ultimo periodo, dell'art. 2103 c.c. (come sostituito dall'art. 13 della legge 20
maggio 1970, n. 300) dispone che il lavoratore "non può essere trasferito da una unità
produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive". Dette
ragioni costituiscono i presupposti sostanziali tipizzati dal legislatore per il legittimo esercizio
del potere di trasferimento. Sul punto si ritiene che, anche alla luce dell'art.41, 1° co., Cost., il
controllo giudiziale sulla correttezza sostanziale del provvedimento datoriale, non possa
estendersi all'opportunità e/o all'adeguatezza della scelta datoriale, ma si riduce ad un sindacato
sulla esistenza delle condizioni richieste dalla legge e del nesso di causalità tra queste ed il
trasferimento. Pertanto resta insindacabile, ad esempio, la scelta tra più soluzioni organizzative,
tutte ugualmente ragionevoli.
La giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, aveva tradizionalmente interpretato tale
norma in senso strettamente letterale, ritenendo che lo garanzie ivi previste competessero al
lavoratore spostato dall'una ad altra unità produttiva, senza riguardo alla zona nella quale fosse
ubicata l'unità
di destinazione[117].
Di recente, si è invece statuito che la tutela predisposta dall'articolo 2103 del C.c. ha una portata
non limitata al trasferimento da un'unità produttiva a un'altra; essa, infatti, va al di là della
considerazione dei soli interessi familiari e sociali legati a un determinato territorio e ha come
scopo principale quello di tutelare la dignità del lavoratore e di proteggere il complesso di
relazioni interpersonali e affettive che lo legano a un determinato complesso produttivo. Detta
tutela, pertanto, troverebbe applicazione non solo nel passaggio da un'unità produttiva a un'altra
(anche nell'ambito dello stesso comune), ma anche quando sia disposto uno spostamento
territoriale delle prestazioni lavorative del dipendente da una ad altra zona, a prescindere
dall'unità produttiva dell'impresa alla quale dette prestazioni risultino imputate, quando
comporti disagi personali e familiari dovuti al cambio del luogo di lavoro ed eventualmente di
residenza[118].
Poiché la legge pone solo un onere di giustificazione sostanziale, sono assoggettate al principio
generale della liberta' di forma sia la comunicazione del trasferimento del lavoratore - cui non e'
applicabile la disposizione di cui al primo comma dell'art. 2 della legge 15 luglio 1966 n. 604 -
sia la richiesta dei motivi e la relativa risposta, che non postulano per legge alcun requisito
formale[119]. Insorge l'obbligo formale di motivazione, in applicazione analogica dell'art. 2, l.
n. 604 del 1966, solo ove il lavoratore ne faccia tempestiva richiesta nel termine di otto giorni
dalla comunicazione del trasferimento; tale richiesta e la sua evasione da parte del datore di
lavoro non postulano peraltro alcun requisito formale, sicché la tardività della comunicazione
scritta dei motivi del provvedimento (dopo oltre cinque giorni dalla suddetta richiesta) non
incide sull'efficacia del trasferimento ove i motivi stessi risultino tempestivamente comunicati
al dipendente in forma orale nel corso di un colloquio[120].
Quanto, poi, al pubblico impiego, l'art. 2 d.lgs. 165/01 stabilisce che "i rapporti di lavoro dei
dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo
II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa,
fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto".
Tra le disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile è contenuto l'art. 2103 c.c
citato che, per la mancata previsione di norme nel D.Lgs. 165/01 ovvero nella contrattazione
collettiva incompatibili con la disciplina del trasferimento delineato nel codice civile, appare
applicabile anche nel caso di specie[121].
Circa il pubblico impiego, può giusto ritornare utile sapere che il trasferimento del dipendente
dovuto ad incompatibilità ambientale, trovando la sua causa nello stato di disorganizzazione e
disfunzione dell'unità produttiva, va ricondotto alle esigenze tecniche, organizzative e
produttive (previste dall'art. 2103 c.c.), piuttosto che, sia pure atipicamente, a ragioni punitive e
disciplinari[122]; con la conseguenza che la legittimità del provvedimento datoriale di
trasferimento, appunto, prescinde dalla colpa (in senso lato) del lavoratore trasferito, come
dall'osservanza di qualsiasi altra garanzia sostanziale o procedimentale, che sia stabilita per le
sanzioni disciplinari.
4.2 Oneri della prova
L'art. 2103 c.c. subordinando la legittimità del trasferimento del lavoratore alla sussistenza di
comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, postula non solo l'effettiva esistenza di
queste ultime, ma anche la loro controllabilità da parte del lavoratore destinatario del
provvedimento (sia pur non richiedendosi la loro contestuale comunicazione) e l'onere per il
datore di lavoro di offrire la prova in caso di controversia[123].
Invero, quando il "legittimo esercizio del potere del datore di lavoro è condizionato.. ad una
giustificazione, l'onere della prova di quest'ultima, a prescindere da eventuali disposizioni
espresse confermative, grava sempre sul datore di lavoro. Si tratta, infatti, di una fattispecie
complessa in cui l'obbligo di non fare riguarda l'atto, la cui esistenza deve quindi essere provata
dal lavoratore creditore, ma con una eccezione legittimante (la giustificazione)"[124].
