Avv. D. Garofalo, Mobbing e...(relazione)



Mobbing e tutela del lavoratore tra fondamento normativo e tecnica risarcitoria



Centro Nazionale Studi di Diritto del Lavoro

"Domenico Napoletano"

Sezione di Cosenza

Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Cosenza

organizzano un incontro di studio su

“Il mobbing nei rapporti di lavoro”

Relazione del PROF. AVV. DOMENICO GAROFALO

Associato di Diritto del Lavoro dell’Universitàdi Bari-Taranto

"MOBBING E TUTELA DEL LAVORATORE TRA  FONDAMENTO NORMATIVO E TECNICA RISARCITORIA"

Sommario: Premessa; Sezione I - Il fondamento normativo della tutela: Tutela del lavoratore e invocabilita' delle clausole generali; 1.1- La tutela speciale del lavoratore subordinato; 1.2- L'abuso del diritto; 1.3- Le clausole generali di correttezza e buona fede; 1.4- L'applicazione giurisprudenziale delle clausole generali nell'evoluzione del diritto del lavoro; 1.5- Il canone della “ragionevolezza”; 2- La teoria della “congruenza causale" dei poteri imprenditoriali; 3- La tutela della dignita' morale e della liberta' personale del lavoratore subordinato; SEZIONE II – MOBBING: CASISTICA: 1- PREMESSA; 2- Manifestazioni MOBBING (Comportamenti illegittimi e persecutori, reiterati nel tempo); 3- FATTISPECIE TIPIZZATE; 3.1-Dequalificazione; 3.2- Molestie sessuali; 3.3 Discriminazione; 3.4 Trasferimento illecito; 3.5 Licenziamento ingiurioso; 4-- NORME invocate a tutela del lavoratore. Sezione III – La tecnica risarcitoria: 1- Responsabilita' contrattuale versus responsabilita' extracontrattuale; 2 – Il danno risarcibile: il confine mobile della tutela; 2.1 – Il danno patrimoniale; 2.2 – Il danno non patrimoniale o morale ex art. 2059 c.c.; 2.3 - Il danno biologico; 2.4 – Il danno biologico da mobbing: il danno psichico; 2.5 – Il danno esistenziale: la tutela della persona oltre il danno morale e il danno biologico; 3- Il mobbing come tecnopatia non tabellata; Conclusioni.

Premessa

Il fenomeno del mobbing all’interno del rapporto di lavoro subordinato, con tendenze espansive anche nell’area del lavoro autonomo, appannaggio sino a qualche anno fa della scienza medica, ha fatto prepotentemente irruzione nell’ambito del diritto ed in special modo del diritto del lavoro; ne sono significativa dimostrazione l’abbondante riflessione dottrinale sul tema nonché l’ormai diffusa elaborazione giurisprudenziale. Senza assumere posizioni critiche nei confronti di entrambe va messo in evidenza la variabilità di riferimenti normativi e di tecniche di tutela ai quali si attinge nel momento in cui si accorda tutela al lavoratore che sia rimasto vittima di tale fenomeno.

Il presente convegno costituisce l’occasione per tentare una qualche sistemazione della materia sotto i due profili richiamati, ai quali si ispira la scansione del presente contributo.

SEZIONE I -IL FONDAMENTO NORMATIVO DELLA TUTELA

1- TUTELA DEL LAVORATORE E INVOCABILITA' DELLE CLAUSOLE GENERALI

1.1- LA TUTELA SPECIALE DEL LAVORATORE SUBORDINATO

Tutta la disciplina del contratto di lavoro è pervasa dalla consapevolezza della asimmetria o disuguaglianza dei due contraenti. E' assunto storico che, attesa l'inferiorità tecnico funzionale del lavoratore rispetto al datore di lavoro, il legislatore si è preoccupato di intervenire a riequilibrare le posizioni contrattuali donde il favor laboris come criterio guida per "supportare" il contraente debole. La sfera datoriale, come ambito di espressione di un potere privato, viene in molti casi compressa e limitata, con l’uso di diverse tecniche normative.

A) Una prima forma è rinvenibile nella tutela antidiscriminatoria, affidata a varie norme (si richiamano gli articoli 4 L. 604/1966, 15 e 16 dello Statuto dei Lavoratori, della L. 108/1990, nonchè le leggi n. 903/1977 e n. 125/1991 sulla protezione del lavoro femminile). Si tratta di una fattispecie che ha registrato significative evoluzioni, ma che è rimasta ancorata ad una tipizzazione dei motivi (che non significa necessariamente tassatività) o più correttamente, aderendo alla concezione "oggettiva" di atto discriminatorio, dei fattori di ingiusta discriminazione. L'affermarsi di un'accezione "oggettiva" di discriminazione, avente riguardo non ai moventi soggettivi dell'agente ma alla lesione del bene tutelato, ha, d'altra parte, allontanato questa normativa sia strutturalmente che funzionalmente, da quella dell'art. 1345 c.c. (motivo illecito), che rimane invocabile in ipotesi residuali, come quella del licenziamento intimato per ritorsione contro un'azione giudiziaria intentata dal lavoratore.

B) Un secondo filone normativo è quello connesso a fattispecie in cui la legittimità dell’esercizio di alcuni poteri datoriali èsubordinata alla sussistenza di una giustificazione.

Il riferimento é anzitutto al licenziamento, sia individuale (artt. 1 e 3 della L. 604/1966) sia collettivo (art. 24 L. 223/1991). Un altro esempio significativo è quello del trasferimento del lavoratore da una unità produttiva ad un'altra, che dopo l'art. 2103 c.c., come novellato dall'art. 13 Stat. lav., può essere disposto soltanto "per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive". In una posizione differenziata si colloca, invece, la disciplina delle mansioni ( v. ancora l'art. 2103), che possono essere variate dal datore di lavoro soltanto a condizione di rispettare la professionalità acquisita dal lavoratore; è stata qui impiegata una tecnica più rigida, ancorata al concetto di "equivalenza professionale", le cui maglie sono state allargate, peraltro, dalla più recente evoluzione normativa e giurisprudenziale (v. ad es. il demansionamento, legittimo, della lavoratrice madre, del lavoratore eccedentario e del disabile).

C) Una tecnica limitativa più recente è quella della procedimentalizzazione dei poteri imprenditoriali. Essa consiste nella previsione di limiti procedimentali al valido esercizio del potere, che si sostanziano in diritti di controllo, variamente calibrati dal punto di vista contenutistico, attribuiti alle organizzazioni sindacali e/o agli organismi di rappresentanza dei lavoratori nell'impresa. L'incidenza limitativa è quindi meramente indiretta, giacché il nucleo sostanziale del potere non viene intaccato ma semplicemente sottoposto, nel momento del suo esercizio, ad una serie di obblighi strumentali di natura procedurale, che hanno lo scopo di far si che venga tenuto adeguatamente conto degli interessi dei potenziali destinatari dell'atto, e, segnatamente della possibilità di adozione di soluzioni alternative. L'esempio più importante di questo modello di tutela è offerto dal licenziamento collettivo, per il quale la L. 223/1991 ha finalmente predisposto, sulla falsariga delle esperienze europee e dei dettami della normativa comunitaria, una moderna e sofisticata rete procedurale, particolarmente incisiva anche dal punto di vista sanzionatorio, in quanto qualsiasi violazione della procedura va immediatamente a ripercuotersi sulla legittimità di ciascun atto di recesso. Lo stesso dicasi per la coeva disciplina in tema di trasferimento d’azienda ex art. 47, L. n. 428/90, come recentemente modificato dal d.lgs. n. 18/2001.

1.2- L'ABUSO DEL DIRITTO

Dalla disamina, appena accennata, si evince che il diffondersi di previsioni normative volte alla limitazione del potere datoriale ha comportato lo scarso utilizzo, anche teorico, della categoria giuridica dello "abuso del diritto". Non meraviglia, pertanto, che proprio nel diritto del lavoro, questa categoria giuridica abbia trovato uno sviluppo limitato.

Se è vero che "dove comincia l'abuso, finisce il diritto", è altrettanto indubbio che quanto più l'ordinamento si spende sul terreno della limitazione delle principali posizioni di potere negoziale, tanto meno si manifestano tendenze rivolte alla rivitalizzazione della concezione dell'abuso. Anche un diritto così poco simpatetico verso l'autonomia negoziale individuale, come il diritto del lavoro, rischierebbe una crisi da sovraccarico regolativo (a danno dell'imprenditore) ove si affiancasse, ai limiti già previsti da disposizioni espresse di legge o di contratto collettivo, quell'ulteriore "mina vagante" rappresentata da un principio che consentisse di ritenere illeciti, sulla base di criteri non meglio identificati, comportamenti astrattamente conformi a diritto, in quanto rispondenti al regime positivo di un dato istituto.

La categoria giuridica dell'abuso del diritto, oltre ad essere, per così dire, residuale nell'ambito del diritto del lavoro per la intrinseca rigidità di quest'ultimo, pone irrisolti problemi di delimitazione del contenuto della categoria medesima. Diventa pertanto problematica la valutazione della condotta datoriale e la verifica di quanto rientri nel legittimo esercizio dei poteri del datore (esercizio del diritto) e quanto da questo "debordi" e sia illegittimo (abuso del diritto).

1.3- LE CLAUSOLE GENERALI DI CORRETTEZA E BUONA FEDE

Perché non rimanga astratta la categoria dell'abuso del diritto, e per valutare la legittimità della condotta datoriale onde verificare il limite tra uso e abuso del diritto del datore, si possono gli strumenti che tradizionalmente sono stati utilizzati nel diritto del lavoro soprattutto per introdurre nuovi vincoli ai poteri imprenditoriali, in zone della materia che erano state lasciate scoperte dalla normativa positiva.

Lo strumento principale impiegato a tale scopo è rappresentato dalla valorizzazione delle
clausole generali di correttezza e buona fede come fonti di obblighi integrativi del regolamento negoziale, e non soltanto come criteri di valutazione del buon adempimento, grazie al quale sono stati recuperati al controllo giudiziale atti ritenuti per tradizione insindacabili, come le promozioni a scelta (soprattutto nel settore bancario) ed i trasferimenti a domanda.

E' opportuno precisare, che le due opzioni teoriche che si sono confrontate a proposito della clausola generale di buona fede sono sostanzialmente due; secondo la prima, la buona fede è fonte di integrazione del contratto; l'altra considera detta clausola come criterio di verifica della correttezza dell'adempimento".L'art.

1175 c.c. impone a ciascun contraente di comportarsi in modo da non ledere l'interesse dell'altro oltre i limiti della legittima tutela dell'interesse proprio. Il principio di correttezza e buona fede, il quale, secondo la Relazione ministeriale al codice civile, "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo dell'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità, una volta collocato nel quadro di valori introdotti dalla Costituzione, deve essere inteso come una specificazione degli inderogabili doveri di solidarietà sociale imposti dall'art. 2 Cost. La rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra parte, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali e da quanto espressamente stabilito dalle singole disposizioni di legge.

In particolare, nel rapporto di lavoro é rintracciabile in capo al datore di lavoro l'esercizio di un potere privato e discrezionale. E' assunto indubitabile sul punto che la parte è tenuta secondo buona fede ad esercitare i suoi poteri discrezionali in modo da salvaguardare l'utilità della controparte compatibilmente con il proprio interesse o con l'interesse per il quale il potere è stato conferito.

1.4- L'APPLICAZIONE GIURISPRUDENZIALE DELLE CLAUSOLE GENERALI NELL'EVOLUZIONE DEL DIRITTO DEL LAVORO

Negli ultimi anni la scienza e la pratica del diritto del lavoro hanno rivisitato un tema, quello della buona fede oggettiva, che ha vissuto momenti di alterna fortuna sia nell'alveo elettivo - il diritto delle obbligazioni e dei contratti - sia nella specifica dimensione regolativa del rapporto di lavoro subordinato.

Occorre sottolineare che il ricorso a questa clausola ha rappresentato per il diritto del lavoro sin dalle origini un elemento costitutivo e fondante.

Una visione
diacronica consente, pertanto, di cogliere, unitamente alla dimensione dogmatico-concettuale del principio, le differenti "condizioni d'uso" della buona fede oggettiva, vale a dire i suoi concreti modelli operativi, variabili a seconda delle mutevoli politiche applicative e interpretative cui il principio di buona fede è sottoposto.

La prima tappa del breve excursus che si intende compiere, ci riporta alle origini del moderno diritto del lavoro, quando la clausola generale ha contribuito in maniera cospicua a forgiare istituti del diritto del lavoro sia sul piano della costruzione dottrinale che su quello della elaborazione giurisprudenziale, e soprattutto , ma non solo, probivirale.

La "condizione d'uso" consente, in questa fase, la creazione extralegislativa del tessuto normativo del contratto di lavoro e la buona fede risponde all'esigenza di legittimare la prassi creativa della giurisprudenza.

L'ampio utilizzo della "buona fede", in quel momento, ha ragioni evidenti. Infatti, il contratto di lavoro, in quanto collocato nel genus locativo, rientrava naturalmente nei negotia bonae fidei, ai quali si riconnette un contenuto ed una portata etica, tale che il rapporto contrattuale, travalica lo stretto contenuto espresso dalla pattuizione per rispondere alle esigenze morali "che la comune coscienza reputa obbligatorie".

In un periodo in cui la dottrina civilistica di orientamento pandettistico si intreccia con le nuove sensibilità di un giustliberismo anti-formalistico che privilegia i fatti e le istanze sociali, la buona fede - con l'equità, agli usi e alle consuetudini - appariva il principio più adatto, in ragione della sua duttilità e della notevole latitudine, a integrare la normativa riguardante l'esecuzione dei rapporti obbligatori.

La funzione della buona fede è duplice: da un lato, essa contribuisce a colmare le lacune di in regolamento negoziale sprovvisto di una disciplina espressa e compiuta, dall'altro funge da supporto storico - culturale per il richiamo all'equità quale elemento integrativo del contenuto dell'obbligazione. Essa rappresentò il "collante" che teneva insieme gli elementi costituivi , e in via di formazione del contratto di lavoro. Per fare un solo esempio, è proprio il dettame della
bona fides, "vero fondamento della teoria contrattuale", che consente a Barassi di individuare nel contenuto dell'obbligazione complessa del conduttore d'opere "l'obbligo a trattare umanamente l'impiegato e creargli un ambiente di lavoro sano"... "scevro da vizi, non pregiudizievole all'operaio" e a far discendere una responsabilità soggettiva del conductor operarum che quel dovere violi. Viene evidenziata così la matrice fondativa degli obblighi di sicurezza del datore di lavoro che troveranno una successiva consacrazione legislativa con l'art. 2087 c.c. del 1942.

