A. Iacoviello, P.G. Iacoviello, E. Cerullo, P. Di Palma, M.C. Ma



Il mobbing in Italia e le esperienze degli altri paesi comunitari: aspetti previdenziali e giuridico-normativi.



Il mobbing in Italia e le esperienze degli altri paesi comunitari: aspetti previdenziali e giuridico-normativi.


 

Dr. Pietro G. IACOVIELLO
Dirigente Medico II Livello
Il mobbing in Italia e le esperienze
degli altri paesi comunitari:
aspetti previdenziali e giuridico-normativi.
Antonella IACOVIELLO
dott.sa in Scienze del Lavoro
Pietro Gaetano IACOVIELLO
Dirigente medico 2° livello INAIL
Ermanno CERULLO
Dirigente medico 1° livello INAIL
Pasquale DI PALMA
Dirigente medico 1° livello INAIL
Maria Carmela MASCARO
Dirigente medico 1° livello INAIL
Alberto CITRO
Medico del Lavoro - CDPR Regionale Campania - Napoli


Questo studio propone un'analisi del "mobbing", un particolare fenomeno rilevato in ambito lavorativo che consiste in una forma di molestia non di tipo fisico bensì caratterizzata dalla ripetizione per un lungo periodo, da parte di una o più persone, di atteggiamenti ostili basati sulla comunicazione che hanno come conseguenza l'isolamento sociale della "vittima" designata. Sono prese in esame le principali cause che portano al verificarsi del mobbing con particolare attenzione alle variabili del clima organizzativo e sono trattati anche gli aspetti riguardanti le possibili misure di intervento e di prevenzione da impiegare contro il diffondersi di questo fenomeno nell'ambiente di lavoro.
E' stata presa in rassegna la letteratura internazionale esistente sull'argomento, con particolare riferimento alle ricerche svolte nei paesi scandinavi (Svezia, Norvegia, Finlandia) e in Germania dove questo fenomeno è stato indagato approfonditamente. Per meglio comprendere gli aspetti  legati alla prevenzione, è stata analizzata anche la legislazione vigente nei paesi europei in materia di mobbing con particolare attenzione alle leggi presenti nell'ordinamento Svedese.

Il mobbing in Italia e le esperienze degli altri Paesi


Il terzo Studio europeo sulle condizioni di lavoro condotto dalla Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (Fondazione di Dublino), pubblicato nel dicembre 2000 basato su interviste condotte direttamente su un campione di 21.500 lavoratori negli Stati membri rileva che l'8 %dei lavoratori dell'Unione, vale a dire 12 milioni di persone, riferisce di essere stato oggetto di mobbing sul posto di lavoro negli ultimi 12 mesi. A titolo di paragone si noti che il 4 %riferisce di essere stato oggetto di violenze fisiche, mentre il 2 %è stato oggetto di molestie sessuali sul lavoro.
In testa alla classifica la Gran Bretagna con il 16 %di vittime, poi la Svezia con il 10, la Francia e la Finlandia con il 9, l'Irlanda e la Germania con l'8, e l'Italia con il 4 %.
Lo studio della Fondazione di Dublino citata inizialmente include una lunga serie di fattori relativi all'ambiente di lavoro, fra cui la violenza e le molestie. In tale settore (nel quale la Fondazione inserisce il mobbing) vi sono grandi differenze fra gli Stati membri, il che secondo la Fondazione dipende da un flusso ridotto di informazioni in alcuni paesi, da un maggiore grado di consapevolezza in altri e da differenze fra i sistemi giuridici nonché a livello culturale, cosa che può influire sulla percezione che si ha di una data questione. Il risultato dello studio condotto negli Stati membri mostra come le donne siano maggiormente oggetto di mobbing rispetto agli uomini (9%contro 7 %), e come i precari lo siano in misura maggiore rispetto a chi ha un impiego fisso.