Secondo i principi già sopra delineati, naturalmente il lavoratore ha il previo onere di contestare
la legittimità del trasferimento, deducendo specifici motivi di illegittimità dello stesso ed
offrendosi di provarli.
In tal caso, il datore di lavoro non potrebbe limitarsi a negare la sussistenza dei motivi allegati
da controparte, ma deve comunque provare le reali ragioni tecniche, organizzative e produttive
che hanno determinato il provvedimento[125].
Diversamente, costante principio giurisprudenziale, affermato in tema di licenziamento, ed
egualmente valido in materia di trasferimento, secondo cui l'onere della prova del carattere
ritorsivo nel provvedimento adottato dal datore di lavoro grava sul lavoratore e può essere
assolto con la dimostrazione di elementi specifici tali da far ritenere con sufficiente certezza
l'intento di rappresaglia il quale intento - é opportuno ricordarlo, derivandone una particolare
gravità degli oneri probatori per il lavoratore che ne e' gravato - deve avere avuto efficacia
determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai
fini della configurazione di un provvedimento legittimo[126]. Tutto ciò si riflette, sul piano
processuale, nella necessità per il lavoratore che in ricorso indichi elementi idonei a individuare
la sussistenza di un rapporto di causalità fra le circostanze pretermesse e l'asserito intento di
rappresaglia[127].
5. Il mobbing
5.1 Assenza di riconoscimento giuridico
Ad oggi, non esiste una definizione normativa del mobbing, ciò vuol dire che con questo nome
non può essere individuata alcuna categoria giuridica, che sia, in quanto tale, riconosciuta da
norme di diritto positivo[128].
Il mobbing costituisce perciò solo un fenomeno enucleato dalla psicologia e dalla sociologia,
ma senza una propria autonoma dignità giuridica.
Con questo importante limite, per finalità meramente descrittive, il fenomeno ben può essere
descritto utilizzando le parole usate dalla Corte di cassazione, in una delle più significative
sentenze in tema[129]: "una fattispecie di danno derivante da una condotta del datore di
lavoro protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione, finalizzata
all'emarginazione del lavoratore". In termini sostanzialmente analoghi si è espressa la Corte
Costituzionale[130]. Dunque, i tratti caratterizzanti la figura sono:
· la reiterazione e la sistematicità di condotte ostili, ancorché non necessariamente
illegittime o illecite[131];
· l'intenzionalità della strategia persecutoria[132].
5.2 Inutilità della nozione: sussunzione negli art. 2087 e/o 1375 c.c.
In realtà, quel che interessa evidenziare è che il mobbing, non solo non è categoria riconosciuta
come tale dal diritto positivo, ma non risulta nemmeno un concetto scientificamente necessario
o
anche solo utile[133].
Infatti, sia che si consideri la fattispecie per l'aspetto della condotta sanzionata, sia che la si
esamini per il profilo dei danni risarcibili, se ne conferma l'inutilità rispetto alle figure ed agli
strumenti già - la condotta. Secondo alcuni commentatori la nozione di mobbing varrebbe a
colpire quegli atti datoriali che considerati partitamene ed isolatamente sembrerebbero leciti, e
che, solo collocati in una sequenza ripetitiva protratta e connotati dall'intento persecutorio, cioè
riqualificati come atti mobbizzanti, potrebbero essere sanzionati.
L'assunto non convince.
Infatti, intanto, molte condotte datoriali sono già colpite da singole disposizioni specifiche (es.
sulle mansioni, trasferimenti, sanzioni, discriminazioni, v. infra).
Inoltre, come chiaramente affermato dalla Cassazione la "condotta sistematica e protratta nel
tempo, .. concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell'integrità fisica e la
personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall'articolo 2087 c.c.; tale illecito, che
rappresenta una violazione dell'obbligo di sicurezza posto da questa norma generale a carico
del datore di lavoro, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore
di lavoro indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla
disciplina del rapporto di lavoro subordinato"[134].
L'art. 2087 c.c., ha dunque una portata precettiva tale da ricomprendere, come norma primaria
costituiva di obblighi, qualsiasi atto o comportamento comunque lesivo della persona del
lavoratore, in ragione delle sua caratteristiche vessatorie. E' invero una norma di chiusura, atta
ad imporre la "massima sicurezza fattibile"[135]: "l'art. 2087 ha il pregio di qualificare la
condotta non in base al suo contenuto, ma in considerazione del bene protetto.. evitando così
ogni rischio d'incompletezza"[136].
Importa, peraltro, rimarcare che l'art. 2087 sancisce la tutela dell'integrità fisica (in cui rientra
certamente l'integrità psichica, essendo la psicopatia una patologia fisica) e, insieme, della
"personalità morale", dovendosi ricomprendere in tale espressione (v. infra) l'insieme delle
condizioni esistenziali di vita del lavoratore[137].
Si aggiunga che la giurisprudenza di merito attraverso l'elaborazione della figura del mobbing,
caratterizzata dal richiesto requisito dell'intenzionalità della condotta, cioè del dolo, arriva in
sede applicativa a ridimensionare se non azzerare le istanze di protezione del dipendente. E'
noto, infatti, che l'onere probatorio consistente nella dimostrazione di un'intenzionalità, cioè
dell'animus nocendi, risulta alla fine una probatio diabolica.