Nel periodo post-corporativo, volendo individuare una seconda tappa, cambia lo scenario, il diritto del lavoro si è irrobustito e la clausola generale di buona fede(cui si affianca, ora, quella di correttezza di cui all'art. 1175 cc.) viene intesa quale criterio per completare e arricchire le previsioni, legali, e contrattuali, esistenti.Non a caso si deve ad un autore come Luigi

Mengoni, sensibile alla dogmatica e all'esperienza giurisprudenziale tedesca che si era sviluppata in applicazione del pr. 242 del Bgb, l'individuazione, accanto all'obbligazione fondamentale, di altrettanti obblighi integrativi strumentali, volti ad assicurare il conseguimento dell'utilità obiettiva che il datore di lavoro si attende dalla prestazione del lavoratore (ad es. l'obbligo di cura degli strumenti di lavoro, ovvero l'obbligo di sopperire con l'iniziativa individuale a microdeficienze dell'organizzazione di lavoro). A questa categoria di obblighi ex fide bona si aggiungono, poi, una serie di obblighi accessori, ma autonomi di correttezza, a loro volta distinti in obblighi preparatori dell'adempimento e obblighi di protezione o sicurezza, volti a tutelare le parti dai rischi specifici derivanti dal "contatto sociale" che il rapporto di lavoro fatalmente comporta.Nonostante la buona fede operi in via bilaterale, quale criterio di integrazione degli effetti del contratto in capo ad entrambi i contraenti, ciò che è importante rilevare è che , in questa fase, si rinviene una sorta di utilizzo a senso unico che conduce ad ampliare l'obbligo di prestazione del debitore di operae : la condizione d'uso è sempre sintetizzabile nella finalità di ampliare la sfera di responsabilità del prestatore di lavoro.

La dottrina giustlavoristica non ha esitato ad accogliere l'insegnamento facendo gravare principalmente sul prestatore una serie di doveri integrativi di avviso, di custodia e di preparazione all'adempimento di cui giurisprudenza e contrattazione collettiva offrono ancora oggi una ricca casistica.

In quel contesto storico, non era immaginabile un uso differente, e genuinamente bilaterale, delle clausole generali nell'ambito del rapporto individuale di lavoro: da un lato, perché il diffondersi della concezione "fiduciaria" e l'esaltazione dell'elemento personalistico hanno per lungo tempo "colorato" la correttezza e la buona fede con le tinte più intense della collaborazione e della fedeltà., facendole operare principalmente nella sfera giuridica del prestatore allo scopo esclusivo di dilatare e aggravare la posizione passiva del debitore;

dall'altro, perché "stentava ad affermarsi nella cultura giuridica e nella prassi giurisprudenziale l'idea che ai diritti di libertà del cittadino, costituzionalmente protetti, dovesse concedersi un qualche margine nelle relazioni
interprivate".

Il ricorso alla buona fede genera, dunque, un'accentuazione del disequilibrio originario tipico del rapporto di lavoro, in palese contraddizione con i valori di giustizia contrattuale che si suppone siano veicolati dalla clausola generale e con la vocazione di strumento di riequilibrio del rapporto contrattuale. Nel diritto del lavoro questa parabola trova il suo punto più alto nel pensiero di Persiani, il quale, in virtù della funzione integrativa di buona fede, ha preteso di immettere nella sfera dell'interesse creditorio del datore di lavoro l'interesse dell'organizzazione di lavoro, onde il comportamento dovuto del lavoratore comprenderebbe attività che possono essere non specificate nell'esercizio del potere direttivo, bensì determinate da un obbligo di collaborazione fedele. Si deve, però, rilevare che la tipizzata gerarchia di interessi che si rapportano a valori direttamente espressi dalle previsioni di legge o di contratto (o comunque ricavabili dall'ordinamento) sconfessi un utilizzo così intenso dalla clausola generale incentrato sullo sforzo collaborativo e fedele del debitore di opere: data la tipica e assolutamente peculiare implicazione della persona nel rapporto di lavoro, il limite dell'"apprezzabile sacrificio" che presiede a delimitare l'impegno richiesto ex fide bona, non consente di modificare l'ampiezza o la consistenza dell'obbligazione assunta dal lavoratore; anzi, il limite dell'apprezzamento del sacrificio dovrà necessariamente arretrare al cospetto di un patrimonio personale incomprimibile, costituzionalmente tutelato e preminente rispetto alle esigenze aziendali cui la "fedeltà" appare funzionale.

La terza ed ultima fase dello sviluppo del ricorso della clausola di buona fede si focalizza intorno al potere direttivo ed organizzativo del datore di lavoro. La buona fede assume, in questo caso, la precipua funzione di governo della discrezionalità, operando in funzione di limite controllo dei poteri che l'imprenditore esercita nell'ambito delle prerogative che gli sono riconosciute dal contratto di lavoro(artt. 2094 e 2104 cc) , nonchè dal suo status di organizzatore della produzione (artt. 2082 e 2086 cc). A tal fine, la buona fede si estrinseca in una duplice direzione: da un lato, rappresenta un limite che affianca le previsioni esistenti implicando un controllo distinto ed autonomo quanto agli scopi e al tipo di indagine, rispetto al sindacato condotto alla stregua delle norme formali di validità; dall'altro lato, la buona fede agisce laddove mancano esplicite disposizioni normative, per condur entro i margini di ragionevolezza e di contemperamento il potere datoriale. Le ragioni di questa nuova condizione d'uso della buona fede sono esplicitate dalla stessa giurisprudenza, la quale chiarisce come all'impostazione prescelta abbia contribuito "l'elaborazione dottrinale del concetto di potere privato come potere preminente collegato a fenomeni di organizzazione di collettività, con la connessa esigenza della regolazione di esercizio di detto potere a tutela di coloro che vi sono sottoposti". Il diritto del lavoro è stato scelto dalla giurisprudenza come terreno elettivo per testare un utilizzo della buona fede in funzione di controllo e limite dei c.d. poteri privati.

A ben vedere, attraverso l'impiego della buona fede, l'intervento giudiziale si colloca pur sempre sul piano di una verifica del rispetto da parte dei contraenti del programma negoziale, ma ne allarga l'ambito di indagine ad un riscontro condotto sul filo del divieto di porsi in contraddizione con la propria condotta o dell'imparzialità delle scelte organizzative, da verificarsi tramite raffronti con situazioni e comportamenti simili.

L'uso della buona fede arriva ad estendersi a tal punto che la giurisprudenza di legittimità - sulla scorta di una significativa, quanto discussa, pronuncia della Corte Cost. - si spinge ad affermare che l'esistenza di un principio di parità di trattamento nel rapporto di lavoro, imponendone il rispetto sia agli atti unilaterali dell'imprenditore sia alle determinazioni dell'autonomia collettiva, nel senso che la totale assenza di apprezzabili e giustificate motivazioni delle differenziazioni importa una violazione dei principi di buona fede e correttezza con conseguenze risarcitorie a ristoro dei danni subiti dai lavoratori esclusi dai trattamenti economici privilegiati La giurisprudenza, a questo punto, "reagisce" escludendo, con forza, che tali clausole generali creino obbligazioni autonome in capo al datore di lavoro, rilevando bensì o come modalità di generico comportamento tra le parti ai fini della concreta realizzazione delle rispettive posizioni di diritti e di obblighi, oppure come comportamento dovuto in relazione a specifici obblighi di prestazione, laddove il datore di lavoro nella esplicazione del suo potere di autonomia contrattuale agisce in piena libertà, senza alcun vincolo, neppure generico, nei confronti della generalità dei dipendenti. Il presupposto teorico di tali affermazioni è assai discutibile. La funzione precipua della buona fede, infatti, è proprio quella di generare obblighi integrativi o accessori del regolamento contrattuale - diretti, quindi, ad arricchire il contenuto dell'obbligazione - non, di duplicare o assistere obblighi già esistenti e di per sè vincolanti. La clausola di buona fede degrada, in quest'ottica, a funzione meramente accessoria o decorativa. Viceversa, è proprio la valenza integrativa che conferisce alla buona fede la funzione di riequilibrio della dimensione mercantile del rapporto obbligatorio a favore di quella "sociale" e di governo della discrezionalità privata.

Non si può ritenere, pertanto, che la compressione della struttura autoritaria dell'impresa può avvenire esclusivamente ad opera del legislatore o dell'azione sindacale, non già ad opera del giudice. Infatti, occorre ribadire che i principi costituzionali di tutela del lavoro sono applicabili in funzione di limite dei poteri imprenditoriali, in quanto la costituzione è fonte di diritto idonea a disciplinare direttamente i rapporti inter-privati. A questo punto, la valutazione della condotta datoriale è possibile condurla attraverso due parametri che sono la "proporzionalità" e la "giustificazione" nell'uso del potere.

La
proporzionalità significa adeguatezza tra la misura adottata e lo scopo cui essa è rivolta; o come coerenza fra le scelte imprenditoriali e le finalità specifiche cui le stesse sono preordinate. La prossimità con la teoria dell'abuso del diritto è qui evidente.

Ma l'esigenza di proporzionalità può tradursi, in un'accezione più pregnante, in criterio giuridico di ponderazione degli interessi e di riequilibrio di posizioni soggettive sperequate. In questo senso la proporzionalità esige adeguatezza e ragionevolezza nell'uso del potere, ovvero considerazione delle posizioni di interesse "altre" sulle quali detto potere incide nei limiti in cui la tutela di queste posizioni non si risolva in un ingiustificato pregiudizio rispetto alla realizzazione dell'interesse datoriale. La giurisprudenza pare esprimere questa idea quando afferma che la buona fede funge da parametro di valutazione degli interessi sostanziali delle parti contrattuali, in evidente funzione esplicativa del principio di solidarietà sociale.Un particolare merito deve essere riconosciuto alla nostra giurisprudenza per avere ammesso il controllo giudiziale dei poteri privati discrezionali sulla base del principio di buona fede. Il principio è stato dichiarato applicabile, in particolare, in materia di

potere disciplinare e in materia di promozioni.

Con riguardo ai primi è stato affermato che non basta il rispetto delle forme procedimentali stabilite dalla legge o dalla contrattazione collettiva (art. 7 Stat. Lav.) e l'applicazione del criterio della proporzionalità (art. 2106 c.c.), ma occorre anche l'osservanza delle regole di correttezza secondo il principio generale di cui all'art. 1175 cc..

Ora, l'osservanza delle regole di correttezza nell'esercizio del potere disciplinare vuol dire, appunto, che non bisogna abusare del potere per sacrificare la posizione del dipendente oltre quanto sia richiesto dall'infrazione commessa. Gli estremi di un esercizio del potere non conforme alle regole di correttezza possono riscontrarsi, ad es., quando nei confronti di un dipendente venga adottato un criterio di massima severità generalmente non adottato rispetto agli altri, o quando la sanzione sia applicata con modalità tali da renderla moralmente più penosa o da screditare il dipendente, sia pure nel solo ambiente di lavoro.

Con riguardo alla materia delle
promozioni, le nomine a posti di particolare importanza e responsabilità richiedono un potere largamente discrezionale, che deve comunque essere esercitato con l'osservanza delle regole di correttezza. In relazione all'obbligo di correttezza l'esercizio del potere si presta ad essere sindacato quando la nomina venga rifiutata in base a motivazioni false o irrilevanti o quando la scelta tra più aspiranti disattenda i criteri in base ai quali il datore di lavoro dichiara di voler procedere.

L'operatività delle regole di correttezza ex art. 1175 c.c. è stata richiamata da una certa giurisprudenza anche all'interno delle relazioni sindacali, tutelate dall'art. 28 Stat. lav.. La fattispecie riguardava il mancato coinvolgimento all'interno di una procedura di mobilità di un'organizzazione sindacale che aveva perso, a seguito del referendum abrogativo del 1995, la rappresentatività ex art. 19 lett. b), L. n. 300/70. Tale comportamento era stato riconosciuto come antisindacale in quanto violativo del canone della correttezza ex art. 1175 c.c., esteso oltre l'ambito della disciplina dei contratti all'interno della relazioni sindacali.

1.5- IL CANONE DELLA “RAGIONEVOLEZZA”

La pertinenza del discorso appena condotto è percepibile laddove si ponga mente al fatto che la doglianza che spesso si rivolge al comportamento del datore di lavoro è quella dell'arbitrarietà, intesa nel senso di condotta avulsa da qualsiasi motivazione, disancorata da parametri certi onde la possibilità che si percepisca come discriminatoria. A ben guardare, la disparità che il lavoratore può lamentare nell'agire della controparte datoriale, costituisce uno dei terreni più impervi in cui è facile "scivolare", tentati o da eccessive preoccupazioni garantiste volte a restringere il più possibile i margini di libertà del datore, o mossi, al contrario, da intenti di protezione della sfera di libera iniziativa privata (art. 41 Cost.).

Corollario delle considerazioni suesposte é che inevitabilmente anche in ambito squisitamente
privatistico, quale è quello del rapporto di lavoro, emergono beni costituzionalmente tutelati facenti capo ad entrambi i soggetti coinvolti. Conseguentemente, è possibile "esportare" anche nel rapporto di lavoro, come ormai avviene per tutti i rapporti privatistici, la ponderazione degli interessi contrapposti propria dell'ambito pubblicistico. Di qui, l'inopportunità di integrazioni degli obblighi contrattuali che onerino eccessivamente le parti le cui obbligazioni dedotte in contratto sono, molto spesso, già sufficientemente disciplinate, vincolate e sanzionate nel caso di inadempimento.