Secondo lo studio, la percentuale più elevata di persone che subiscono il mobbing è localizzata nell'amministrazione pubblica (13 %), ma la percentuale è alta anche fra i dipendenti del settore terziario e commerciale (11 %) e bancario (10 %). Dalle valutazioni e dagli studi nazionali emergono inoltre altre categorie professionali e settori dell'economia che sono ad alto rischio. La mancanza di sicurezza nelle condizioni di lavoro è, secondo la Fondazione di Dublino, una delle cause principali del proliferare di diverse forme di violenza sul posto di lavoro, fra le quali la Fondazione annovera il mobbing.
La Fondazione di Dublino ritiene che le vittime di mobbing siano più colpite dallo stress di quanto non lo siano i lavoratori in generale. Il 47 %delle persone oggetto di mobbing sostiene di avere un lavoro stressante, mentre fra la totalità degli intervistati tale percentuale è del 28 %. Le assenze per malattia sono più frequenti fra le persone vittime di mobbing (34 %) rispetto alla totalità degli intervistati (23 %).In un'analisi specifica dei dati nazionali riportati nello studio sull'ambiente di lavoro condotto nel 1999 in Svezia, viene stabilito un nesso fra stress e mobbing.
Se guardiano invece nello specifico la situazione del nostro paese si può notare che sono oltre un milione, forse anche un milione e mezzo, secondo una statistica europea ed in virtù delle ricerche della prestigiosa Clinica del Lavoro "L. Devoto" di Milano, gli italiani malati di mobbing, molto più al Nord (78%) che al Centro (20%) e al Sud (8%): ben il 25% dei dipendenti sarebbe esposto al mobbing e 7-8 casi al giorno, in media, risultano presentarsi al centro del disadattamento lavorativo della Clinica del Lavoro succitata per veri o presunti danni da mobbing.
In testa, tra i più colpiti: gli impiegati; seguono nell'ordine, operai, e ora anche i quadri e dirigenti.
Per fronteggiare il fenomeno mobbing non è sufficiente il solo intervento giudiziario, che ha l'insuperabile difetto di non poter prevenire il danno, ma solo offrirne un ristoro, sia esso in forma specifica o per equivalente.
E' palese che se si vogliono evitare i gravi danni che il mobbing provoca, non solo alla salute e alla personalità del lavoratore, ma anche alla società, in termini di maggiori costi di intervento terapeutico e riabilitativo, e alla stessa impresa, in termini di perdita di produttività, sono necessari rimedi di natura preventiva che possono evitare l'insorgere del problema o troncarlo sul nascere.
In altri Paesi dell'Unione europea questo genere di meccanismi di prevenzione hanno già raggiunto notevole efficacia e diffusione.

La situazione europea

a - Paesi scandinavi
I paesi scandinavi sono stati i pionieri del pieno riconoscimento normativo del mobbing grazie al fondamentale contributo fornito dagli studi del Prof. Heinz Leymann negli anni '80. Il riferimento alle implicazioni psicologiche che un ambiente di lavoro umanamente ostile può avere sulla salute  delle persone era presente, nelle leggi scandinave sull'ambiente di lavoro, già dalla seconda metà degli anni '70: più precisamente dal 1975 in Danimarca, e a partire dal 1977 in Norvegia e Svezia.
L'esplicito richiamo al fenomeno delle molestie morali all'interno dei testi normativi si è avuto, però, soltanto in tempi più recenti, tra il 1993 e il 1994, in seguito a specifici studi scientifici in materia.
In Svezia, l'Ente nazionale per la Salute e la Sicurezza Svedese ha emanato, in data 21 settembre 1993, una specifica ordinanza, entrata in vigore il 31 marzo 1994, recante misure contro qualsivoglia forma di "persecuzione psicologica" negli ambienti di lavoro, intesa quali "..ricorrenti azioni riprovevoli o chiaramente ostili intraprese nei confronti di singoli lavoratori, in modo offensivo, tali da determinare il loro allontanamento dalla collettività che opera nei luoghi di lavoro". L'ordinanza affida al datore di lavoro la principale responsabilità riguardo all'organizzazione e programmazione dell'attività di lavoro in modo da prevenire ed impedire il verificarsi di fenomeni di vittimizzazione. Attribuisce, inoltre, particolare importanza, pari a quella dei fattori di ordine fisico o tecnico, agli aspetti psicologici, sociali e organizzativi dell'ambiente di lavoro.