Si aggiunga ancora che le norme degli artt. 1175 e 1375 c.c., integrative del contenuto del
contratto di lavoro subordinato, ex art. 1374 c.c., impongono, in maniera atipica, cioè con
potenzialità espansiva massima, che i contraenti tengano comportamenti corretti e di buona
fede. Ed è evidente come da tali norme siano già ampiamente sanzionati comportamenti o atti
mobbizzanti[138]. Non può, in materia, essere trascurato che in effetti la questione degli atti
leciti mobbizzanti rientra nella più ampia tematica dell'abuso dei poteri privati.
Ora, non è qui la sede per riproporre una problematica così sterminata; giova solo richiamare
all'attenzione l'esito interpretativo di un'ampia elaborazione, ormai assestata, riportando
l'illuminante pensiero di Cassazione.
La Corte "ritiene di condividere l'indirizzo secondo cui l'intenzionalità del comportamento del
datore di lavoro, mentre é irrilevante nel caso di condotta contrastante con norma imperativa,
può assumere rilievo quando la condotta del medesimo, pur se lecita nella sua obiettività,
presenti i caratteri dell'abuso del diritto (sent. 5922-87). In questo caso, infatti, l'esercizio del
diritto da parte del titolare si esplicita attraverso l'uso abnorme delle relative facoltà ed é
indirizzato a fine diverso da quello dalla norma tutelato e, in coerenza alla norma dettata in
tema di proprietà (art. 833 c.c.), assume, nel campo delle obbligazioni e del rapporto di lavoro
in particolare, carattere di illiceità per contrasto con i principi di correttezza e buona fede, i
quali assurgono a norma integrativa del contratto di lavoro in relazione all'obbligo di
solidarietà imposto alle parti contraenti dalla comunione di scopo che entrambe, sia pure in
diversa e talora opposta posizione, perseguono"[139].
Dunque, i fatti o atti concretizzanti le fattispecie di mobbing sono già colpiti, pur nella loro
astratta liceità, da altre norme del sistema.
- Il danno. Parimenti va negata la necessità di utilizzare il mobbing per garantire il risarcimento
di voci di danno, altrimenti non risarcibili.
Infatti, come si approfondirà, i più recenti orientamenti giurisprudenziali garantiscono il
risarcimento di ogni forma di danno, anche non patrimoniale, ai sensi degli artt. 2087, 2059 c.c.
5.3 Conseguenze della riconduzione del mobbing alla disciplina dell'art. 2087 c.c.
Conclusivamente, il fenomeno in esame rimane quasi interamente assorbito e disciplinato dalla
norma dell'art. 2087 c.c.: trattasi di responsabilità di natura contrattuale[140], essendo fondata
sull'inadempimento di un'obbligazione giuridica preesistente[141].
Dalla prospettata natura contrattuale della responsabilità, la stessa giurisprudenza ricava, per
quel che qui interessa, significative implicazioni sul piano della distribuzione degli oneri
probatori relativi.[142].
Come è già stato anticipato, infatti, la presunzione legale di colpa - stabilita (dall'articolo 1218
c.c., cit.) a carico del datore di lavoro inadempiente all'obbligo di sicurezza (di cui all'articolo
2087, cit.) - deroga, parzialmente, il principio generale (articolo 2697 c.c.), che impone - a "chi
vuol fare valere un diritto in giudizio" - l'onere di provare "i fatti che ne costituiscono il
fondamento". Non ne risulta, tuttavia, una ipotesi di responsabilità oggettiva (ma per
colpa[143]), né la dispensa, da qualsiasi onere probatorio, del lavoratore danneggiato.
"Questi, infatti, resta gravato - in forza del ricordato principio generale (articolo 2697 c.c.,
cit.) - dell'onere di provare il "fatto" costituente inadempimento dell'obbligo di sicurezza
nonché il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento stesso ed il danno da lui subito,
mentre esula dall'onere probatorio a carico del lavoratore - in deroga, appunto, allo stesso
principio generale - la prova della colpa del datore di lavoro danneggiante, sebbene concorra
ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento (come ad ogni altro rimedio
contro il medesimo inadempimento). È lo stesso datore di lavoro, infatti, ad essere gravato (ai
sensi dell'articolo 1218 c.c.) - quale "debitore", in relazione all'obbligo di sicurezza, appunto -
dell'onere di provare la non imputabilità dell'inadempimento"[144].
Diverso risulta, tuttavia, (anche) il contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che le
misure di sicurezza - asseritamente omesse - siano espressamente e specificamente definite
dalla legge (o da altra fonte parimenti vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di
rischi specifici (quali le misure previste dal D.Lgs 626/94 e successive integrazioni e modifiche,
come dal precedente Dpr 547/55), oppure debbano essere ricavate dalla stessa disposizione
(articolo 2087 c.c., cit.) che impone l'obbligo di sicurezza.
Nel primo caso - di misure di sicurezza (o prevenzione), pero cosi dire, nominate - il lavoratore
ha l'onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della
misura stessa - cioè il rischio specifico, che s'intende prevenire o contenere - nonché,
ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l'inosservanza della misura ed il danno subito. La
prova liberatoria a carico del datore di lavoro, poi, parimenti si esaurisce nella negazione degli
stessi fatti provati dal lavoratore: negazione, cioè, dell'obbligo o, comunque,
dell'inadempimento - in relazione a quella stessa misura di sicurezza (o di prevenzione) -
nonché del nesso di causalità tra inadempimento e danno[145].