Emerge con evidenza, comunque, un ulteriore parametro di valutazione della condotta dei contraenti e in particolare del datore di lavoro: la ragionevolezza. Infatti, specie in giurisprudenza, si è assistito ad una sostanziale identificazione funzionale fra le clausole generali e il principio della parità di trattamento, tradizionalmente ritenuto non acquisito dall'ordinamento positivo (per l'inesistenza di norme che vadano al di là della previsione di specifici divieti di discriminazione, nonchè per l'inattitudine del principio costituzionale di uguaglianza a calarsi, con piena operatività di effetti, nella realtà dei rapporti interprivati). In sostanza, il principio della buona fede oggettiva è servito alla giurisprudenza per assoggettare il potere imprenditoriale, ove non altrimenti vincolato, ad un dovere di imparzialità e ragionevolezza. Ad esempio la Cassazione ha statuito ex art. 1175 c.c. che anche nell'ipotesi di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro deve osservare i criteri di scelta previsti per i licenziamenti collettivi, determinandosi altrimenti un'illiceità dell'atto risolutorio. Sin qui, peraltro, il dovere di imparzialità era stato "ragionevolmente", circoscritto nell'ambito di limiti di natura strumentale, aventi ad oggetto meri oneri di esternazione, e se del caso di prova, dei motivi (in senso oggettivo) degli atti sottoposti a controllo.Queste aperture indirette verso il principio paritario hanno, probabilmente, preparato il terreno per quell'improvvisa

escalation del quadro giurisprudenziale che è stata innescata dalla sent. n. 103 del 1989 della Corte Costituzionale, la quale ha ritenuto che una regola imperativa di parità sia direttamente deducibile dal dettato costituzionale; non, però, dagli artt. 3 e soprattutto 36 Cost., che alcuni autori avevano cercato in passato di valorizzare a tal fine, bensì dall'art. 41 co. 2 Cost., secondo cui l'iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con la "dignità umana". Da tale principio deriverebbe, secondo la Corte, che "il potere di iniziativa dell'imprenditore non può esprimersi in termini di pura discrezionalità o addirittura di arbitrio, ma deve esser sorretto da una causa coerente con l'ordinamento", per cui "sono tollerabili disparità e differenziazioni di trattamento, sempre che siano giustificate e comunque ragionevoli".

Di avviso contrario è stata, poi, la Corte di Cassazione che con una serie di pronunce, non solo ha affermato l'inesistenza di una regola di parità e ha criticato un certo impiego massimalistico delle clausole generali, ma ha radicalmente negato l'attitudine delle stesse ad operare come fonte di obblighi integrativi del regolamento contrattuale.

Può, ora, rassegnarsi una prima conclusione

La disamina effettuata ha lo scopo di mettere in evidenza l'interrelazione tra le clausole generali e la categoria dell'abuso del diritto. Se infatti, si propende per il principio della legalità, come fa la Cassazione, e dell'imprescindibilità di una mediazione legislativa dei valori costituzionali, si restringe la possibilità di fare ricorso all'abuso del diritto; a quest’ultimo, viceversa, puòfarsi ricorso se si parte dalla necessitàdi arginare il potere imprenditoriale affinchéquesto non venga esercitato in modo arbitrario. Lo spazio naturale di riferimento concettuale e di operativitàdell'abuso nei rapporti obbligatori è uno spazio individualistico, o piùesattamente interindividuale. L'abuso si inserisce nelle situazioni di supremazia negoziale, al fine di correggerle e temperarle in un senso che suona come ripristino di un'effettiva paritànegoziale. Ma allora all’utilizzabilitàdi tale categoria potrebbe obiettarsi che il diritto del lavoro ègiàabbastanza coperto su questo terreno di garanzie, in forza dell'azione congiunta di legge e contrattazione collettiva.

2- LA TEORIA DELLA “CONGRUENZA CAUSALE" DEI POTERI IMPRENDITORIALI

Una teoria contigua, per così dire, a quella dell'abuso del diritto, è reperibile in quel filone giurisprudenziale, apparso nei primi anni '80, che è pervenuto a sindacare determinati atti datoriali, altrimenti non assoggettabili al controllo, censurando la "non corrispondenza dell'atto alla funzione assegnatagli dall'ordinamento ". Le situazioni che hanno dato spunto a questa teoria, detta della "congruenza causale", sono state le più diverse; per esempio i concorsi di assunzione o promozione nell'ambito di enti pubblici economici; i criteri per la scelta dei lavoratori da porre in cassa integrazione; o ancora, il licenziamento o la sanzione disciplinare adottata per rappresaglia.

Questo orientamento è nato a seguito di una sorta di contaminazione alquanto spuria, e non sempre dichiarata, fra le tematiche pubblicistiche della discrezionalità e dell'eccesso o meglio dello sviamento di potere e la concezione privatistica dell'abuso del diritto. Non a caso esso prese piede con riferimento alle ipotesi di promozione "a scelta" nelle aziende di credito, che furono recuperate al sindacato giudiziale proprio sulla base della perdurante connotazione pubblicistica del potere di autorganizzazione che si esprime nell'effettuazione di certi concorsi.

Questo orientamento giurisprudenziale è stato criticato dalla dottrina che ha cercato di dimostrare l'inconsistenza teorica e sistematica di questa cooptazione sincretistica di categorie pubblicistiche, tanto più se estesa al di fuori del suo ambito originario.

Il ricorso alla teoria dell'abuso- che nella posizione appena descritta si rivelava essere, in fin dei conti, il frutto di una pur significativa assonanza sistematica, fra sviamento del potere e abuso del diritto (potestativo)-, è rinvenibile, con piena compiutezza teorica, nella c.d. concezione "causale" dei poteri imprenditoriali. Essa sostiene che le limitazioni ai poteri dell'imprenditore, molto diffuse, non sono rimaste esterne al contratto, ma sono arrivate, dall'interno, ad incidere sulla sua struttura obbligatoria. Le prerogative del datore di lavoro, secondo questa teoria, si sarebbero trasformate, nell'evoluzione storica dell'ordinamento, da "libere" in "causali", con correlativa modificazione degli atti di esercizio da "astratti" in "causali", in corrispondenza alla valorizzazione, che si è verificata nell'ordinamento, degli interessi dei lavoratori. Ne conseguirebbe che i singoli atti producono effetti in quanto dotati di una "causa giustificatrice adeguata", ben oltre il formale rispetto dei limiti esplicitamente fissati dal legislatore. Il giudice, pertanto, dovrebbe svolgere un'indagine di tipo funzionale, rivolta a verificare la congruità della scelta organizzativa adottata rispetto al fine precostituito dall'ordinamento o, più in generale, rispetto al valore dell'utilità sociale. In caso negativo, l'atto unilaterale, divenuto causale, dovrebbe essere ritenuto invalido.

La concezione causale presenta aspetti di notevole interesse sotto un profilo storico-critico, nell'analisi delle tendenze evolutive presenti nell'ordinamento e negli orientamenti giurisprudenziali; la stessa pone, in particolare, esattamente in luce, la natura sempre meno assoluta dei diritti potestativi e la mutata sensibilità nei riguardi dei contrapposti interessi dei lavoratori. Si deve, tuttavia, aggiungere che tale teoria non sembra in grado di reggere ad un attento vaglio critico, in quanto appare inficiata da un impiego poco appropriato del concetto di causa dell'atto negoziale, che viene sovrapposto a quello del motivo o, più asetticamente, del presupposto, di giustificazione dell'atto. L'errore teorico sta nel ritenere che gli atti imprenditoriali siano "
astratti", laddove essi, in quanto atti negoziali tipici, hanno tutti una propria riconosciuta funzione economico-sociale, che ad esempio, nel licenziamento si identifica nella produzione dell'effetto risolutorio del rapporto di lavoro. Di conseguenza, il fatto che la validità e la liceità di un negozio tipico non sia condizionata alla sussistenza di presupposti giustificanti, non consente affatto di definirlo "astratto"; esso sarà, viceversa, fornito di una propria connotazione causale, per la quale non può porsi un problema di liceità nel quadro dell'art. 1343 c.c., nel momento in cui il legislatore ha prefigurato l'atto in questione. L'indagine sullo scopo perseguito in concreto dall'autore dell'atto non concerne, quindi, il piano propriamente causale, bensì quello dei motivi in senso oggettivo, qualora l'ordinamento abbia scelto di conferire ad essi rilevanza giuridica, come nel caso di licenziamento, istituendo fattispecie tipiche di giustificazione. Tuttavia i motivi così intesi, rimangono esterni rispetto alla struttura del negozio, ed in particolare, rispetto all'elemento causale. Risulta improprio, di conseguenza, parlare di concezione causale per esprimere l'idea secondo la quale ogni atto datoriale dovrebbe essere sorretto da una "causa giustificatrice adeguata".

La questione deve pertanto, essere risolta, in ultima analisi, sul piano dell'interpretazione della normativa vigente e sullo sfondo del dato costituzionale.

La tesi della "non funzionalizzazione", invero, sembra saldamente fondata su una corretta lettura del rapporto esistente nell'art. 41 Cost. fra la garanzia di libertà dell'iniziativa economica privata ed i limiti che vengono previsti per il suo "svolgimento".

3- LA TUTELA DELLA DIGNITA' MORALE E DELLA LIBERTA' PERSONALE DEL LAVORATORE SUBORDINATO

Se è pur vero che il diritto del lavoro costituisce materia in cui il potere privato del datore di lavoro subisce una serie di limitazioni normative e contrattuali, è pur vero che tali vincoli non possono essere considerati come "risolutivi" dell'asimmetria contrattuale tra lavoratore e datore. E' infatti, coessenziale alla posizione del datore di lavoro la superiorità tecnico-funzionale da cui promana la titolarità di un potere privato il cui esercizio non può essere sottratto ad una misurazione e valutazione alla luce dei canoni classici di correttezza e buona fede ex art. 1175 c.c. Tutto quanto travalichi i limiti del legittimo esercizio del diritto a latere datoris costituisce abuso del diritto e lesione della sfera privata del lavoratore al quale, pertanto, non può essere sottratta la possibilità di "difendersi" nell'ambito di un rapporto ontologicamente "vulnerato" .

L'intima consapevolezza di ciò è alla base di gran parte della c.d. legislazione sociale che ha via via integrato la normativa del Codice civile in materia.

In effetti, la disciplina codicistica è stata integrata dalle norme dello Statuto dei Lavoratori (artt. 1-13) le quali, perseguendo l'obiettivo di tutelare la libertà e la dignità del lavoratore, hanno introdotto una serie di limiti, più o meno penetranti, all'esercizio dei poteri datoriali, pur lasciando immutata la struttura formale degli stessi e perciò il quadro sistematico delineato nel Codice Civile.

Si consideri anche l'art. 28 Stat. lav. che appresta uno strumento processuale specifico per il soggetto sindacale nel caso in cui il datore di lavoro "
ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e dell'attività sindacale nonchè del diritto di sciopero", cioè due diritti costituzionalmente tutelati dalla Costituzione, rispettivamente ex artt. 39 e 40 Cost. La stessa tipologia di azione, a difesa di un diritto costituzionalmente garantito, è prevista dall'art. 15 L. 903/1977 nel caso in cui venga posto in essere "un qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando anche in via indiretta i lavoratori in ragione del sesso ... o ogni trattamento pregiudizievole conseguente all'adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori dell'uno o dell'altro sesso e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa". Si rinviene, nell'ambito del diritto del lavoro, ancora un altro esempio fornito dall'art. 42 L. 40/1998, a tutela dell'immigrazione, che prevede un'azione speciale, definita appunto, "azione civile contro la discriminazione". La condotta stigmatizzata dalla disposizione normativa suddetta si verifica "quando il comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi". In questo caso, il giudizio ordinario che segue, necessariamente, la fase sommaria, potrà avere ad oggetto, oltre ai provvedimenti sommari emessi, la condanna del "convenuto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale". Tutti gli esempi sopra riportati evidenziano una particolare tecnica normativa, in ambito lavoristico, volta all'individuazione di condotte lesive di diritti di rango costituzionale, apprestando, in tal modo, una tutela molto pregnante, al punto da essere "anticipata" al momento dell'esposizione al pregiudizio. In altri termini, si ritiene di scorgere in queste fattispecie, delle ipotesi in cui il concetto di danno è in re ipsa, per il solo fatto di aver esposto il soggetto tutelato, al rischio del danno stesso. Si potrebbe pensare, a questo punto, di far ricorso a questi esempi per definire i margini di tutela nel caso di mobbing, e ancor prima quelli del concetto di danno.

Fermo restando questo quadro, si può dire che lo Statuto ha notevolmente ristretto le facoltà attribuite all'imprenditore per controllare e, quindi, punire il lavoratore che trasgredisce le disposizioni impartite. E' così stato modificato l'assetto dei poteri previsto dal Codice, depotenziando l'autorità del datore di lavoro come capo dell'impresa.

Seguendo questa prospettiva, si può affermare, anticipando quanto si andrà sviluppando in seguito, che lo Statuto dei Lavoratori, ed, in particolare, gli artt- 1-6 posti a tutela della dignità morale e della libertà della persona del lavoratore, sia l'antesignano della tutela per il danno da
mobbing.

Alla luce di quanto si è argomentato anche l'art. 2087 c.c. assume un valore ancora più pregnante di quanto già non gli fosse riconosciuto.La formulazione dell'

art. 2087, infatti, è tale che ad esso si può condurre non solo il generale principio del neminem laedere, ma altresì ogni elemento che includa l'obbligo del datore di lavoro di comportarsi nei riguardi dell'altra parte secondo il generale dovere di correttezza di cui all'art. 1175 c.c..

La prospettiva dell'inquadramento nell'art. 2087 c.c. della responsabilità datoriale rende percorribile, inoltre, la protezione dei beni attinenti alla personalità dell'individuo, i quali difficilmente possono essere ricompresi tra i beni della vita cui fanno riferimento le tradizionali nozioni di danno patrimoniale o danno alla salute.

In questo modo siffatta prospettiva si configura particolarmente adeguata alle più diverse e sottilmente sfumate ipotesi di vessazione sul lavoro catalogabili come mobbing.

Infatti, il carattere generale, ma non generico, dell'art. 2087 c.c. consente di sanzionare comportamenti non tipizzati, destinati a ledere la sfera psichica della persona e di ricostruire in una prospettiva unitaria comportamenti altrimenti già sanzionati da singole norme.