Per la prima volta, in un provvedimento con valore normativo, è stato fatto esplicito riferimento al concetto di "mobbing" o "bossing".
Il provvedimento fornisce ai datori di lavoro precise indicazioni su come affrontare il problema  della persecuzione psicologica in via preventiva attraverso il sostegno dei comitati aziendali e l'interazione continua tra la dirigenza e i dipendenti. In particolare l'ordinanza prevede alcuni principi fondamentali cui i datori di lavoro devono attenersi nell'organizzazione dell'attività lavorativa della loro azienda:
1) il datore di lavoro è tenuto a pianificare ed organizzare il lavoro in modo da prevenire, per quanto possibile, ogni forma di persecuzione nei luoghi di lavoro;
2) il datore di lavoro deve informare i lavoratori, con forme adeguate ed inequivocabili, che queste forme di persecuzione non possono essere assolutamente tollerate nel corso dell'attività lavorativa;
3) devono essere previste procedure idonee ad individuare immediatamente i sintomi di condizioni di lavoro persecutorie, l'esistenza di problemi inerenti all'organizzazione del lavoro o eventuali carenze per quanto riguarda la cooperazione che possono costituire il terreno adatto all'insorgere di forme di persecuzione psicologica durante l'attività lavorativa;
4) qualora poi, nonostante l'attività preventiva, si verifichino ugualmente fenomeni di mobbing, dovranno essere adottate immediatamente efficaci contromisure volte anche ad individuare le eventuali carenze organizzative causa dell'insorgere del fenomeno;
5) il datore di lavoro dovrà, infine, prevedere forme di aiuto specifico ed immediato per le vittime del mobbing.
L'intervento normativo svedese può, dunque, essere considerato un vero e proprio codice comportamentale per la gestione delle relazioni sociali all'interno dei luoghi di lavoro.
Diversamente dalla Svezia, la Norvegia ha preferito optare per una tutela a livello legislativo del mobbing attraverso l'introduzione di una specifica previsione nella legge sulla tutela dell'ambiente di lavoro del 1977 ad opera del § 12 della legge 24 giugno 1994, n. 41, che così recita: "..I lavoratori non devono essere esposti a molestie o ad altri comportamenti sconvenienti.....". E' evidente il diverso approccio seguito dai due legislatori: mentre il regolamento svedese menziona  espressamente il mobbing, la legge norvegese contiene un riferimento più generico e parla più semplicemente di molestie e comportamenti sconvenienti da cui il lavoratore deve essere difeso. Al riguardo non si è mancato di evidenziare come una previsione così generica rischi di ricomprendere molteplici ipotesi di vessazioni ai danni dei lavoratori non solo di matrice interna all'organizzazione aziendale ma anche quelli derivanti da cause esterne. A queste legittime osservazioni risponde direttamente la relazione di accompagnamento alla legge, nella quale si afferma che l'ampia portata della definizione è il risultato di una precisa scelta legislativa che mira a garantire una tutela a tutto campo del lavoratore sul luogo di lavoro ed in particolare è finalizzata ad "assicurare un ambiente di lavoro che non esponga i lavoratori a sforzi psicologici di entità tali da influire negativamente sul rendimento e sullo stato di salute".