Nel secondo caso - di misure di sicurezza (o prevenzione), per cosi dire, innominate - fermo
restando l'onere probatorio a carico del lavoratore, la prova liberatoria, a carico del datore di
lavoro, risulta invece variamente definita in relazione alla quantificazione della diligenza
(ritenuta) esigibile - nella predisposizione di quelle misure di sicurezza - e perciò registra, anche
in giurisprudenza, significative oscillazioni.
Di recente, si stima tendenzialmente dovuta soltanto l'adozione di comportamenti specifici
suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche standard di sicurezza adottati normalmente o da
altre fonti analoghe. In particolare la Corte costituzionale (sent. n. 312/1996[146]), ha affermato
il criterio delle "misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad
applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali
altrettanto generalmente acquisiti", di modo che rimane censurabile solo "la deviazione dei
comportamenti dell'imprenditore dagli standard di sicurezza propri, in concreto ed al
momento, delle diverse attività produttive".
In ogni caso, sembra importante sottolineare che l'onere della prova liberatoria a carico
datoriale si radica, cioè insorge, solo ove l'attore abbia sufficientemente dedotto e provato
l'omissione nel predisporre le misure di sicurezza necessarie ad evitare il danno (misure violate
+ nesso causale tra la violazione ed il danno) e "non può essere estesa ad ogni ipotetica misura
di prevenzione, a pena di far scadere una responsabilità per colpa in responsabilità
oggettiva"[147]. Al datore di lavoro non può essere negato il diritto, per potersi difendere, di
conoscere l'inadempimento che gli viene imputato[148].
Dunque, è insufficiente un ricorso fondato su una allegazione generica di "violazione
dell'obbligo di sicurezza".
Il datore di lavoro, poi, é responsabile dei danni subiti dal proprio dipendente, non solo quando
ometta di adottare idonee misure protettive, ma anche quando ometta di controllare e vigilare
che di tali misure sia fatto effettivamente uso (anche) da parte dello stesso dipendente, con la
conseguenza che - secondo la giurisprudenza della Corte[149] - si può configurare un esonero
totale di responsabilità, per il datore di lavoro appunto, solo quando il comportamento del
dipendente presenti i caratteri dell'abnormità e dell'assoluta imprevedibilità[150].
Deve, ancora, ricordarsi che il datore di lavoro, nel mobbing discendente viola un obbligo di
non fare, cioè un divieto. Ma, anche se la condotta offensiva venga posta in essere a livello
orizzontale o ascendente da altri colleghi, il medesimo datore dovrebbe essere tenuto a
rispondere, comunque, per fatto proprio. Infatti, in quest'ultima evenienza sussiste la violazione
di un obbligo di fare consistente nella protezione del lavoratore nei confronti delle molestie o
persecuzioni, conosciute o conoscibili, dei colleghi o sottoposti ( a loro volta responsabili
contrattualmente e disciplinarmente verso il datore ed extracontrattualmente verso la vittima).
In questa direzione, non servirebbe il richiamo alle norme degli artt. 1228 e 2049 c.c. per
risalire alla responsabilità datoriale[151].
5.4 Oneri della prova
Dovendosi dunque ricondurre il fenomeno del mobbing all'art. 2087 c.c., concretizzante
un'ipotesi di responsabilità contrattuale del datore di lavoro[152]:
il lavoratore ha l'onere di - allegare e dimostrare l'esistenza del diritto
-allegare il fatto costituente inadempimento (= violazione
di norme di sicurezza specifiche o generiche)
-allegare e provare il danno ed il nesso causale rispetto
all'omissione lamentata
solo se detto onere assertivo è assolto:
il datore di lavoro ha l'onere di -allegare e provare
l'adempimento/la non imputabilità del fatto (= avere
adottato quelle idonee misure protettive/preventive e
di avere vigilato sulla loro concreta applicazione).
il datore di lavoro ha l'onere di
Poiché nel solo mobbing discendente in realtà vi sarebbe la violazione di un divieto, cioè di un
obbligo di non fare, solo in questo caso (come nelle discriminazioni o negli atti a motivo
illecito):
-il lavoratore avrebbe l'onere di -allegare e provare l'inadempimento
invece nel mobbing ascendente o orizzontale:
-il lavoratore avrebbe l'onere di -allegare e provare la persecuzione da parte di colleghi o
sottoposti
-la conoscenza o conoscibilità da parte datoriale, col conseguente obbligo d'intervento
protettivo
5.5 Possibile sussunzione del mobbing in figure affini: il motivo illecito determinante, le
discriminazioni, le molestie
Per completezza, va tenuto conto che, in base al principio di specialità, spesso le condotte
mobbizzanti risultano sussumibili sotto altre fattispecie legali specifiche, già tipizzate[153].
Intanto, va ricordata la possibile rilevanza del motivo illecito sotteso ad atti apparentemente
validi e leciti.
Il motivo illecito potrebbe essere quello persecutorio o di ritorsione, reazione o ripicca al
legittimo esercizio di diritti riconosciuti. Trattasi di una nullità sanzionabile alla stregua degli
artt. 1418, 1345, 1324 cod. civ.[154].
Ai fini della nullità, il profilo delineato dalla norma deve assurgere a motivo unico
determinante; cioè la ragione vendicativa e ritorsiva deve risultare di portata eziologica
esclusiva. Viceversa, sovrapponendosi altri motivi autonomi, realmente giustificativi del
recesso, la verifica d'illiceità del motivo perde rilevanza.