L'utilizzo siffatto della disciplina codicistica è consentito dal carattere "personalistico" del diritto del lavoro che ha attuato una "correzione del modello antropologico del codice civile" e ha allargato l'attenzione del legislatore civile, tradizionalmente concentrata sulla tutela dei patrimoni degli individui nei rapporti di scambio, sia verso i problemi della giustizia distributiva, sia verso i problemi della vita materiale e, progressivamente, di tutti i valori della persona. Pertanto, l'art. 2087 c.c. può essere considerato il prototipo del recepimento positivo dell'orientamento dottrinario che ha proposto la costruzione, nel diritto generale delle obbligazioni, della categoria dei doveri di protezione, fondata sull'art. 1175 c.c..Oltre a quelli protetti dall'art. 2087 c.c., la L. 300/1970 ha esteso la tutela del contratto di lavoro ad altri interessi, inerenti alla sfera più intima della persona del lavoratore e riassunti nel concetto di "libertà e dignità del lavoratore". Essi sono rilevanti, come già detto (

supra), come limite, tecnicamente atteggiato in varia forma, del potere direttivo e di controllo dell'imprenditore. le norme contenute nel titolo I dello Statuto dei lavoratori contribuiscono alla precisazione teoretica, mediante l'identificazione di una serie di figure concrete, della clausola generale elaborata dalla dottrina civilistica più recente sotto il nome di "diritto (generale) della personalità. L'incidenza e, più in generale l'influenza del diritto del lavoro sul diritto civile risulta, a partire da quanto innanzi detto, evidente. Altrettanto evidente, però, emerge la necessità, quando si discute di rapporto di lavoro, di attingere al patrimonio civilistico esistente sia per codificare la realtà fenomenica, altrimenti disancorata a categorie certe, sia per evitare prese di posizioni ideologizzate e, quindi, aprioristiche. E' da considerare, infatti, a tal proposito che la dottrina del diritto del lavoro avverte sempre di più l'esigenza, tipicamente civilistica, che la traduzione dei giudizi di valore in giudizi di dover essere proceda per la via, e sotto il controllo, di una corretta concettualizzazione sistematica.

Può quindi, formularsi una seconda conclusione La disamina teorica svolta può essere da ausilio nel tentativo di definire il fondamento e i limiti concettuali del mobbing. Se è vero, infatti, che la categoria giuridica nella quale sussumere i comportamenti "mobbizzanti" è verosimilmente quella dell'abuso del diritto e i parametri che soccorrono nella valutazione della condotta datoriale sono le clausole di correttezza e buona fede ed ancor prima, un generale principio di ragionevolezza, si deve altresì considerare che il mobbing più che residuale, può considerarsi categoria riassuntiva di tutti i comportamenti strumentalmente finalizzati all'illecito. Si vuol dire che, in alcuni casi, il datore di lavoro o con comportamenti perfettamente conformi alla legge e quindi teoricamente privi di antigiuridicità, o con condotte socialmente riprovevoli ma prive di una sanzione giuridica o con comportamenti violativi di norme e già sanzionati autonomamente, può perseguire finalità "altre" e ulteriori, in genere identificabili con l'espulsione del lavoratore, spingendolo alle dimissioni (e ciò accade prevalentemente nell'impiego privato) ovvero con la sua emarginazione nell'ambiente di lavoro (è quanto accade prevalentemente nell'impiego pubblico).

La ratio della tutela rispetto al mobbing è da rinvenire, pertanto, nella volontà di perseguire e punire quelle condotte che abbiano un quid pluris di antigiuridicità rispetto a quelle tipizzate o già ex se sanzionate dal legislatore o individuarne altre "atipiche" ma tutte ugualmente lesive della dignità della persona del lavoratore e volte alla realizzazione di finalità illecite. L'elemento persecutorio e intrinsecamente illecito del mobbing, cioè il quid pluris di offensività giustifica, peraltro, il risarcimento del danno "ulteriore" (rispetto alla oggettiva vulnerazione del rapporto contrattuale) arrecato al lavoratore.

SEZIONE II – MOBBING: CASISTICA

1- PREMESSA

Mutuato dall’etologia per applicarlo al campo delle relazioni umane dallo svedese Heinemann negli anni ’70 (che lo utilizzòper definire i comportamenti violenti tra i bambini a scuola, oggi riconducibili al bullismo), applicato dal tedesco Leymann ai comportamenti degli adulti nel mondo del lavoro, studiato e diffuso in Italia dallo psicologo del lavoro Harald Ege, il mobbing èstato da quest’ultimo definito come: una situazione lavorativa di conflittualitàsistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o piùpersone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o piùaggressori in posizione superiore, inferiore o di parità con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità Il mobbizzato si trova nella impossibilitàdi reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche a invaliditàpsico-fisiche permanenti di vario genere e percentualizzazione (EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing, Milano, 2002, 39; dello stesso Autore v. "dalle origini del mobbing alla valutazione del danno", in LG, n. 4, 2003, 316 ss).

Tale definizione comprende quelli che, secondo l’autore, sono i sette criteri fondamentali per l’individuazione della figura:

1) l’ambiente lavorativo,

2) la frequenza,

3) la durata,

4) il tipo di azioni,

5) il dislivello tra gli antagonisti,

6) l’andamento a fasi successive,

7) l’intento persecutorio.

Analizzando il problema dal punto di vista gius-lavoristico, rileva GRAGNOLI, nella sua relazione del marzo 2003, che, per le condotte che trovano comunque una regolazione positiva, con la configurazione consolidata della loro illiceitàe del connesso obbligo risarcitorio (quali la dequalificazione e il trasferimento illegittimo, la nozione di licenziamento ingiurioso, le molestie sessuali e gli atti discriminatori), il ricorso al termine mobbing èsolo fonte di equivoci.

Al concetto di mobbing spetterebbe, pertanto, uno spazio ridotto, nel quale ascrivere le condotte che, senza rientrare in una preesistente ipotesi tipica, consistano in una persecuzione reiterata, frazionata in piùiniziative, il cui succedersi provochi un danno ingiusto.

In base a questa teorizzazione, elementi distintivi del mobbing sarebbero:

a) un comportamento non tipizzato, consistente in azioni ripetute, anche diverse,

b) la funzionalitàdi tali azioni alla persecuzione.

[così VISCOMI (Il mobbing: alcune questioni su fattispecie ed effetti, in LD 1/2002, 45, 49), secondo cui èl’intenzionalitàoffensiva della condotta e non soltanto la potenzialitàlesiva della medesima a configurare una fattispecie di mobbing]

In ogni caso, l’illegittimitànon puòessere fatta derivare dal semplice verificarsi del danno (anche se biologico ed accertato sul piano medico-legale).

Al prestatore di lavoro compete, dunque, non solo la dimostrazione del danno e del nesso di causalità ma anche la prova del dolo (potendosi utilizzare le presunzioni fondate su circostanze gravi, precise e concordanti).

L’autore sottolinea ancora l’insidia sottesa al fenomeno mobbing: l’inclinazione della protezione di tipo risarcitorio verso una dimensione sanzionatoria, piùche riparatoria in senso stretto, dissuadendo il datore di lavoro dal porre in essere comportamenti contrastanti con le libertàdei dipendenti, laddove il risarcimento presuppone sempre una preesistente posizione soggettiva riconosciuta dall’ordinamento e non vuole realizzare in modo coattivo la felicitàdei dipendenti. La funzione del diritto del lavoro non è infatti, quella di definire gli strumenti di organizzazione dell’azienda, bensìquella di delimitare dall’esterno il potere dell’impresa, il quale viene in considerazione nel sistema del diritto del lavoro solo per i suoi vincoli, non per il suo fondamento primo, collocato nella libertàdi iniziativa economica.

Nel condividere sostanzialmente il ragionamento di Gragnoli, si ritiene però che il mobbing venga a configurarsi piùche come una categoria giuridica di carattere residuale, come uno strumento mirato ad individuare la tipologia di responsabilitàdel datore di lavoro.

Sotto tale angolo prospettico, il mobbing va inteso come insieme di azioni ripetute nel tempo, complessivamente illegittime (anche se singolarmente lecite) poiché finalizzate alla emarginazione o espulsione del soggetto.

Cosicché il datore di lavoro che voglia liberarsi di un dipendente sgradito (si pensi ad un lavoratore reintegrato o al cambio di gestione aziendale), attuando il mobbing lo induce alle dimissioni, e ciòal fine di evitare le strettoie del regime della tutela reale.

Non èun caso, infatti, che il mobbing venga denunciato quasi esclusivamente nelle grandi aziende, molto spesso negli istituti bancari o nella Pubblica Amministrazione (ancora oggi connotata da clientelismo), avendo il piccolo imprenditore la possibilitàdi liberarsi di un lavoratore semplicemente licenziandolo, a fronte della sopportabilitàdel sistema sanzionatorio all’uopo previsto (quello di cui all’art. 8 della legge 604/66).

Questa èla chiave di lettura per la ricerca che segue.

2- MANIFESTAZIONI MOBBING (COMPORTAMENTI ILLEGITTIMI E PERSECUTORI, REITERATI NEL TEMPO);

ô· Pubblica amministrazione. Bossing aziendale ad opera di un dirigente del servizio (DPL di Lecce): la pubblica amministrazione ha il dovere di intervenire per rimuovere le situazioni di persecuzione sul posto di lavoro ad opera del dirigente del servizio sovraordinato alla lavoratrice, situazioni concretantisi in accuse infondate e calunniose per attività svolte sul lavoro, aggressioni verbali continue, illegittime sottrazioni di mansioni (Trib. Lecce 31 agosto 2001).

ô· Pubblica amministrazione. Differenza tra mobbing e molestie. Trattasi di un caso in cui il ricorrente (un funzionario di Dogana) ha chiesto di accertare le molestie subite (vessazioni e persecuzioni) da parte della Direzione della Amministrazione Finanziaria – Dogana di Como. Il Giudice del Lavoro ha respinto il ricorso, non essendovi stata prova di un danno dipendente dall’attivitàe dall’ambiente di lavoro, sottolineando la differenza tra mobbing e molestie, che riverbera i suoi effetti ai fini dell’onere probatorio. Il primo consisterebbe in atti che, presi singolarmente, sono apparentemente leciti, ma, collettivamente, mirano ad emarginare un dipendente ed espungerlo dall’azienda: Il mobbing richiede, quindi, la dimostrazione del dolo. Le molestie, invece, sono illecite anche singolarmente, e possono costituire reato, richiedendo la prova di tale illiceità(Trib. Como 27 settembre 2002, in GL 2002, 50, 46).

ô· Comportamenti offensivi e mortificanti, al ritorno da un lungo periodo di malattia. L’insegnamento della Suprema Corte è in sintesi, il seguente: l’incivile comportamento del datore di lavoro o dei preposti, reiterato nel tempo, rende giustificabile una reazione scomposta da parte del dipendente. La condotta della lavoratrice che, di fronte al mancato pagamento dell’indennità di malattia, reagisce inveendo contro il datore di lavoro con frasi ingiuriose e atteggiamento minaccioso puònon concretizzare un’ipotesi di insubordinazione ovvero un comportamento finalizzato a screditare il datore di lavoro stesso (nel caso di specie, la lavoratrice, al ritorno da un lungo periodo di malattia, era stata sottoposta a piùriprese e in presenza dei colleghi a iniziative vessatorie, offensive e mortificanti da parte del datore di lavoro e di un preposto, sfociate anche nell’adibizione a mansioni dequalificanti, che avevano suscitato in lei uno stato di collera e mortificazione tali da giustificare una sua reazione) (Cass. Sez. Lav. 16/6/2001, n. 8173, in RIDL 2002, II, 154, con nota di Calafà.

ô· Mobbing e molestie morali

Il mobbing aziendale, per cui potrebbe sussistere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, è collettivo, e potrebbe comprendere una serie di atti ciascuno dei quali è formalmente legittimo ed apparentemente inoffensivo; inoltre deve essere posto con il dolo specifico quale volontà di nuocere e infastidire o svilire un compagno di lavoro, al fine dell’allontanamento del mobbizzato dall’impresa (Trib. Como 22 maggio 2001, in LG 2002, 73, con nota di EGE).

E’ configurabile il mobbing in azienda nell’ipotesi in cui il dipendente sia oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori, volti ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi piùgravi, ad espellerlo, con gravi menomazioni della sua capacitàlavorativa e dell’integritàpsichica (Trib. Torino 11 dicembre 1999, in FI 2000, I, 1555 con nta di De Angelis).

ô· Mobbing e delitto di maltrattamenti

Commettono il delitto di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. il datore di lavoro e/o il preposto che realizzi nei confronti dei lavoratori ripetute e sistematiche vessazioni atte a produrre in essi uno stato di abituale sofferenza fisica e morale [la condanna viene inferta a due persone: il capo-gruppo responsabile di zona per vendite porta a porta di prodotti per la casa, per aver maltrattato, con atti di vessazione fisica e morale, i giovani sottoposti alla sua autoritànello svolgimento dell’attivitàlavorativa (art. 572 c.p.), e per aver, con i medesimi atti, costretto tali giovani a intensificare l’impegno lavorativo oltre il tollerabile (art. 610 c.p.), nonchéil titolare della ditta, sempre ai sensi dell’art. 610 c.p., anche per non aver impedito, ex art. 2087 c.c., la perpetrazione di tali vessazioni da parte del capo-gruppo] (Cass. Sez. VI Pen. 12/3/2001, n. 10090).

ô· Pratiche vessatorie del datore di lavoro, nell’esercizio arbitrario e illegittimo dei poteri gerarchici, direttivi ed organizzativi (Trib. Torino 1° agosto 2002, in DPL 2002, 2735, con nota di Rausei) Con tale sentenza il Tribunale di Torino ha condannato un imprenditore torinese a sei mesi di reclusione per lesioni personali colpose, riconducendo i fatti di cui al capo di imputazione nella fattispecie del mobbing verticale. Trattavasi di una guardia giurata, dipendente di un Istituto privato di vigilanza, sottoposta a turni di lavoro stressanti, ritenuta (a seguito di giudizio medico non considerato dal datore di lavoro) parzialmente inidonea alle mansioni, la quale ha subito un infarto del miocardio.

ô· Dipendenti costretti ad accettare trattamenti retributivi deteriori

Nel caso in cui i titolari, amministratori, capi squadra di più aziende operanti nel settore delle imprese di pulizia abbiano posto in essere un sistema estorsivo generalizzato nei confronti dei dipendenti, costretti ad accettare trattamenti retributivi deteriori e non corrispondenti alle effettive prestazioni lavorative, non avendo alternative di possibilità occupazionali in considerazione della diffusione del fenomeno nel contesto del settore, è configurabile il delitto di estorsione di cui all’art. 629 c.p. (senza che l’accordo tra datore di lavoro e dipendente in violazione dei minimi retributivi escluda la sussistenza dei presupposti della estorsione, in quanto anche uno strumento legittimo puòessere usato per scopi diversi, integrando una minaccia ingiusta, perchéingiusto èil fine a cui tende) (Cass. Sez. II Pen. 24/1/2003, n. 3779, in DPL 2003, 630).