In realtà, anche prima dell'intervento legislativo del 1994, le vittime di mobbing potevano ottenere tutela giuridica nell'ordinamento norvegese. Si era, infatti, formata una copiosa giurisprudenza in materia tra cui si segnala in particolare la pronuncia della Suprema Corte norvegese del 27 maggio 1993, nella quale il mobbing viene definito quale "fenomeno inclusivo di tutte le forme di molestia, tormenti, esclusioni, tendenze a stuzzicare o scherzare in modo offensivo ed umiliante che si protraggono continuativamente per un certo tempo". In tale occasione la Corte ha ritenuto di poter ravvisare il fondamento giuridico del diritto del lavoratore al risarcimento del danno fisico e psichico subito a seguito dei comportamenti vessatori del datore di lavoro o dei colleghi, nelle norme sulla responsabilità per colpa con tutte le problematiche che ciò comporta sul lato probatorio per l'affermazione dell'imputabilità del fatto sotto i profili soggettivi (dolo o colpa del soggetto agente) ed oggettivi (verifica della sussistenza del nesso causale tra azione ed evento).
In relazione alla concezione scandinava del mobbing, è importante rilevare come alla categoria delle molestie sia ricondotto anche il fenomeno delle molestie sessuali a differenza di quanto avviene nella normativa di altri stati comunitari, come la Francia e la Germania, che comprendono, invece, le molestie sessuali nella categoria delle discriminazioni in ragione del sesso. La portata discriminatoria del comportamento, infatti, non inerisce alla molestia sessuale in sé, ma all'eventuale comportamento susseguente che possa avere ripercussioni sul rapporto di lavoro (mancata assunzione e licenziamento che sia conseguenza del rifiuto del molestato). In realtà, la peculiarità delle molestie sessuali è tale da richiedere un intervento normativo autonomo, distinto dalle tutele relative all'ambiente di lavoro o alla discriminazione in ragione del sesso. Porre l'equivalenza sostanziale tra infortuni e molestie sessuali significa rendere la disciplina alquanto debole, in quanto si priva il fenomeno della specificità d'intervento che richiede.
Un chiarimento riguardo al concetto di molestia sessuale è fornito dall'accordo politico, in quattro punti, che è stato raggiunto l'11 giugno 2001 tra il Consiglio dei ministri del Lavoro e della Sicurezza sociale e la Presidenza svedese dell'Unione europea con lo scopo di modificare la direttiva 76/207/CEE sulla parità di opportunità tra uomo e donna. Per la prima volta viene chiarito che la molestia sessuale è uguale alla discriminazione sulla base del sesso. Gli Stati Membri devono promuovere nei fatti il principio di uguale trattamento tra uomini e donne, creando le condizioni per poter conoscere e perseguire le condotte discriminatorie. Punto importante dell'accordo è la previsione dell'inversione dell'onere probatorio per effetto della quale ricade ora sul molestatore l'onere di provare che non vi sia stata molestia.
Una analisi critica della norma svedese, tra le più all'avanguardia nella materia, induce ad una riflessione. Si può assumere che esse possono forse adattarsi a quei paesi che hanno evidentemente raggiunto livelli così avanzati di sviluppo nella convivenza civile, che per essi anche una norma di indirizzo può bastare a contenere il fenomeno (pur conservando un certo scetticismo rispet to ai risultati che si possono conseguire statuendo norme che, violate, non prevedano serie conseguenze).
Esse paiono animate da una filosofia che si potrebbe definire nel lin guaggio corrente «paternalistica» per la quale la sola even tualità considerata quale causa di mobbing è che le molestie morali siano legate ad incompatibilità caratteriali o a spic ciole questioni di ostilità personale, comunque ricomponi bili con una «chiacchierata confidenziale con la vittima» (di cui alla sez. V della legge) che termini con le «scuse» del mobber.
In questa legge non si tiene conto per esempio della possibilità che il mobbing, in alcuni casi, (per esempio, fusioni di imprese con conseguente esubero di dipendenti) possa essere «strategico», con finalità dolosamente prede terminate alla riduzione dell'organico (attraverso l'induzio ne
all'autolicenziamento).