A livello processuale è il ricorrente, in casi di tal fatta, a trovarsi gravato dell'onere di allegare e
provare l'illustrato motivo ed il nesso causale. Certamente non si tratterà di una prova agevole,
avendo ad oggetto un processo mentale interno ad un soggetto. Acquisirà importanza a fini
probatori, ovviamente la dimostrazione dell'inconsistenza della giustificazione sostanziale
addotta formalmente.
Verosimilmente, poi, al fine di ricostruire il processo formativo della volontà, troverà largo
spazio l'utilizzo di presunzioni semplici.
Quanto ai motivi formalmente addotti, come dianzi rilevato, grava sulla parte datrice, sub
specie di fatti impeditivi, sollevare ope exceptionis e quindi provare la sussistenza della giusta
causa o del giustificato motivo. Allorché tale ultima dimostrazione sia perfezionata, rimane
irrilevante l'accertamento sul (magari concorrente) motivo ritorsivo e l'atto non può comunque
ritenersi affetto da nullità[155].
Si coglie il destro per rilevare che non convince la diffusa tendenza ad annullare i confini tra
atto discriminatorio ed atto viziato da motivo illecito.
Il punto merita approfondimento e non, si badi, per un mero interesse catalogatorio, ma per i
risvolti pratici implicati.
La definizione autentica del concetto di discriminazione, evidenzia in maniera indiscutibile la
portata oggettiva della medesima, imperniata come è sul solo risultato finale dell'atto o della
condotta.
Ad esempio, l'art. 4, L. 10 aprile 1991 n. 125, Azioni positive per la realizzazione della parità
uomo-donna sul lavoro, come sostituito dall'art. 25 del dlgs. 11 aprile 2006, n. 198 , definisce il
concetto di discriminazione diretta come "qualsiasi atto, patto o comportamento che produca
un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e,
comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un'altra lavoratrice o di un altro
lavoratore in situazione analoga". La tecnica definitoria scelta conduce, di necessità,
all'irrilevanza dell'intento dell'autore, rimanendo affatto estraneo alla valutazione giuridica del
comportamento indagato il movente soggettivo, l'animus nocendi. La prospettiva è dunque
quella della vittima e non quella dell'autore.
E' chiaro, d'altra parte, che la concezione funzionale della discriminazione prescelta dal
legislatore garantisce la vittima dalle difficoltà probatorie che s'incontrano quando si ha da
dimostrare un'intenzione, peraltro con definizioni tipizzanti sostanzialmente aperte, cioè
atipiche rispetto alle concrete condotte sanzionate[156]. Diversamente è a dirsi per la nullità che
colpisce l'atto per motivo illecito determinante. Qui, difatti, il factum probandum consiste
proprio nella dimostrazione di un intento, di un movente .
Inoltre, quello di discriminazione è quoad essentiam un concetto sistemico, cioè fondato
sull'appartenenza della vittima ad un genus. In tal senso questo tipo di tutela ha un
imprescindibile sostrato superindividuale, rivolgendosi al lavoratore, non nell'episodicità della
sua situazione, ma nella sua identità collettiva in quanto appartenente ad un gruppo. La
normativa protettiva specifica opera dunque solo quando sia allegata l'esistenza del cd. fattore
discriminante (razza, religione, sesso, etc.).
All'opposto la nullità per motivo illecito è improntata ad una considerazione atomistica della
singola vicenda contrattuale, scena nella quale rilevano giuridicamente i comportamenti dei
contraenti uti singuli.
Peraltro, l'agevolazione probatoria legata all'essenza oggettiva della discriminazione è rincarata
dallo speciale regime probatorio previsto. Infatti, l'art. 40, sostitutivo del 6° co. dell'art. 4 della
l. n. 125 cit. recita: "Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di
carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e
qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare,
in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti
discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza
della discriminazione". Grava perciò sul dipendente il peso di fornire (almeno due) circostanze
fattuali, omogenee e specifiche, sintomi di discriminazione. L'onere probatorio datoriale è solo
eventuale, essendo subordinato all'assolvimento dell'onere gravante sulla controparte, ciò, si
noti, contro il principio processuale dell'unicità del mezzo di prova.
Trattasi, quanto alla posizione datoriale, sostanzialmente di un onere di giustificazione, da
assolvere in finale attraverso la prova di un fatto positivo, cioè l'esistenza di cause di
giustificazione della disparità di trattamento.
Nel contesto in discorso risulta di peculiare pregnanza probatoria l'uso di criteri statistici, tali da
individuare nella complessiva prassi aziendale, secondo una regola di proporzionalità ovvero
secondo un criterio empirico-probabilistico, eventuali disparità di trattamento a carico delle
lavoratrici.