ô· Carico di lavoro sproporzionato

La giurisprudenza ha anche considerato le scelte organizzative del lavoro, considerando un inadempimento dell'art. 2087 c.c. la richiesta di un impegno eccessivo del lavoratore, cui sia assegnato un carico troppo esteso di lavoro, tale da eccedere la normale tollerabilità secondo le regole di comune esperienza, ovvero al quale sia stato assegnato un carico eccessivo di lavoro usurante. Va, quindi, risarcito, secondo le regole della responsabilità contrattuale, il danno alla salute (nella specie, infarto cardiaco) derivante al lavoratore dall'eccessivo impegno lavorativo dovuto alla sostituzione di un collega protrattasi per lungo tempo, allo svolgimento di lavoro straordinario e festivo ed alla rinuncia al godimento delle ferie (Cass. Sez. Lav. 5/2/2000, n. 1307, in FI 2000, 1554, con nota di Perrino).

ô· “Invito” alle dimissioni, per ritorsione del fatto che il convivente, ex dipendente dell’azienda, era andato a lavorare presso una azienda concorrente. Tale invito aveva prodotto nella lavoratrice una prolungata sindrome depressiva reattiva, accompagnata, durante la malattia, dall’assunzione di altra lavoratrice a tempo indeterminato nelle di lei mansioni nonchédall’assegnazione, al rientro della malattia, di incombenze diverse e dequalificate, con il risultato di ottenere le richieste dimissioni (Trib. Torino 30 dicembre 1999, in D&L 2000, 378).

[L’invito alle dimissioni non èin séillecito, ma tale puòdivenire quando sia accompagnato da atteggiamenti intimidatori (GRAGNOLI, 2003)].

Nel caso in cui il lavoratore abbia rassegnato le dimissioni in seguito alla condotta di mobbing, potràottenere l'annullamento delle stesse solamente se saranno riscontrati i presupposti dell'incapacitànaturale ex art. 428 c.c. (Pret. Napoli 9 giugno 1994, in D&L 1994, 977) o del vizio della volontàdato dalla violenza morale ex art. 1434 c.c., anche nelle forme della minaccia illegittima di far valere un diritto (generalmente il licenziamento) per condizionare la volontàdel lavoratore ed ottenere un vantaggio ingiusto (art. 1438 c.c.), vale a dire un effetto abnorme e diverso rispetto a quello raggiungibile con l'esercizio del diritto (cfr. Cass. Sez. Lav. 26/5/1999, n. 5154) (v. CACCAMO e MOBIGLIA, Mobbing: tutela attuale e recenti prospettive, in DPL 18/2000, Inserto, XIII).]

ô· Richiesta a più riprese all’INPS dell’effettuazione di visite mediche domiciliari di controllo dello stato di malattia del lavoratore, attestato da certificato del medico curante, nonostante la malattia fosse stata già accertata da controlli precedenti. Tale comportamento aveva determinato un aggravamento della malattia, tale da portare ad una invalidità permanente corrispondente ad una riduzione della capacità lavorativa pari al 20% (Cass. Sez. Lav. 19 gennaio 1999, n. 475, in MGL 1999, 270, con nota di Rondo).

[Tale sentenza conferma, sul punto, quanto affermato dal Pretore di Lecce che a tal proposito aveva parlato di “vero e proprio stillicidio di visite di visite medico - fiscali di controllo”. Il Pretore di Lecce, quindi, accertato sia il profilo causale (in quanto l'Inps procede alle visite di controllo solo su impulso del datore di lavoro) sia quello soggettivo (in quanto la societàdatrice di lavoro era consapevole delle condizioni di salute della lavoratrice), ha ravvisato nella condotta del datore di lavoro un abuso di potere, in violazione dei principi di correttezza ex art. 1175 c.c. e della tutela della salute ex art. 2087 c.c. Conseguentemente il Pretore, sul presupposto che gli obblighi di correttezza integrano il contenuto del contratto e che il relativo inadempimento (di natura dolosa) comporta la responsabilità del datore dei lavoro, ha ritenuto il datore di lavoro medesimo responsabile di tutte le conseguenze dannose, pur non volute o soggettivamente imprevedibili, derivanti dall'inadempimento ex art. 1225 c.c. Il Pretore, infine, ha riconosciuto il diritto della lavoratrice al risarcimento del danno biologico.]

ô· Partecipazione obbligatoria (sub condicio di sanzione disciplinare) ad un corso di autovalutazione delle attitudini individuali, il cui contenuto tende ad una indagine su aspetti della personalità di determinati lavoratori al fine di renderli consapevoli della loro inadeguatezza all'organizzazione aziendale e della loro conseguente inutilità nella medesima (Pret. Milano 16 gennaio 1996, in MGL 1996, 350, con nota di Castelvetri);

ô· Comminazione reiterata, immotivata e quindi illegittima di sanzioni disciplinari

al dipendente, dalle quali sia derivato un danno psichico (Pret. Milano 14 dicembre 1995, in LG 1996, 385).

ô· Mortificazioni personali e professionali, accompagnate dall'assegnazione di benefici immeritati a soggetti pari grado della vittima (Pret. Milano 20 giugno 1995, in RCDL 1995, 945, su un caso di dequalificazione a seguito di lottizzazione politica dei posti  di lavoro con conseguente psicosi del soggetto colpito che ha condotto quest'ultimo all'afonia).

3- FATTISPECIE TIPIZZATE

3.1- DEQUALIFICAZIONE

Costituisce illegittima dequalificazione:

ô· la sottrazione di compiti e responsabilità caratteristiche delle mansioni svolte (Pret. Roma 17 aprile 1992, in LPO 1992, 1172);

ô· il sistematico disconoscimento dei diritti derivanti dalla propria qualifica (Cass. Sez. Lav. 7801/1986; Trib. Milano 16 dicembre 1995, in RCDL 1996, 458);

ô· il demansionamento (con destinazione alle inferiori mansioni di stiratrice) di un’operaia di III livello (Cass. Sez. Lav. 14 novembre 2001, n. 14189); il demansionamento (con destinazione a mansioni di manovalanza) di un progettista di stands promozionali reintegrato in azienda a seguito di ordine del giudice, per licenziamento ingiustificato (Cass. Sez. Lav. 23 ottobre 2001, n. 13033; v. sullo stesso tema, Cass. Sez. Lav. 411/1990, in PLO 1990, 2387, con nota di Meucci; Pret. Milano 8 aprile 1992, in RCDL 1993, 658); la progressiva assegnazione a mansioni inferiori ed il successivo trasferimento ad altra sede di un dipendente di banca (Trib. Forlì15 marzo 2001, in RIDL 2001, II, 728, con nota di Vincieri, e in RCDL 2001, 411, con nota di Greco); la revoca dell’incarico dirigenziale con assegnazione a mansioni di posizione professionale non equivalente (Trib. Treviso 13 ottobre 2000); l’affidamento di incarichi dequalificanti, il graduale svuotamento delle mansioni affidate (Pret. Roma 15 maggio 1986, in RIDL 1987, I,110);

ô· l'affiancamento, soprattutto nei casi di dipendenti altamente qualificati e a cui sono affidate funzioni dirigenziali da svolgere in autonomia, di uno o più soggetti formalmente con finalità di assistenza, sostanzialmente per controllare e isolare un soggetto sgradito e per svilirne l'attività (Cass. Sez. Lav. 276/1995, in RCDL 1995, 961);

ô· la totale inattività, per 16 anni, di un dipendente RAI assunto per svolgere mansioni di attore (Cass. Sez. Lav. 2/1/2002, n. 10, in RIDL 2003, II, 58, con nota di Quaranta); la sottrazione di tutte le mansioni attribuite al dipendente tale da comportare la totale inoperosità (caso di un dirigente della RAI) (Trib. Milano 26 aprile 2000), ovvero il confinamento in forzata inattività (di un quadro) dopo la reintegra in azienda a seguito di ordine del giudice (Cass. Sez. Lav. 6 novembre 2000, n. 14443); la forzata inattività decennale (caso di un giornalista della RAI) (Cass. Sez. Lav. 7 luglio 2001, n. 9228); la progressiva e completa inattività coatta (Trib. Milano 30 maggio 1997, in RCDL 1997, 789; Pret. Milano 11 marzo 1996, in RCDL 1996, 677, Cass. Sez. Lav. 8835/1991, in RIDL 1992, II, 954, con nota Focareta).

3.2- MOLESTIE SESSUALI

La riconduzione delle molestie sessuali alle discriminazioni in genere (v. la genesi comunitaria e la legge 125/91) non è esente da critiche, soprattutto sotto il profilo della sua validità generale: …pur senza voler rinnegare la fondamentale portata (in termini giuridici e culturali) del riconoscimento della natura discriminatoria delle molestie sessuali, si deve infatti, segnalare il carattere non omogeneo, ma ancora dubitativo e aperto, di questa complessa operazione qualificatoria (IZZI, Denuncia di mobbing e licenziamento per giusta causa: chi la fal’aspetti?, in RIDL 2000, II, 776, 782, in commento a Cass. Sez. Lav. 143/2000).

Rileva PIZZOFERRATO (Molestie sessuali sui luoghi di lavoro: verso una tipizzazione della fattispecie giuridica e delle tecniche di tutela, in RIDL 1998, II, 799, 803 ss., in commento a Cass. Sez. Lav. 8/8/1997, n. 7380), che il fenomeno delle molestie sessuali sui luoghi di lavoro èdiventato un evento giuridicamente rilevante solo a partire dalla metàdegli anni ’80 per merito delle istituzioni comunitarie che, nell’ambito dei piani di sviluppo della paritàdi trattamento e delle pari opportunitàfra uomini e donne nel mondo del lavoro, hanno dato un decisivo impulso all’analisi empirico-statistica del dato sociale e alla sua espressa condanna giuridica, con individuazione delle sanzioni appropriate e previsione di procedure formali e informali di denuncia (v. la Risoluzione del Parlamento Europeo dell’11 giugno 1986, sulla violenza contro le donne; la Risoluzione del Consiglio del 29 maggio 1990, sulla tutela della dignitàdegli uomini e delle donne nel mondo del lavoro; la Raccomandazione della Commissione del 27 novembre 1991; la Dichiarazione del Consiglio del 19 dicembre 1991).

Ritiene l’Autore, in commento a Cass. 7380/1997, che, qualora il Tribunale di Trento avesse interpretato i comportamenti datoriali alla luce della nozione di molestie sessuali adottata in sede comunitaria, la quale ricomprende la molestia ambientale (cioè l’instaurazione, nell’ambiente di lavoro, di un clima intimidatorio, ostile o umiliante), avrebbe colto il nesso tra i singoli episodi, ravvisando un filo conduttore unico.

Del resto, ricorda l’Autore, l’interpretazione del diritto interno deve avvenire alla luce della lettera e dello spirito delle norme comunitarie, anche se contenute in raccomandazioni.

…Se il fondamento lesivo del comportamento molesto viene rinvenuto nel nostro ordinamento direttamente nell’art. 41, comma secondo, Cost., dove si tutela la dignitàdella persona dinanzi all’iniziativa economica privata, nulla impedisce che in tale situazione antigiuridica si collochi una fattispecie dai contorni delineati dall’ordinamento comunitario.

…la raccomandazione della Commissione non solo ha tracciato una fattispecie aperta e assai comprensiva, ma ha predisposto un codice di condotta relativo ai comportamenti da adottare nella lotta contro le molestie sessuali …

Si individuano, inoltre, procedure informali e formali di segnalazione del comportamento indesiderato …

La Commissione formula agli Stati membri l’invito ad attuare il codice di condotta nel settore pubblico e ad incoraggiarne l’adozione nel settore privato (sebbene in tutti i contratti collettivi di comparto del pubblico impiego privatizzato le molestie sessuali siano state incluse espressamente fra i comportamenti sanzionabili disciplinarmente, tuttavia in nessuno è stata data attuazione ai contenuti della Raccomandazione CEE).

ô· Molestie sessuali e mobbing determinanti dimissioni di lavoratrice per giusta causa.

Riconoscimento del danno contrattuale esistenziale e del danno morale extracontrattuale per atti di libidine molesta (Trib. Pisa 7 ottobre 2001, in DPL Oro 3/2002, 177).

ô· Legittimità di un licenziamento per giusta causa di una lavoratrice a seguito di diffamazione a mezzo stampa del preposto, che lede il rapporto di fiducia con l’azienda, non essendo state dimostrate le accuse di mobbing (Cass. Sez. Lav. 8 gennaio 2000, n. 143, in RIDL 2000, II, 764, con note di D’Aponte e di Izzi).

Nella pronuncia richiamata, la Corte di Cassazione, pur ritenendo legittimo il licenziamento a fronte di accuse di mobbing non provate, enuncia un interessante principio: le molestie sessuali, sia poste in essere dal datore di lavoro sia dai suoi stretti collaboratori nei confronti dei lavoratori soggetti al rispettivo potere gerarchico costituiscono uno dei comportamenti piùdetestabili fra quelli che possono ledere la personalitàmorale e, come conseguenza, l'integritàpsico-fisica dei prestatori d'opera subordinati, e, come giàriconosciuto dalla precedente giurisprudenza, fanno sorgere per il datore di lavoro una vera e propria responsabilitàcontrattuale, essendo stato sostenuto che l'obbligo previsto dalla disposizione contenuta nell'art. 2087 c.c. “non èlimitato al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, ma –come si evince da una interpretazione della norma in aderenza a principi costituzionali e comunitari –implica anche il divieto di qualsiasi comportamento lesivo della integritàpsico-fisica dei dipendenti, qualunque ne siano la natura e l’oggetto e, quindi, anche nel caso in cui siano posti in essere atti integranti molestie sessuali nei confronti dei lavoratori” (Cass. 17 luglio 1995, n. 7768…).

ô· Molestie sessuali e morali da parte di un capo-turno ad una lavoratrice, e adibizione della stessa ad una postazione di lavoro isolata e di ridotte dimensioni. Risarcimento, da parte del datore di lavoro, del danno biologico per l’insorta sindrome ansiosa depressiva reattiva (Trib. Torino 16 novembre 1999, in LG 2000, 361 con nota di Santoro).

ô· Le reiterate molestie sessuali, costituenti causa di dimissioni della lavoratrice, comportano il diritto al risarcimento del danno biologico (Pret. Milano 14 agosto 1995, in RCDL 1996, 680; Pret. Milano 14 agosto 1991, in RIDL 1992, II, con nota di Poso).

3.3- DISCRIMINAZIONE

ô· Comportamento antisindacale

Una lavoratrice, componente della RSA, il giorno dopo aver affisso un comunicato nella bacheca sindacale veniva aggredita dal dirigente aziendale incaricato di gestire i rapporti collettivi e fatta oggetto di espressioni ingiuriose a sfondo sessuale. Il sindacato proponeva ricorso ex art. 28 Stat. Lav., ritenendo che tale comportamento fosse mirato ad intimidire l’esercizio dell’attivitàsindacale. Il Giudice del lavoro ha accolto il ricorso, disponendo una misura risarcitoria, l’affissione in bacheca del provvedimento di condanna, ed una inibitoria, la temporanea assegnazione del dirigente colpevole ad altri incarichi, con ciòattuando una singolare tutela in forma specifica (Trib. Monza decreto ex art. 28 Stat. Lav. 19 dicembre 2000, in LG 2001, 975, con nota di Ferrante).