Nella nostra consolidata democrazia è inconcepibile che la tutela possa essere svolta da parte delle figure di controllo (che si identificano con lo Stato) attraverso forme che da un lato sono di interferenza ingiustificata nei rapporti interper sonali, mentre dall'altro non individuano compiutamente modalità repressive del fenomeno, compito quest'ultimo, che per la nostra concezione del diritto, ha reale pertinenza a praticarsi da parte dell'organismo dello Stato.
Quest'ultimo cioè deve intervenire nei luoghi di lavoro reprimendo azioni che rilevano quali l'ingiuria, la diffamazione, la minaccia, l'abuso d'ufficio, non affidando queste ad improbabili risoluzioni interlocutorie tra le parti. La legge svedese affronta il problema mobbing in modo quanto mai bonario, prevedendo peraltro anche for me di assistenza alla vittima, ma non garantisce una efficace lotta al fenomeno delle molestie morali, né indica regole e sanzioni, finendo quindi per assumere un atteggiamento meramente assistenziale, laddove i «fatti» si siano già compiuti. Più che una legge vera e propria pare una sorta di «codice comportamentale», utile senza dubbio, contenente indicazioni (pur esse comportamentali) ai preposti ed ai datori di lavoro.
Compito di una legge è invece quello di dare un «peso» a ciascuna delle figure delittuose evidenziate, al fine di indicare le fattispecie che qualificano le molestie morali e statuirne la punibilità, considerandone il carattere di parti colare gravità derivante dal perpetrarsi delle stesse non in un luogo qualsiasi, ma in quello appunto del lavoro, nel quale lo Stato è chiamato ad apportare tutela.
b - Austria e Germania
Esplicita menzione del termine mobbing è rinvenibile nel diritto austriaco all'interno del piano d'azione per la parità uomo - donna approvato il 16 maggio 1998. Il Piano, all'interno delle misure per la tutela della dignità nel luogo di lavoro, così recita: "Tra i comportamenti che ledono la dignità delle donne e degli uomini nel luogo di lavoro vanno annoverati in particolare le espressioni denigratorie, il mobbing e la molestia sessuale. Le collaboratrici devono essere edotte sulle possibilità giuridiche di tutela delle molestie sessuali".
Diversamente dall'ordinamento austriaco, quello tedesco non prevede attualmente alcuna specifica normativa a difesa delle vittime di mobbing. Al lavoratore vittima di condotte mobbizzanti viene comunque garantita tutela giuridica attraverso l'applicazione di normative di di carattere generale poste a garanzia della salute e sicurezza dei lavoratori. Al riguardo si segnalano in particolare alcune norme contenute nella stessa Costituzione Federale e nel Codice Civile tedesco (Burgerliches Gesetzbuch) ma gli strumenti più specifici per la prevenzione e la repressione del mobbing sono rinvenibili nei seguenti testi: il "Betriebsverfassungsgesetz" (BetrVG) del 23 dicembre 1988, il "Hessisches Personalvertretungsgesetz" (HPVG) ed il "Bundes Personalvertretungsgesetz" (BpersVG).
Tra i diritti fondamentali dell'individuo elencati dalla Costituzione Federale i seguenti articoli costituiscono la base giuridica per la tutela di ogni lavoratore molestato:
ô­ art.1. (1) La dignità dell'uomo è inviolabile. Rispettarla e proteggerla è dovere di ogni Stato. (....);
ô­ art.2. (1) Tutti hanno diritto di esprimere liberamente la propria personalità, purché non violino i diritti altrui e non siano contrari alle regole del buon costume e dell'ordine pubblico.
(2) Tutti hanno diritto alla vita e all'incolumità fisica. La libertà della persona è inviolabile.
ô­ art.3. (1) Tutti sono uguali davanti alla legge. Agli uomini e alle donne sono riconosciuti uguali diritti. (2) Nessuno può essere privilegiato o danneggiato per sesso, origine, razza, lingua, opinioni politiche e religiose. Nessuno può essere svantaggiato sulla base di impedimenti fisici.