La norma non pare riconducibile nell'ambito delle ipotesi d'inversione legale dell'onere
probatorio. Infatti, difetta, di tale categoria il totale sollevamento della parte altrimenti onerata
del peso istruttorio: in questo caso, il lavoratore non è, come per esempio, per la giusta causa o
il giustificato motivo, del tutto esonerato dagli oneri dimostrativi, ma deve comunque allegare e
dimostrare elementi per fondare una presunzione di discriminazione. Inoltre la parte datrice
deve dimostrare lo stesso fatto che avrebbe dovuto provare secondo la regola generale di cui
all'art. 2697 cod. civ.[157]
A parere di altri interpreti si tratterrebbe di una presunzione legale relativa. Contro tale assunto
vi è però da osservare che, mentre il meccanismo presuntivo legale non ha valore istruttorio, nel
caso dell'art. 4 si sviluppa un'attività probatoria, cioè conoscitiva della realtà. Infine, altra
esegesi ha portato a riconoscere nella fattispecie de qua senz'altro una presunzione semplice. Di
contro, è da rilevare che la norma non richiede, a differenza del disposto dell'art. 2729 cod. civ.,
l'attributo della gravità degli indizi.
L'interpretazione più convincente riconosce l'autonomia e specialità della fattispecie tipizzata
dall'art. 4 cit., certo ricalcata su quella propria della presunzioni semplici ma con un grado di
attendibilità della prova inferiore a quello necessario per raggiungere il convincimento pieno. Si
è dunque di fronte non all'esenzione, ma all'alleggerimento del peso probatorio dei fatti
costitutivi del diritto. Peraltro, a differenza della presunzione legale, in questa caso è affidato
all'interprete il prudente apprezzamento dei nessi logici inferenziali.
Emerge perciò il carattere ibrido della figura, indirizzata a garantire concorrenti esigenze: come
le presunzioni semplici funge da strumento conoscitivo effettivo della fattispecie, pur nel limite
della verosimiglianza; come le presunzioni legali, vale a programmare anticipatamente una
certa ripartizione degli oneri della prova.
Si è di fronte ad un diritto processuale diseguale, cioè un regime agevolato per la presunta
vittima in conformità con l'assunto della disparità delle posizioni di partenza[158].
Meritano altresì menzione i decreti legislativi n. 215 (riferito alla razza e all'origine etnica) e n.
216 del 9 luglio 2003 per la parità di trattamento tra le persone sul posto di lavoro,
rispettivamente di attuazione delle Direttive del Consiglio europeo n.43 e n.78 del 2000.
La logica di questi decreti è sempre quella della discriminazione, come si desume chiaramente
dagli articoli iniziali di ciascun corpus regolativo. In particolare, negli artt. 1 e 2 del d.lgs. n.
216, che ha portata piu' generale, si individua la finalità del "principio di p/arità di trattamento"
intesa come "l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione,
delle convinzioni personali, degli handicap, dell'età o dell'orientamento sessuale".
Dunque, vanno ribadite tutte le argomentazioni testè esposte, circa i connotati specifici
caratterizzanti la categoria giuridica della discriminazione.
Di questi testi normativi, è qui il caso di ricordare la definizione autentica delle molestie ovvero
"quei comportamenti indesiderati", posti in essere per motivi di razza o di origine etnica,
"aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio,
ostile, degradante, umiliante od offensivo" (art. 2, 3° co., d.lgs. n. 216 cit.).
La scelta per una concezione oggettiva ("o l'effetto") agevola molto gli oneri probatori, anche
evidenziato che viene riconosciuto in favore del ricorrente un regime di onere della prova di
favore, di tipo presuntivo, basato su "dati statistici, elementi di fatto, in termini gravi, precisi e
concordanti" (art. 4 co. 3°).
Circa il riconoscimento del risarcimento di un "danno non patrimoniale" pur in assenza di una
fattispecie penale, la novità della norma è sminuita dal coevo avvio di un nuovo corso
giurisprudenziale, inaugurato dalle citate sentenze della Cassazione n.8827 e 8828 del 2003 (art.
4 co. 4°).
Inoltre, si segnala che viene introdotto il dovere del giudice di tenere conto, nella liquidazione
del danno, anche del carattere ritorsivo della condotta discriminatoria (art. 4 co. 5°) e viene
riconosciuta la possibilità che il giudice ordini la cessazione del comportamento e la rimozione
degli effetti.
Analoga considerazione merita il d.lgs. n. 145/2005 (di attuazione della direttiva 2002/73/CE in
materia di parità di trattamento tra gli uomini e le donne, che va ad integrare la l. n. 125/1991
(v.s.).
6. Il risarcimento del danno
6.1 Regole generali
La tematica del risarcimento del danno ha una propria autonomia, correlandosi alle diverse
fattispecie inadempitive sopra menzionate.
Come principi generali, va giusto ricordato che, vertendosi in ogni caso (v. amplius paragrafi
precedenti) in tema d'inadempimento contrattuale, ai sensi dell'art. 1223 c.c., il risarcimento
deve essere comprensivo della "perdita subita" e del "mancato guadagno", purché ne
costituiscano "conseguenza immediata e diretta".
Parimenti da ricordare è che, ai sensi dell'art. 1225 c.c., salvo il dolo del debitore, è risarcibile il
solo danno che era prevedibile quando l'obbligazione era sorta.
La materia risarcitoria è stata di recente oggetto di fondamentali interventi di sistemazione: in
particolare occorre muovere dalla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 6572/2006.
6.2 Il principio di effettività del danno
Le sezioni unite, dopo avere espressamente affermato la natura necessariamente contrattuale
della responsabilità datoriale (v.s.), ribadiscono il principio generale regolatore della materia,
che è quello dell'effettività del danno.