3.4- TRASFERIMENTO ILLECITO

ô· Trasferimento illegittimo, demansionamento e vessazioni morali di un quadro super, dipendente della Banca Nazionale dell’Agricoltura (Trib. Forlì15 marzo 2001, in RIDL 2001, II, 728, con nota di Vincieri, e in RCDL 2001, 411, con nota di Greco).

3.5- LICENZIAMENTO INGIURIOSO

ô· Licenziamento disciplinare irrogato ad una lavoratrice, dopo la morte del figlio, per il protrarsi oltre i tre giorni dell’assenza (Pret. Ferrara 25 novembre 1993, in RIDL 1994, II, 555, con nota di Tullini).

Ha ritenuto il Giudice del Lavoro di Ferrara: Puòritenersi offensivo il licenziamento che, per la forma o le modalitàdel suo esercizio, per le conseguenze sociali o morali che ne derivano, per le espressioni contenute o richiamate nell’atto di recesso, sia lesivo della personalitàmorale del lavoratore. Tale licenziamento obbliga il datore di lavoro al risarcimento del danno in base al combinato disposto degli artt. 41 co. 2 Cost. e 2043 c.c., essendo ravvisabile un danno-evento, derivante dalla semplice violazione della dignità umana e  direttamente risarcibile prescindendo da una effettiva diminuzione patrimoniale del soggetto leso o dall’esistenza di un danno morale, rilevante solo nell’ipotesi di reato (2059 c.c.).

[In tema di licenziamento ingiurioso, v. anche: Cass. Sez. Lav. 1/7/1997, n. 5850, in GL 1997, 4, 18; Cass. Sez. Lav. 7/2/1994, n. 1219, in OGL 1994, 863.]

4- NORME INVOCATE A TUTELA DEL LAVORATORE

Art. 1 co. 1 Cost.
ôƒž L’Italia èuna Repubblica democratica fondata sul lavoro.

(norma richiamata per demansionamento e comportamenti vessatori in genere)

Art. 2 Cost. ôƒž La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietàpolitica, economica e sociale.

(norma richiamata per demansionamento, discriminazione, molestie sessuali, comportamenti vessatori in genere)

Art. 32 co. 1 Cost. ôƒž La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività…

(norma richiamata tutte le volte che èconfigurabile un danno alla salute, come conseguenza di un comportamento illecito)

Art. 41 co. 1 e 2 Cost. ôƒž L’iniziativa economica privata è libera.

Non puòsvolgersi in contrasto con l’utilitàsociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà alla dignitàumana.

(norma richiamata per demansionamento, discriminazione, molestie sessuali, comportamenti vessatori in genere)

Art. 1175 c.c. ôƒž Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza.

Art. 1375 c.c. ôƒž Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede.

Art. 1218 c.c. ôƒž Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo èstato determinato da impossibilitàdella prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

Art. 1228 c.c. ôƒž Salvo diversa volontà delle parti, il debitore che, nell’adempimento dell’obbligazione, si vale dell’opera dei terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro.

(norme richiamate laddove si afferma la responsabilitàcontrattuale del datore di lavoro, e quindi in tutte le fattispecie considerate)

Art. 2043 c.c. ôƒž Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.

(norma richiamata laddove si invoca la responsabilità extracontrattuale del datore di lavoro, e quindi in tutte le fattispecie considerate)

Art. 2059 c.c. ôƒž Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge.

(norma richiamata quando si configurano ipotesi di reato, e quindi in caso di molestie sessuali, comportamenti vessatori o altre ipotesi specifiche)

Art. 2087 c.c. ôƒž L’imprenditore ètenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolaritàdel lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integritàpsico-fisica e la personalitàmorale dei prestatori di lavoro.

(norma richiamata per demansionamento, discriminazione, molestie sessuali, trasferimento illecito, licenziamento ingiurioso, comportamenti vessatori in genere)

Art. 2103 c.c. ôƒž Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione…Egli non puòessere trasferito da una unitàproduttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive…

(norma richiamata per il demansionamento)

Art. 15 Stat. Lav. ôƒž E’ nullo qualsiasi patto o atto diretto a:

a) …

b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attivitàsindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.

Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresìai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso.

Artt. 1 e 3 L. 903/77 ôƒž E’ vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro indipendentemente dalle modalitàdi assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività a tutti i livelli della gerarchia professionale (co. 1).

…Il divieto di cui ai commi precedenti si applica anche alle iniziative in materia di orientamento, formazione, perfezionamento e aggiornamento professionale, per quanto concerne sia l’accesso sia i contenuti (co. 3).

(norme richiamate per demansionamento, discriminazione, molestie sessuali, trasferimento illecito, licenziamento ingiurioso, comportamenti vessatori in genere)

Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio, adottata il 13/6/2002, che modifica la Direttiva 76/207/CEE del Consiglio relativa all’attuazione del principio di parità di  trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali, e le condizioni di lavoro

Il Parlamento e il Consiglio dell’Unione Europea, …

Considerando quanto segue: …

(8) Le molestie legate al sesso di una persona e le molestie sessuali sono contrarie al principio della paritàdi trattamento fra uomini e donne; èpertanto opportuno definire siffatte nozioni e vietare siffatte forme di discriminazione. A tal fine va sottolineato che queste forme di discriminazione non si producono soltanto sul posto di lavoro, ma anche nel quadro dell’accesso all’impiego ed alla formazione professionale, durante l’impiego e l’occupazione.

(9) In questo contesto, occorrerebbe incoraggiare i datori di lavoro e i responsabili della formazione professionale a prendere misure per combattere tutte le forme di discriminazione sessuale e, in particolare, a prendere misure preventive contro le molestie e le molestie sessuali sul posto di lavoro, in conformitàdel diritto e delle prassi nazionali.

Hanno adottato la presente Direttiva:

1. La Direttiva 76/207/CE èmodificata come segue: …

1) …

2) L’articolo 2 èsostituito dal seguente;

“2. 1. Ai sensi delle seguenti disposizioni il principio di paritàdi trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia.

2. a) Ai sensi della presente direttiva si applicano le seguenti definizioni:

…

- molestie: situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato connesso al sesso di una persona avente lo scopo e l’effetto di violare la dignitàdi tale persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umile od offensivo.

- molestie sessuali: situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato a connotazione sessuale, espresso in forma fisica, verbale o non verbale, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignitàdi una persona, in particolare creando un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.

b) Le molestie e le molestie sessuali, ai sensi della presente direttiva, sono considerate discriminazioni fondate sul sesso e sono pertanto vietate.

3. Il rifiuto o la sottomissione a tali comportamenti da parte di una persona non possono essere utilizzati per prendere una decisione riguardo a detta persona.

4. L’ordine di discriminare persone a motivo di sesso è considerato una discriminazione ai sensi della presente direttiva.

5. Gli Stati membri incoraggiano, in conformitàcon il diritto, gli accordi collettivi o le prassi nazionali, i datori di lavoro e i responsabili dell’accesso alla formazione professionale a prendere misure per prevenire tutte le forme di discriminazione sessuale, e, in particolare, le molestie e le molestie sessuali sul luogo di lavoro. …”.

[Tale direttiva, anche in considerazione della emanazione recente, non risulta ad oggi richiamata nelle sentenze italiane, ma sarebbe auspicabile che ad essa si facesse riferimento, in base al principio della interpretazione conforme.

Si rammenta che Cass. Sez. lav. 8/8/1997, n. 7380 (in RIDL 1998, II, 795, con nota di Pizzoferrato), in tema di molestie sessuali, pur richiamando la Raccomandazione della Commissione del 27 novembre 1991, non ha interpretato la norma interna alla luce del dato comunitario, indicante (come nella Direttiva di cui sopra) lo stretto legame tra molestia sessuale e discriminazione (in entrambi i casi il fattore determinante sarebbe rappresentato dal sesso del soggetto passivo) e la ricomprensione della molestia ambientale (il clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo) nella molestia sessuale.]

D.Lgs. 626/94 e successive modificazioni ôƒž prescrive le misure per la tutela della salute e per la sicurezza dei lavoratori durante il lavoro, in tutti i settori di attività privati o pubblici (art. 1).

[Va segnalata, in proposito, la Risoluzione del Parlamento Europeo sul mobbing (Risoluzione 2001/2339[INI], nel sito Diritto del lavoro on Line, all’indirizzo www.unicz.it/lavoro/lavoro.htm), ove si individuano le condizioni favorevoli al suo insorgere in deficienze organizzative, quali il lavoro ad elevato grado di tensione, l’aumento della competizione, la riduzione della sicurezza dell’impiego, l’incremento dei contratti a termine, l’incertezza dei compiti professionali.

Rileva VISCOMI (Il mobbing: alcune questioni su fattispecie ed effetti, in LD 1/2002, 45, 62-64) che l’art. 3 del D.Lgs. 626/94 considera a stregua di misure generali di sicurezza tanto la programmazione della prevenzione quanto il rispetto dei principi ergonomici, considerando la prima alla stregua di complesso che integra in modo coerente nella prevenzione le condizioni tecniche produttive ed organizzative dell’azienda nonchél’influenza dei fattori dell’ambiente di lavoro, e applicando il secondo nella concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione, anche per attuare il lavoro monotono e quello ripetitivo. In questa prospettiva –afferma l’autore –èragionevole riconoscere che l’organizzazione del lavoro costituisce un fattore di rischio non diversamente dagli agenti biologici, chimici e fisici: non a caso un numero sempre maggiore di sentenze riconosce la responsabilitàdel datore di lavoro che non abbia predisposto idonee ed adeguate misure volte a garantire condizioni di lavoro non eccessivamente stressanti (v. Trib. Roma 21 giugno 2001, nel sito www.aziendalex.kataweb.it).]

SEZIONE III – LA TECNICA RISARCITORIA.

1-RESPONSABILITA' CONTRATTUALE VERSUS RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE

La dottrina maggioritaria rinviene proprio nell'art. 2087 cc. il fondamento giuridico della tutela contro il mobbing, considerando, conseguentemente, la responsabilità del datore/mobber quale responsabilità contrattuale. Tale responsabilità nasce dall'inosservanza di un obbligo del datore di lavoro, previsto dalla Costituzione come limite al diritto di libertà di iniziativa privata nell'esercizio dell'impresa (art. 41, co. 1 e 2 Cost.). Tale limite si sostanzia nell'obbligo di non recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, e, posto in relazione all'art. 32 co. 1 Cost. e all'art. 2087 c.c., nell'obbligo del datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica del lavoratore. Una volta dimostrata la sussistenza dell'inadempimento, non occorre a norma dell'art. 1218 c.c.. che il lavoratore dimostri, come invece nella responsabilità aquiliana, anche la sussistenza della colpa del datore inadempiente.

Così intesa, dunque, la norma dell'art. 2087 c.c. appronta un diaframma ben preciso fra gli obblighi contrattuali inerenti al sinallagma ed ogni manifestazione di supremazia datoriale che a quel sinallagma non sia funzionale. In tale contesto normativo, il fenomeno del mobbing verticale si configura, allora, come obbligo del datore di lavoro di rispettare la personalità del proprio dipendente evitando ogni comportamento che, pur formalmente corretto, possa risolversi in una forma di pressione o di "accerchiamento". In definitiva, si può affermare che nel rapporto lavorativo è vietato ogni comportamento datoriale che realizzi una compromissione della personalità del lavoratore. Da segnalare, inoltre, che la giurisprudenza ritiene così generale il principio espresso dall'art. 2087 c.c. da imporre al datore di lavoro un comportamento attivo. Egli deve approntare le misure di sicurezza finalizzate a tutelare l'integrità fisica del lavoratore e deve porre in essere tutti gli accorgimenti necessari a tutelarne la personalità morale .

In tale contesto, addirittura, il datore di lavoro che sia a conoscenza che un proprio dipendente realizzi nei confronti di un altro dipendente comportamenti vessatori o finanche comportamenti riconducibili a fattispecie delittuose di estrema gravità (molestie sessuali o atti di libidine molesta) è tenuto a porre in essere, secondo il tradizionale criterio "della massima sicurezza fattibile", quanto necessario per impedire il reiterarsi del comportamento illecito.

Deve, peraltro, essere rilevato che parte della giurisprudenza ha ritenuto che a carico del datore di lavoro si realizza un'ipotesi di combinazione di responsabilità contrattuale, per il danno provocato alla salute, e
aquiliana per omessa vigilanza sui dipendenti, derivante direttamente dall’art. 2087 c.c., oltre che dal combinato disposto degli artt. 32 Cost. e 2043 c.c.., fondanti un obbligo per il datore di lavoro di tutelare il lavoratore non solo sotto il profilo antinfortunistico, ma anche sotto quello psicofisico.

Invocare le due forme di responsabilitàrealizza, secondo i sostenitori di questa teoria, una piùefficace tutela del lavoratore, in termini di prescrizione (dieci anni anzichè cinque come previsto in caso di responsabilitàextracontrattuale) nonchédi ripartizione dell'onere della prova, dovendosi applicare il regime piùfavorevole, cioèquello connesso alla responsabilitàcontrattuale. Ove il lavoratore promuova un’azione di risarcimento fondata sulla responsabilitàcontrattuale, deve dimostrare il fatto lesivo, ossia l'inadempimento; il danno in concreto ricevuto, nonchéil nesso di causalitàtra inadempimento e danno, rimanendo esonerato dalla prova della sussistenza della colpa o del dolo del datore di lavoro, richiesta, invece, ai fini della responsabilitàextracontrattuale. Spetterà tuttavia, al datore, in tali frangenti dimostrare di avere ottemperato all'obbligo di sicurezza posto a suo carico e che l'inadempimento èstato determinato da causa a lui non imputabile.

Ove al contrario si invochi la responsabilità
extracontrattuale, il lavoratore deve provare la condotta datoriale che ha determinato il danno, il nesso causale e la colpevolezza dell'agente.