Un principio fondamentale in materia è stabilito dal codice civile tedesco (Burgerliches Gesetzbuch) del 1896, che all'art. 618 prevede che "il creditore ha l'obbligo di predisporre le condizioni affinché il debitore sia protetto contro i pericoli per la vita e la salute nella misura in cui lo consenta la misura della prestazione": una previsione che, nei rapporti tra lavoratore e datore di lavoro, impone a quest'ultimo di adottare ogni misura necessaria per garantire la sicurezza e l'incolumità del prestatore nei luoghi di lavoro.
Il Burgerliches Gesetzbuch è stato ribadito cento anni dopo la sua approvazione dall'Arbeitsschutzgesetz del 7 agosto 1996, che rappresenta una sorta di norma speculare del nostro decreto legislativo 626/94 che recepisce in Italia la direttiva del Consiglio del 1989, 89/391/CEE, concernente l'attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro. L'Arbeitsschutzgesetz affronta indirettamente la questione del mobbing laddove si occupa dei difetti organizzativi del lavoro, delle manchevolezze nella conduzione aziendale e dei complessi rapporti sociali, che possono essere alla base dei danni alla salute e, quindi, anche del mobbing.
Una tutela più specifica contro i fenomeni del mobbing nei luoghi di lavoro viene, come già anticipato, fornita da normative più specifiche come il Betriebsverfassungsgesetz (BetrVG) il "Hessisches Personalvertretungsgesetz" (HPVG) ed il "Bundes Personalvertretungsgesetz" (BpersVG che contiene principi per il trattamento dei dipendenti). Si tratta per lo più di forme dicura ed assistenza preventiva contro il mobbing.
L'art 75 del BetrVG e l'art 67 del BpersVG stabiliscono che il datore di lavoro ed il Consiglio d'azienda sono tenuti a tutelare e a promuovere la libera espressione della personalità dei dipendenti dell'azienda. In particolare è previsto che il Consiglio d'amministrazione (Betriebsrat) e i datori di lavoro siano obbligati a tenere colloqui mensili e ad attivare eventuali procedure di conciliazione all'interno dell'azienda.
L'art. 80 del BetrVG attribuisce, poi, al Consiglio d'azienda il compito di proporre al datore di lavoro le misure che possano servire all'azienda e alla comunità; misure che il datore di lavoro è obbligato ad adottare. Gli artt. 62 del HPVG e 68 del BpersVG, inoltre, riconoscono: 1) il diritto del datore di lavoro, nell'ambito del suo potere-dovere di sorveglianza, di interrogare i dipendenti, anche attraverso questionari anonimi, sui comportamenti adottati sui luoghi di lavoro e in generale su ogni elemento che potrebbe avere attinenza con eventuali fenomeni di mobbing nell'ambiente di lavoro; 2) il diritto dei lavoratori a ricorrere al datore di lavoro contro comportamenti mobbizzanti; 3) il dovere del Consiglio di prendere in esame tali ricorsi con la possibilità di autorizzare il datore di lavoro a raggiungere forme di conciliazione. Il Betriebsverfassungsgesetz (BetrVG) riconosce a tutti il diritto di ricorrere al datore di lavoro.
Contro il mobbing si può comunque richiamare anche la responsabilità contrattuale del datore di lavoro per inadempienze del contratto di lavoro.
Molto interessante è, infine, il disposto dell'104 del BetrVG che prevede che il Consiglio d'azienda possa pretendere l'allontanamento o anche il licenziamento del lavoratore che abbia disturbato la pace aziendale ripetutamente e volontariamente. Si tratta di una previsione che si presenta molto utile nei casi di mobbing c.d. orizzontale in cui l'attività molesta è esercitata da colleghi di lavoro. Il consiglio di azienda, accertata che la causa dei turbamenti alla quiete lavorativa è da imputare al comportamento vessatorio di uno o più lavoratori potrà, infatti, deciderne il licenziamento.