"Dall'inadempimento datoriale non deriva però automaticamente l'esistenza del danno, ossia
questo non è, immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell'alto
illegittimo. L'inadempimento infatti è già sanzionato con l'obbligo di corresponsione della
retribuzione, ed è perciò necessario che si produca una lesione aggiuntiva, e per certi versi
autonoma. Non può infatti non valere" anche in questo caso, la distinzione tra
"inadempimento" e "danno risarcibile" secondo gli ordinari principi civilistici di cui agli artt.
1218 e 1223 c.c., per i quali i danni attengono alla perdita o al mancato guadagno che siano
"conseguenza immediata e diretta" dell'inadempimento, lasciando così chiaramente distinti il
momento della violazione degli obblighi di cui agli artt. 2087 e 2103 cod. civ., da quello, solo
eventuale, della produzione del pregiudizio (in tal senso chiaramente si è espressa la Corte
Costituzionale n. 372 del 1994). D'altra parte - mirando il risarcimento del danno alla
reintegrazione del pregiudizio che determini una effettiva diminuzione del patrimonio del
danneggiato, attraverso il raffronto tra il suo valore attuale e quello che sarebbe stato ove la
obbligazione fosse stata esattamente adempiuta - ove diminuzione non vi sia stata (perdita
subita e/o mancato guadagno) il diritto al risarcimento non è configurabile. In altri termini la
forma rimediale del risarcimento del danno opera solo in funzione di neutralizzare la perdita
sofferta, concretamente, dalla vittima, mentre l'attribuzione ad essa di una somma di denaro in
considerazione del mero accertamento della lesione, finirebbe con il configurarsi come
somma-castigo, come una sanzione civile punitiva, inflitta sulla base del solo inadempimento,
ma questo istituto non ha vigenza nel nostro ordinamento".
La chiave di lettura delle azioni risarcitorie risiede, dunque, nel principio ora esposto: la
funzione loro propria è solo la riparazione di un danno reale e concreto, come empiricamente
verificatosi[159].
6.3 Molteplicità delle voci di danno: oneri di allegazione del lavoratore
La Cassazione, evidenzia, quindi, la molteplice varietà delle voci di danno risarcibili, connotate,
ciascuna, da una diversa matrice ed un diverso oggetto, tali da radicare oneri di precisa e
necessaria allegazione da parte del lavoratore[160].
"Non è quindi sufficiente... chiedere genericamente il risarcimento del danno, non potendo il
giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per
cui il giudice - se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed
anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall'art. 421 cod. proc. civ. - non
può invece mai sopperire all'onere di allegazione che concerne sia l'oggetto della domanda, sia
le circostanze in fatto su cui questa trova supporto (tra le tante Cass. sez. un. 3 febbraio 1998
n. 1099)". Nella sentenza delle Sezioni unite si procede quindi al riassetto della tematica
risarcitoria, attraverso la individuazione delle varie voci di danno in ipotesi risarcibili.
6.4 Schematizzazione delle voci di danno e relativi oneri assertivi/probatori.
1. DANNO PATRIMONIALE
E' questo il pregiudizio a valori o beni economicamente apprezzabili dell'interessato.
Anche in questo ambito il danno effettivo va concretamente detto nella sua singolarità e
verificazione concreta, altrimenti "fermo l'inadempimento - l'interesse del lavoratore può ben
esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento retributivo quale
controprestazione dell'impegno assunto di svolgere l'attività che gli viene richiesta dal datore".
E' tale, in primis, il danno professionale, che può consistere sia nel pregiudizio derivante
dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata
acquisizione di una maggiore capacità (danno emergente), ovvero nel pregiudizio subito per
perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno (lucro cessante).
Oneri di adeguata allegazione in concreto, ad esempio tramite la circostanziata allegazione
dell'esercizio di una attività soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da
vantaggi connessi all'esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro
mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo.
Nei giudizi per demansionamento, nella quantificazione, è tendenzialmente usato il parametro
retributivo, adeguato indicatore anche della professionalità, modulato secondo parametri
individualizzanti, quali l'entità del demansionamento, la sua durata, l'età e l'anzianità[161].
Similmente, per la perdita di chance, intesa "come probabilità effettiva e congrua di conseguire
un risultato utile, da accertare secondo il calcolo delle probabilità o per presunzioni"[162], va
data allegazione e poi prova in concreto, dovendosi indicare, nella specifica fattispecie, quali
aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano
state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività[163].
2. DANNO NON PATRIMONIALE
E' questo il danno inerente a beni, interessi o valori non direttamente oggetto di valutazione
economica ed indipendenti dalla capacità reddituale della vittima.
In argomento, va giusto ricordato che un gruppo di importanti sentenze della Cassazione[164] è
valsa ad affermare, come diritto vivente, il principio interpretativo per cui nel vigente assetto
ordinamentale il danno non patrimoniale, di cui all'art. 2059 c.c., non può più essere
identificato, secondo la tradizionale restrittiva lettura, soltanto col danno morale soggettivo, ex
art. 185 c.p., scaturente da reato.
Diversamente, secondo il recente pensiero di Cassazione, il danno non patrimoniale è una
categoria ampia, comprensiva di tutte le ipotesi di lesione di un valore inerente la persona,
costituzionalmente garantito, dalla quale conseguono pregiudizi non suscettivi di valutazione
economica. Per completezza, si deve notare che le Sezioni unite, circa le ipotesi violative
dell'art. 2087, in quanto protettivo anche della "personalità morale", hanno ritenuto sufficiente
detta norma per garantire il risarcimento dei danni non patrimoniali.