Più dettagliatamente, per acclarare la responsabilità del datore di lavoro ai sensi e per gli effetti del citato art. 2087 c.c., la regola della responsabilità contrattuale ha dato come esito la necessità di prova, da parte del lavoratore danneggiato, dei comportamenti illegittimi, del verificarsi del danno e del nesso causale tra quelli e questo, facendo gravare sull'imprenditore l'onere di provare l'ottemperanza ai singoli obblighi di tutela stabiliti dalla disposizione, per escludere la propria responsabilità.

Non vi è dubbio che il lavoratore è tenuto ad assolvere un onere probatorio molto rilevante, quanto alla sussistenza del nesso di causalità fra il danno patito, in sede psicofisica, e i comportamenti persecutori che vengono imputati al datore di lavoro per la propria azione o omissione.

Innanzitutto, perché non è detto che nel caso in cui le azioni mobbizzanti siano provate esse, possano concretamente rivestire l'efficacia piena di
condicio sine qua non, ovvero di causa esclusiva dell'evento dannoso (stante la probabile e prevedibile "concausalità" con aspetti fisio-patologici della vittima). In secondo luogo, non è assolutamente certa la dimostrabilità delle condotte mobbizzanti laddove tale risultato debba necessariamente raggiungersi a mezzo di prova per testi, specie allorquando i testimoni individuati possano essere in qualsiasi forma (spettatori o coautori) coinvolti nel mobbing lamentato.

In dottrina, si discute della cumulabilità, sempre a danno del datore di lavoro, delle regole ricavabili dai due tipi di responsabilità, rendendo al contempo più ampio il danno e meno rilevante l'elemento psicologico.

Anche quest'ultimo argomento rafforza la tesi di quanti sostengono che sia preferibile un unico inquadramento della responsabilità e del danno sotto la più stringente e comprensibile qualificazione contrattuale, considerato inoltre che la peculiarità della disciplina lavoristica, sotto il doppio profilo della tassatività ed inderogabilità, consente probabilmente di argomentare l'improspettabilità del concorso.

Secondo quanto disposto in via generale dall'art. 1225 c.c., anche la responsabilità contrattuale del datore di lavoro è limitata, quanto al danno risarcibile, ai soli
danni prevedibili.

La giurisprudenza, in particolare, ha già avuto modo di chiarire che la responsabilità diretta del datore per la lesione alla salute del lavoratore, secondo quanto disposto dall’art. 2087 c.c, èesclusa quando sono eccezionali, inevitabili ed assolutamente imprevedibili le conseguenze che in concreto scaturiscono dalla condotta tenuta in azienda.

Infatti, per accertare se una condotta umana sia causa di un determinato evento, ènecessario stabilire un confronto tra le conseguenze che, secondo un giudizio di probabilitàex ante, essa era idonea a provocare e le conseguenze in realtà verificatesi, le quali, ove non prevedibili e inevitabili, escludono il rapporto eziologico tra il comportamento umano e l'evento, sicché, per la riconducibilità dell'evento ad un determinato comportamento, non è sufficiente che tra gli stessi sussista un rapporto di conseguenza, occorrendo invece che tale rapporto integri gli estremi di una sequenza costante, secondo un calcolo di regolarità statistica, per cui l'evento appaia come una conseguenza normale dell'antecedente.

Da questo punto di vista, la tutela accordata al lavoratore potrebbe sembrare limitativa in confronto a quella garantita, invocandosi la responsabilità aquiliana, in relazione alla quale tale nesso eziologico non presenta la stessa pregnanza.

D'altra parte, viene correttamente ricordato che il limite della prevedibilità non è operante nel caso in cui l'inadempimento del datore sia accompagnato da dolo e, quindi, che è possibile riconoscere la responsabilità del datore sia nell'ipotesi in cui la lesione procurata al lavoratore è ascrivibile ad una condotta propria del datore, sia quando la lesione è conseguenza di una consapevole omissione del suo dovere di protezione.

Intanto, la sempre maggiore consapevolezza e conoscenza del fenomeno mobbing e la sensibilizzazione rispetto alle lesioni prodotte sulla persona sottoposta a vessazioni nei luoghi di lavoro, riducono di fatto in modo significativo il margine di operatività dei limiti stabiliti dall'art. 1225 c.c.. Peraltro siffatti limiti di prevedibilità e prevenibilità della condotta lesiva del singolo
mobber non sembrano seriamente invocabili, quanto meno nei casi di mobbing orizzontale.

Infatti, la prima pronuncia che ha sanzionato il comportamento aggressivo tenuto da un

superiore gerarchico nei confronti di un dipendente ha fatto proprio questo orientamento, abbandonando ogni diffidenza circa la tutela della salute psichica, colpita nell'ambito del rapporto di lavoro. Secondo tale sentenza, non è più consentito negare che il sorgere di patologie, a seguito di continui e reiterati atti perturbanti, che giungono a realizzare vessazioni nei riguardi del lavoratore, lungi dal rappresentare un esito eccezionale ed inaspettato, costituisce la "normale", dunque prevedibile, conseguenza di tali condotte.

Di seguito, una importante pronuncia della Corte di Cassazione ha chiarito che il contenuto dell'obbligo ex art. 2087 c.c.: "non può ritenersi limitato al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, riguardando altresì il divieto, per il datore di lavoro, di porre in essere, nell'ambito aziendale, comportamenti che siano lesivi del diritto all'integrità psicofisica del lavoratore".

Per completezza, bisogna dare atto che la giurisprudenza maggioritaria ritiene che sul datore di lavoro gravano sia il generale obbligo del
neminem laedere , espresso dall'art. 2043 c.c., la cui violazione è fonte di responsabilità extra-contrattuale, sia il più specifico obbligo di protezione dell'integrità psico-fisica del lavoratore sancito dall'art. 2087 c.c., ad integrazione ex lege delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro, la cui violazione è fonte di responsabilità contrattuale; sicché, il danno biologico - inteso come danno all'integrità psicofisica della persona in sè considerato, a prescindere da ogni possibile  rilevanza o conseguenza patrimoniale della lesione - può essere in astratto conseguente sia all'una che all'altra responsabilità. La riconduzione delle conseguenze risarcitorie all’una ovvero all’altra tipologia di responsabilitàdetermina, come giàprima detto, diversi regimi prescrizionali e probatori.Sotto quest’ultimo profilo, diventa imprescindibile accertare se il mobbing consegua alla violazione di un obbligo contrattuale ovvero a quello del naeminem laedere. Rileva, a tal fine, il comportamento datoriale.

Se, infatti, si trasferisce senza motivazione tecnica, si demansiona, si esclude dal processo produttivo o dall'accesso alla carriera si viola un obbligo di natura squisitamente contrattuale, o meglio, si viola, il principio generale dell'affidamento nell'esecuzione del  contratto, sia pur esso un contratto di lavoro.

Se invece, si verificano comportamenti al limite della legalità che nulla hanno a che fare con obblighi imposti contrattualmente al datore di lavoro o riconducibili a condotta propria dei dipendenti di pari grado che agiscono autonomamente [ad es. isolamento del soggetto, atteggiamento ostile dei colleghi, esclusione dalle piccole abitudini quotidiane (pausa caffè, saluto)], ci si è chiesto se soccorra l'art. 2087 c.c. o non si debba invocare l'art. 2043 c.c.

La disposizione contenuta nell’art. 2087 c.c., considerata norma di chiusura, a compendiare tutta la normativa legislativa e contrattualistica che impone misure di sicurezza dirette ad evitare ogni lesione all'integritàfisica del lavoratore, éstata, ormai per consolidata giurisprudenza, di merito e di legittimità interpretata nel senso piùampio che la lettura consente. Ne consegue che la responsabilitàextracontrattuale, alla luce dei principi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., puòconcorrere con quella contrattuale ex art. 2087 c.c., qualora la condotta violi diritti fondamentali del lavoratore e  l'azione si attui mediante il rapporto di lavoro e in dipendenza dello stesso a fronte di una condotta plurioffensiva èin potere del soggetto danneggiato di avvalersi, alternativamente, dell'una o dell'altra azione predisposta dalla legge.

Il principio che sembra ora applicato dalla Suprema Corte in tema di onus probandi in materia di mobbing è quello di una rigorosa certificabilità e dimostrabilità del nesso causale, sempre più difficile specie laddove il lavoratore vittima si trovi a lamentare danni derivatigli da una serie di comportamenti di ridotte dimensioni spazio-temporali se presi ciascuno singolarmente, ma assai rilevanti se visti, nell'ottica di una continuità e forse di una "programmaticità" in serie degli stessi, perciò stesso idonei a rivestire le caratteristiche di un'unica ripetuta condotta mobizzante.

2 – IL DANNO RISARCIBILE: IL CONFINE MOBILE DELLA TUTELA

Nella categoria del danno alla persona rientrano, in generale, tutti i danni originati da una lesione dell'integrità psico-fisica e che, almeno potenzialmente, ostacolino le attività realizzatrici della persona umana. Il diritto al risarcimento del danno alla persona trova fondamento nell'art. 2 Cost., così come affermato dalla stessa Corte Costituzionale.

All'interno di questa categoria vi sono due grandi insiemi, individuati in base alle conseguenze prodotte dalle lesioni.

2.1 – IL DANNO PATRIMONIALE

Un primo insieme riguarda i danni patrimoniali, ossia quelli che incidono sul reddito del soggetto, e comprende il danno emergente ed il lucro cessante.

Il danno emergente consiste in una diminuzione del patrimonio relativa a beni o situazioni di vantaggio di cui il soggetto era titolare precedentemente al verificarsi dell'evento lesivo conseguente al fatto illecito.

Il lucro cessante, invece, va inteso quale accrescimento patrimoniale in concreto pregiudicato o impedito dal fatto illecito.

2.2 – IL DANNO NON PATRIMONIALE O MORALE EX ART. 2059 c.c.

Il secondo insieme, per certi aspetti più complesso, riguarda i danni non patrimoniali e comprende tutti gli ingiusti turbamenti dello stato d'animo o gli squilibri o le riduzioni delle capacità intellettive della vittima.

L'art. 2059 c.c. stabilisce che il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge. Esso si sostanzia nel transeunte turbamento psicologico, nelle sofferenze spirituali, nei turbamenti dello stato d'animo, danno-conseguenza della lesione sofferta dal soggetto offeso.

Orbene, intorno a questa lapidaria disposizione codicistica, si è sviluppato un acceso dibattito ed è intervenuta più volta la Corte Costituzionale, chiamata più volte a valutare se l'art. 2059 c.c. violasse gli artt. 3 e 24 Cost. nella parte in cui, in correlazione con quanto disposto dall'art. 185 c.p., limita la risarcibilità dei danni non patrimoniali a quelli derivanti da fatti illeciti costituenti reato. Nello statuire che la norma non infrange la Costituzione, la Corte dichiara che le limitazioni poste dall'art. 2059 cc rientrano nella discrezionalità del legislatore. Le argomentazioni della Corte Costituzionale vengono messe in discussione oltre che dalla dottrina anche dalla Cassazione, che, dopo aver stabilito la natura non patrimoniale del danno biologico, esclude in materia l'applicabilità dell'art. 2059 c.c. (da riferire soltanto al danno morale) e fa applicazione dell'art. 2043 che, nel riferirsi al danno ingiusto, viene a ricomprendere sia l'ipotesi del danno patrimoniale, sia quella del danno non patrimoniale. Il fondamento di questa opzione interpretativa, è da rintracciare nel combinato disposto degli artt. 32 Cost. e 2043 c.c. che ha permesso di affermare che, dovendosi il diritto alla salute certamente ricomprendere tra le posizioni subiettive tutelate dalla Costituzione, non sembra dubbia la sussistenza dell'illecito, con conseguente obbligo della riparazione, in caso di violazione del diritto stesso.

Nell'ambito del diritto del lavoro, il risarcimento del danno genericamente morale, nel senso di non patrimoniale, è stato accordato in connessione diretta con fenomeni ricondotti esplicitamente alla figura del mobbing soltanto di recente, a seguito della emersione del nuovo fenomeno attraverso la doppia pronuncia del Tribunale di Torino.

In realtà, anche prima di questa pronuncia, la giurisprudenza, riconoscendo in capo al datore di lavoro che aveva abusato del potere di effettuare controlli sulla malattia del lavoratore, il reato di lesioni personali, aveva accordato la tutela ex art. 2059 cc.. Anche nel caso di demansionamento, superando i limiti dell'art. 2059 cc, viene riconosciuta la risarcibilità del danno morale connesso alla violazione del diritto del lavoratore a non subire modificazioni
in pejus delle proprie mansioni, in quanto la dequalificazione comporta comunque e nella minore delle ipotesi... la lesione di un interesse puramente morale del lavoratore, dedotto in contratto ai sensi degli artt. 1374 e 2103 c.c. Ancora in tema di dequalificazione, va segnalata la rilevanza assunta dai "motivi abbietti" (nel caso di una lottizzazione partitica), al fine di prospettare la lesione della dignità e libertà del lavoratore.

Il risarcimento del danno morale è stato ovviamente riconosciuto anche per la particolare ipotesi delle molestie sessuali.

2.3 - IL DANNO BIOLOGICO

Il danno biologico consiste nella menomazione dell'integrità psico-fisica della persona in quanto tale e ricorre allorché il comportamento illecito modifichi in senso peggiorativo il modo di essere del soggetto, arrecando molteplici riflessi pregiudizievoli riguardo alle sue funzioni naturali. E' ormai dato acquisito dalla giurisprudenza che il risarcimento del danno biologico prescinde da ogni riferimento all'attitudine del soggetto a produrre reddito, in quanto "la menomazione dell'integrità psico-fisica del soggetto costituisce quindi danno integralmente risarcibile di per se stesso”. L'autonomia del danno biologico rispetto alle altre eventuali conseguenze dannose ed il principio costituzionale della sua integrale e non limitabile risarcibilità determinano l'impossibilitàdi considerare esauriente non soltanto una tutela risarcitoria limitata alle perdite o riduzioni del reddito, effettive o potenziali, conseguenti alla menomazione dell'integritàpsico-fisica, ma anche una tutela risarcitoria che prenda in considerazione soltanto quanto riguarda l'attitudine a svolgere attivitàproduttive di reddito.

Il danno biologico si caratterizza, altresì per la sua duplice dimensione: dal punto di vista "statico" rappresenta la diretta diminuzione del benessere e della integrità psico-fisica, a prescindere da qualsiasi ulteriore "ricaduta" negativa sulla vita del soggetto leso; sotto il profilo "dinamico", d'altra parte, ricomprende anche le conseguenze negative che la lesione porta alle attività della vita quotidiana, attraverso le quali, in concreto, si manifesta l'efficienza psico-fisica del soggetto danneggiato.