La difficoltà nella valutazione giuridica di una situazione di mobbing scaturisce dalla complessità del fenomeno che presenta una molteplicità di aspetti comportamentali che in una prima fase possono risultare socialmente accettabili in quanto rientranti nei limiti del "consentito" ma oltre una certa soglia tale connotazione si perde. L'onere di provare il carattere molesto del comportamento, non si dimentichi, grava sempre sul mobbizzato.
Per il lavoratore tedesco molestato si apre, in alcuni casi, anche la via della tutela penale qualora la condotta vessatoria rivesta i caratteri di un vero e proprio reato quali le lesione personali sanzionate dall''art. 223 dello Strafgesetzbuch, l'ingiuria e l'oltraggio secondo l'art. 185 del StGB, il discredito secondo l'art. 186 dello StGB, la diffamazione in base all'art. 187 dello StGB oppure la violenza privata secondo l'art. 240 dello StGB. In questi casi il lavoratore dovrà presentare una apposita denuncia alla polizia o al tribunale di prima istanza oppure la querela per l'attivazione del procedimento penale.
Qualora, infine, le molestie patite dal lavoratore abbiano connotazione a sfondo sessuale, il Beschaftigtenschutzgesetz tedesco dispone che: "Il datore di lavoro e i dirigenti devono tutelare i dipendenti da molestie sessuali nel luogo di lavoro. Tale tutela include anche misure preventive.
Molestia sessuale è ogni comportamento a connotazione sessuale che lede la dignità dei dipendenti sul lavoro: 1) comportamenti sanzionati dal codice penale; 2) comportamenti a connotazione sessuale che sono chiaramente respinti dalla persona molestata. La molestia costituisce una violazione degli obblighi contrattuali ed illecito disciplinare".
c - Svizzera
Anche in Svizzera non è stata, per ora, emanata alcuna legge specifica sul mobbing. Al lavoratore vittima di comportamenti molesti l'ordinamento svizzero garantisce, comunque, forme di tutela adeguate attraverso l'applicazione di norme generali poste a tutela della sua salute fisica e psichica dalla legge federale sul lavoro, dal codice delle obbligazioni, dalla legge federale sull'uguaglianza tra donne e uomini nonché da alcune disposizioni del codice penale.
a) tutela pubblicistica
Cominciando con l'analizzare la legge federale svizzera sul lavoro, l'art. 6, applicabile sia ai lavoratori delle imprese private sia ai pubblici dipendenti, così stabilisce:  "Il datore di lavoro deve prendere tutti i provvedimenti, tecnicamente utilizzabili ed adeguati alle condizioni d'esercizio dell'impresa, che in base all'esperienza si reputano necessari per proteggere la salute dei lavoratori. Egli deve inoltre adottare tutte le misure che si rendano necessarie per proteggere l'integrità personale dei lavoratori.
Egli deve segnatamente apprestare gli impianti ed organizzare il lavoro in modo da preservare il più possibile i lavoratori dai pericoli per la salute.
Il datore di lavoro fa collaborare i lavoratori alle misure di protezione della salute. Questi sono tenuti a collaborare con l'imprenditore all'applicazione delle prescrizioni sulla protezione della salute".
L'ordinanza n. 3, applicativa della legge federale sul lavoro, precisa poi quali sono i settori in cui il datore di lavoro deve intervenire a garanzia della salute dei lavoratori:"Il datore di lavoro è tenuto ad adottare tutte le misure necessarie per assicurare e migliorare la protezione della salute e garantire la salute fisica e psichica dei lavoratori. Egli deve in particolare fare in modo che: a) in materia di ergonomia ed igiene le condizioni siano buone; b) la salute non sia pregiudicata da influenze fisiche, chimiche o biologiche; c) siano evitati sforzi eccessivi o troppo ripetitivi; d) il lavoro sia organizzato in maniera appropriato."
L'art. 33 della sopra citata legge federale assicura una specifica tutela alla donna nei luoghi di lavoro stabilendo che: "Il datore di lavoro deve avere un riguardo particolare per la salute delle donne e vigilare per la salvaguardia della moralità. Al fine di proteggere la salute delle donne o salvaguardare la loro moralità, l'impiego della donna per alcuni tipi di lavoro può essere, per ordinanza, vietato o subordinato a condizioni speciali".