All'interno della categoria del danno non patrimoniale rientrano dunque le tre seguenti voci.
2.1 DANNO BIOLOGICO
E' la lesione dell'integrità psicofisica medicalmente accertabile, secondo la definizione
legislativa di cui alla L. n. 57 del 2001, art. 5, comma 3, sulla responsabilità civile auto, che
quasi negli stessi termini era stata anticipata dal D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13, in tema di
assicurazione Inail (tale peraltro è la locuzione usata dalla Corte Costituzionale con la sentenza
n. 233 del 2003). Gli oneri di allegazione qui si sostanziano nella precisa indicazione in ricorso
della patologia riportata e del suo preteso collegamento eziologico rispetto alla condotta
inadempitiva[165] (quindi è importante anche la precisazione sulla data di manifestazione della
patologia). I mezzi di prova in argomento risiedono, soprattutto nella CTU medico legale;
tuttavia, occorre insistere che la CTU non può avere valore esplorativo/creativo, ma deve essere
sempre riferita alle sole e precise patologie dedotte in ricorso.
2.2. DANNO MORALE SOGGETTIVO CONTINGENTE
E' la sofferenza contingente ed il turbamento dell'animo determinati da fatto illecito integrante
reato: il pretium doloris. Ha natura meramente emotiva ed interiore, non è oggettivamente
accertabile. E' risarcibile ex art. 185 c.p.
Nella liquidazione equitativa del danno non patrimoniale derivante da fatto illecito, deve tenersi
conto della gravità dell'illecito penale e di tutti gli elementi della fattispecie concreta, in modo
da rendere il risarcimento adeguato al caso specifico. Ne consegue che, per esempio, il ricorso
da parte del giudice di merito al criterio della determinazione della somma dovuta a titolo di
risarcimento del danno morale in una frazione dell'importo riconosciuto per il risarcimento del
danno biologico, non è di per sé illegittimo, a condizione che si tenga conto delle peculiarità del
caso concreto, effettuando la necessaria personalizzazione del criterio alla specifica situazione,
ed apportando, se del caso, i necessari correttivi, senza che la liquidazione del danno sia rimessa
ad un puro automatismo[166].
2.3 DANNO ESISTENZIALE
Poiché in tema sono frequenti gli equivoci, è bene riportare la definizione usata dalle Sezioni
unite. E' tale "il danno non patrimoniale all'identità professionale sul luogo di lavoro,
all'immagine o alla vita di relazione o comunque alla lesione del diritto fondamentale del
lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt.
1 e 2 Cost...per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l'illecito datoriale provoca
sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che
gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione
e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno".
Detto danno è oggettivamente accertabile, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle
che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l'evento dannoso.
Anche in relazione a questo tipo di danno il giudice è astretto alla allegazione che ne fa
l'interessato sull'oggetto e sul modo di operare dell'asserito pregiudizio, non potendo sopperire
alla mancanza di indicazione in tal senso nell'atto di parte, facendo ricorso a formule
standardizzate, e sostanzialmente elusive della fattispecie concreta, ravvisando
immancabilmente il danno all'immagine, alla libera esplicazione ed alla dignità professionale
come automatica conseguenza... Il danno esistenziale infatti, essendo legato indissolubilmente
alla persona, e quindi non essendo passibile di determinazione secondo il sistema tabellare - al
quale si fa ricorso per determinare il danno biologico, stante la uniformità dei criteri medico
legali applicabili in relazione alla lesione dell'indennità psicofisica - necessita
imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire,
indicando le circostanze comprovanti l'alterazione delle sue abitudini di vita.
Transitando dal piano assertivo a quello probatorio, il danno esistenziale può essere provato
mediante prova testimoniale, documentale o presuntiva, che dimostri nel processo "i concreti"
cambiamenti che l'illecito ha apportato, in senso peggiorativo, nella qualità di vita del
danneggiato, secondo le precise allegazioni già in ricorso.
Considerato che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto
a questo tipo di danno la prova per presunzioni, mezzo peraltro non relegato dall'ordinamento in
grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice può far ricorso anche in via
esclusiva (tra le tante Cass. n. 9834 del 6 luglio 2002) per la formazione del suo convincimento,
purché, secondo le regole di cui all'art. 2727 cod. civ. venga offerta una serie concatenata di fatti
noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (e non in astratto)
descrivano: durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro della
operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione
professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la
avvenuta lesione dell'interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nella abitudini di vita
del soggetto; da tutte queste circostanze, il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una
lacuna del procedimento logico (tra le tante Cass. n. 13819 del 18 settembre 2003),
complessivamente considerate attraverso un prudente apprezzamento, si può coerentemente
risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ex art. 115 cod. proc. civ. a
quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento
presuntivo e nella valutazione delle prove. Importante è tener conto che secondo la sentenza in
commento "in mancanza di allegazioni sulla natura e le caratteristiche del danno esistenziale,
non è possibile al giudice neppure la liquidazione in forma equitativa, perché questa, per non
trasmodare nell'arbitrio, necessita di parametri a cui ancorarsi".
Maria Casola
Giudice presso la sezione lavoro
del Tribunale di Napoli
(fonte: http://appinter.csm.it/incontri/relaz/14644.pdf )