2.4 – IL DANNO BIOLOGICO DA MOBBING: IL DANNO PSICHICO

Gli effetti pregiudizievoli del mobbing sulla salute della vittima, riguardano soprattutto il piano psichico e psicosomatico del soggetto. La rilevanza giuridica della componente psichica dell'integrità personale è già presente nella definizione di danno biologico data da Corte Cost. n. 184/1986 laddove si parla di "menomazione dell'integrità psicofisica dell'offeso": in tale sintetica espressione deve leggersi il riconoscimento di entrambe le componenti del bene salute, quella fisica e quella psichica. La lesione psichica, dunque, ha una sua autonoma rilevanza; essa rappresenta una delle forme in cui può manifestarsi il danno biologico.

Come avviene per la lesione fisica, anche ai fini del riconoscimento del danno biologico di natura psichica è dunque necessaria la prova della effettiva menomazione della salute, dell'insorgere di una patologia, ossia il concreto peggioramento del modo di essere della persona a causa di un disturbo psichico, determinato da una lesione psichica, cioè da un'ingiusta turbativa del suo equilibrio psichico.

Appare evidente come si possano, in concreto, presentare difficoltà nella individuazione del danno psichico ovvero di quello morale. Si tenga presente sul punto che il danno psichico, come "specie" del danno biologico richiede, ai fini della sua configurabilità, la sussistenza in concreto non di una mera sofferenza o turbamento, ma di una vera patologia e dunque di una lesione alla salute.

2.5 – IL DANNO ESISTENZIALE: LA TUTELA DELLA PERSONA OLTRE IL DANNO MORALE E IL DANNO BIOLOGICO

La tutela apprestata col risarcimento del danno non patrimoniale, di quello morale o biologico, lascia però un vuoto di tutela, una sorta di "zona d'ombra": l'art. 2059 cc non risulta, infatti, la norma più adatta a propiziare un'estensione dell'area di tutela della persona per lesioni a carattere non patrimoniale, almeno fino a quando resterà dominante l'interpretazione tradizionale che vuole quale presupposto indefettibile della risarcibilità del danno morale, la rilevanza penale della condotta dell'agente. D'altronde, le più recenti indicazioni normative e giurisprudenziali sul danno biologico, escludono ogni possibilità di ampliamento delle maglie di questa figura oltre i limiti della lesione alla salute, intesa come menomazione psicofisica in senso stretto, medicalmente accertata.

Proprio dall'esperienza maturata in tema di danno biologico e per colmare la "lacuna" di tutela della persona presente nell'ordinamento, la dottrina più recente, seguita anche dalla giurisprudenza più attenta, ha elaborato la categoria del
danno esistenziale, che consiste nella modificazione peggiorativa dell'insieme delle attività realizzatrici della persona, nell'alterazione di quell'universo di azioni, consuetudini, affezioni, attraverso cui l'individuo costruisce la propria identità, la propria esistenza.

I fautori di questa nuova figura di danno intendono dare con essa una risposta risarcitoria e, dunque, una tutela a "quel sommerso di mali ingiusti, sofferenze ignote all'ufficialità della responsabilità civile che aspetta di entrare nelle aule e finora esclusi dall'ambito di tutela apprestata dal danno morale e dal danno biologico”.

La tesi della risarcibilitàdel danno esistenziale affonda certamente le sue radici nella giurisprudenza in tema di danno biologico: con il danno esistenziale si vuol espandere ad ogni aspetto dell'esistenza quello che èstato fatto per la salute attraverso l'elaborazione della categoria del danno biologico. Al pari di questo, il danno esistenziale èsicuramente qualificabile come di natura non patrimoniale.

Esso, inoltre, viene a colmare lo spazio rimasto ancora aperto tra danno patrimoniale e non, risarcibile quest’ultimo a seguito della creazione del danno biologico. Infatti, Corte Cost. n. 184/1986, giàcitata, ha dichiarato che l'art. 2043 cc., correlato all'art. 32 Cost., va necessariamente esteso fino a ricomprendere il risarcimento, non soltanto dei danni in senso stretto patrimoniali, ma di tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attivitàrealizzatrici della persona umana, in considerazione del primario rango costituzionale del diritto alla salute. Il danno esistenziale intende offrire tutela e protezione a tutte le ipotesi in cui la persona sia offesa in relazione ad un altro diritto di rango costituzionale, riconosciuto alla persona.

Il danno esistenziale si profila come una vera e propria nozione di "chiusura", ricomprendente in séla tutela risarcitoria di tutti i diritti costituzionalmente garantiti diversi dal diritto alla salute indipendentemente dalle ricadute patrimoniali che il soggetto possa lamentare.

Risulta evidente, infatti, che la lesione subita dal lavoratore mobbizzato non potràricevere piena tutela, per quanto attiene al danno non patrimoniale, attraverso il risarcimento del danno morale e di quello biologico: da un lato, non èinfrequente che condotte pur offensive e
non iure non siano riconducibili, tuttavia, anche solo astrattamente, a fattispecie di reato (come si richiede, invece, secondo la tradizionale interpretazione data dell'art. 2059 cc); dall'altro, va osservato come non sempre, fortunatamente, in chi subisce condotte vessatorie insorge una vera e propria malattia, presupposto necessario, per il risarcimento del danno biologico.

Nonostante la difficoltà concreta di rintracciare gli elementi necessari per la risarcibilità, non si può negare che la persona ha subito un pregiudizio ingiusto, una lesione ad un bene primario dell'esistenza, che richiede una riparazione.

La figura del danno esistenziale, pertanto, utilizzando il combinato disposto degli artt. 2043 cc. e 2 e ss. Cost., garantisce il risarcimento non solo dei danni in senso stretto patrimoniali ma di tutti i danni che potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana. Essendo le norme costituzionali attributive dei diritti fondamentali della persona, pienamente e direttamente operanti anche nei
rapporti tra privati (c.d. drittwirkung), non è ipotizzabile limite alcuno alla risarcibilità della correlativa lesione ex art. 2043 cc..

Il riconoscimento del danno esistenziale è stato consacrato dalla Cassazione che ha disposto il risarcimento in un caso di mancata concessione di ferie e di riposi ai dipendenti di un'azienda di trasporti. La Corte, nella fattispecie, ha stabilito che il mancato godimento delle ferie "può consistere nella lesione dell'integrità psico-fisica, cioè nel danno alla salute o danno biologico in senso stretto, oppure in quello che più genericamente si designa come "danno esistenziale", al fine di coprire tutte le compromissioni delle attività realizzatrici della persona umana (ad es. impedimenti alla serenità familiare, al godimento di un ambiente salubre e di una situazione di benessere, al sereno svolgimento della propria vita lavorativa)".

La S.C. ha distinto tra "
lesione dell'integrità fisica o psichica", intesa come patologia oggettiva, che si accerta secondo precisi parametri medico-legali, e "pregiudizio esistenziale" che senza ridursi al mero patema d'animo interno, richiama tuttavia disagi e turbamenti di tipo soggettivo. Ha affermato quindi, che tale distinzione "non vale ad escludere il c.d. danno esistenziale dall'ambito dei diritti inviolabili, poiché non è solo il bene alla salute a ricevere una consacrazione costituzionale sulla base dell'art. 32 Cost., ma anche il libero dispiegarsi delle attività dell'uomo nell'ambito della famiglia o di altra comunità riceve considerazione costituzionale ai sensi degli artt. 2 e 29 Cost.. pertanto, tanto i pregiudizi alla salute, quanto quelli alla dimensione esistenziale, sicuramente di natura non patrimoniale , non possono essere lasciati privi di tutela risarcitoria, sulla scorta di una lettura costituzionalmente orientata al sistema della responsabilità civile”.

Nel passaggio dal danno biologico al danno esistenziale, bisogna però rilevare che secondo parte della dottrina, il ricorso al danno in re ipsa deve essere inteso come strumento tecnico utile a sganciare il discorso dalle "strettoie patrimonialistiche" e non come strumento per favorire una risarcibilità automatica. Ogni opzione a favore della risarcibilità automatica del c.d. danno minaccia, più o meno recisamente, sostanziali snaturamenti dell'istituto in questione, proprio perché risulta "calpestato" il cardine intorno al quale ruota l'intero sistema dei fatti illeciti, le cui forme rimediali sono destinate a non poter operare se non in funzione di neutralizzazione delle perdite sofferte concretamente dalla vittima..

3- IL MOBBING COME TECNOPATIA NON TABELLATA

Ulteriore forma di tutela in favore del lavoratore che abbia subito mobbing, può realizzarsi con l’attrazione di quest’ultimo nella sfera delle tecnopatie non tabellate. Già prima  dell’intervento adesivo a tale soluzione da parte dell’INAIL, si era auspicato, de iure condendo, la ricomprensione del mobbing tra le malattie professionali, invocandosi, da un lato, le conoscenze acquisite, nel corso dell'ultimo decennio, dalla medicina legale e, dall’altro, gli orientamenti piùrecenti della Corte Costituzionale, giacchénel mobbing propriamente inteso, sussisterebbe quella violazione degli interessi tutelati dagli artt. 2087 e 2043 cc, in collegamento con gli artt. 2, 3, 4, 32, 35, 37 e 41 Cost.

Ovviamente, ai fini della classificazione del fenomeno come tecnopatia, dovranno ricorrere i requisiti specificatamente indicati negli artt. 2 e 3 DPR n. 1124/1965.

In primo luogo, deve ricorrere l'attinenza causale dell'ambiente lavorativo (causa o circostanza concomitante).

In secondo luogo, "le lesioni da mobbing" devono essere suscettibili di specifica valutazione medico-legale, secondo i noti criteri che sostanziano il rapporto di causa-effetto (efficienza lesiva, criterio cronologico, criterio topografico, continuitàfenomenologica, esclusione di altre cause).

Ove la patologia sofferta dal mobbizzato risultasse diretta conseguenza dei comportamenti persecutori subiti sul lavoro, il mobbing potrebbe ottenere la qualificazione di malattia professionale non gabellata e, in tale veste, risultare indennizzabile. D'altra parte, non potràessere seriamente opposto neppure il diritto di rivalsa dell'INAIL nei confronti del datore di lavoro, responsabile dell'evento lesivo, stante il collegamento del mobbing con l'attivitàlavorativa, sia sotto il profilo cronologico che sotto quello topografico, una volta che siano accertate sussistenti le condizioni richiamate, in caso di mobbing sia verticale (agire intenzionale) che orizzontale.

A tale opzione interpretativa ha recentemente aderito l'INAIL, che ha accolto per la prima volta la richiesta di indennizzo per "sindrome da mobbing" (malattia professionale non tabellata) proveniente da un dipendente di un'azienda privata, posizione poi confermata con delibera del C.di A. 26/07/2001.

Si è quindi, raggiunta una terza conclusione

L’analisi dei riferimenti normativi richiamabili nonchédelle tecniche di tutela invocabili in caso di mobbing conduce ad una singolare conclusione e cioèl’impossibilitàdi accordare prevalenza all’una piuttosto che all’altra delle varie soluzioni prospettate, tutte astrattamente percorribili, rimettendosi al lavoratore la scelta della norma da invocare e della tutela da reclamare, con l’assunzione in base alla scelta fatta delle conseguenze che ne derivano in termini di onere probatorio e di soddisfazione (id est risarcimento) conseguibile; l’uno e l’altro rimessi verosimilmente alla scelta del difensore, onerato di una preparazione in materia che consenta la scelta piùopportuna in relazione alla specificitàdella fattispecie affidata al suo patrocinio.

Conclusioni

La disamina innanzi effettuata conduce alle seguenti conclusioni:

1- all'abuso del diritto può farsi ricorso se si parte dalla necessità di arginare il potere imprenditoriale affinché questo non venga esercitato in modo arbitrario. Lo spazio naturale di riferimento concettuale e di operatività dell'abuso nei rapporti obbligatori è uno spazio individualistico, o più esattamente interindividuale. L'abuso si inserisce nelle situazioni di supremazia negoziale, al fine di correggerle e temperarle in un senso che suona come ripristino di un'effettiva parità negoziale, per gli spazi già non coperti dall'azione congiunta di legge e contrattazione collettiva;

2- Se è vero, che la categoria giuridica nella quale sussumere i comportamenti "mobbizzanti" è verosimilmente quella dell'abuso del diritto e i parametri che soccorrono nella valutazione della condotta datoriale sono le clausole di correttezza e buona fede ed ancor prima, un generale principio di ragionevolezza, si deve altresì considerare che il mobbing più che residuale, può considerarsi categoria riassuntiva di tutti i comportamenti strumentalmente finalizzati all'illecito. Si vuol dire che, in alcuni casi, il datore di lavoro o con comportamenti perfettamente conformi alla legge e quindi teoricamente privi di antigiuridicità, o con condotte socialmente riprovevoli ma prive di una sanzione giuridica o con comportamenti violativi di norme e già sanzionati autonomamente, può perseguire finalità "altre" e ulteriori, in genere identificabili con l'espulsione del lavoratore, spingendolo alle dimissioni (e ciò accade prevalentemente nell'impiego privato) ovvero con la sua emarginazione nell'ambiente di lavoro (è quanto accade prevalentemente nell'impiego pubblico).

La
ratio della tutela rispetto al mobbing è da rinvenire, pertanto, nella volontà di perseguire e punire quelle condotte che abbiano un quid pluris di antigiuridicità rispetto a quelle tipizzate o già ex se sanzionate dal legislatore o individuarne altre "atipiche" ma tutte ugualmente lesive della dignità della persona del lavoratore e volte alla realizzazione di finalità illecite. L'elemento persecutorio e intrinsecamente illecito del mobbing, cioè il quid pluris di offensività giustifica, peraltro, il risarcimento del danno "ulteriore" (rispetto alla oggettiva vulnerazione del rapporto contrattuale) arrecato al lavoratore.

3- l'analisi dei riferimenti normativi richiamabili nonché delle tecniche di tutela invocabili in caso di mobbing conduce ad una singolare conclusione e cioè l’impossibilità di accordare prevalenza all’una piuttosto che all’altra delle varie soluzioni prospettate, tutte astrattamente percorribili, rimettendosi al lavoratore la scelta della norma da invocare e della tutela da reclamare, con l’assunzione in base alla scelta fatta delle conseguenze che ne derivano in termini di onere probatorio e di soddisfazione (id est risarcimento) conseguibile;

l’uno e l’altro rimessi verosimilmente alla scelta del difensore, onerato di una preparazione in materia che consenta la scelta piùopportuna in relazione alla specificitàdella fattispecie affidata al suo patrocinio.