Nel caso di violazione di tali disposizioni di diritto pubblico, il lavoratore può rivolgersi all'Ispettorato del lavoro cantonale, competente per l'applicazione di tutte le disposizioni in materia di legge federale sul lavoro, affinché intervenga per far cessare le offese alla sua personalità.
L'Ispettorato di Ginevra, denominato "Office Cantonal de l'inspection et des relations du travail" meglio conosciuto con la sigla OCIRT, ha emanato un'apposita "brochure" per regolare le procedure da seguire nei casi di sofferenza psicologica sul lavoro (mobbing), nella quale viene stabilito che ogni qual volta il lavoratore lamenti di aver subito molestie morali sul lavoro, sarà tenuto a specificare, in un apposito documento, a che tipo di molestia morale, tra i 45 atti di mobbing individuati dal Leymann, è stato sottoposto e, se possibile, dovrà indicare anche la data di accadimento di ognuno di essi. Sulla base della denuncia presentata l'OCIRT procederà, quindi, all'effettuazione di un'inchiesta all'interno dell'azienda incriminata al fine di accertare la fondatezza delle accuse esposte dal lavoratore e di far prendere coscienza ai vertici aziendali delle responsabilità che essi hanno in queste situazioni. Una volta accertata l'offesa alla personalità del soggetto, l'OCIRT potrà richiedere alla direzione aziendale la cessazione dei comportamenti ostili negoziando eventualmente con essa le contro misure da adottare per evitare che simili situazioni si ripetano in futuro. Se, però, l'azienda si rifiuta di collaborare, l'OCIRT di fatto non dispone di alcun potere e il lavoratore per ottenere giustizia sarà costretto a rivolgersi alla Procura della Repubblica.
L'OCIRT, in effetti, non può in alcun caso disporre il reintegro del lavoratore licenziato o dimissionario.
b) tutela privatistica
Oltre a queste forme di tutela pubblicistica, il lavoratore svizzero molestato sul luogo di lavoro dispone anche di forme di tutela privatistica in base ad alcune norme del codice delle obbligazioni (CO) che si occupano di regolare i rapporti tra datore di lavoro e lavoratore. In particolare si rivelano utili i seguenti articoli:
ô­ l'art. 328 - intitolato alla "protezione della personalità del lavoratore" che così recita: "Nei rapporti di lavoro, il datore di lavoro deve rispettare e proteggere la personalità del lavoratore, avere il dovuto riguardo per la sua salute e vigilare per il mantenimento della sua moralità. In particolare deve vigilare affinché il lavoratore non subisca molestie sessuali e, nel caso in cui questo accada, non subisca ulteriori svantaggi.
Egli deve prendere i provvedimenti, realizzabili secondo lo stato della tecnica ed adeguati alle condizioni dell'azienda o dell'economia domestica, che l'esperienza ha dimostrato necessari per garantire la tutela della vita, della salute e dell'integrità personale del lavoratore, in quanto il rapporto di lavoro e la natura dello stesso consentano equamente di pretenderlo."
Si tratta di una disposizione sostanzialmente simile ai contenuti del nostro art. 2087 c.c. per la tutela della salute e sicurezza del lavoratore nei luoghi di lavoro.
Ad esso si aggiunge il disposto dell'art. 49 CO secondo il quale: "Colui che subisce un'offesa illecita alla sua personalità ha diritto ad una somma di denaro a titolo di riparazione morale, in relazione alla gravità dell'offesa subita e nel caso in cui l'autore dell'offesa non abbia provveduto diversamente alla riparazione. Il giudice può decidere o di aumentare questa indennità o di sostituirla con altro tipo di riparazione.".
Nei casi di violazione dei suddetti articoli il lavoratore potrà rivolgersi al Tribunale civile, il quale potrà condannare il datore di lavoro, qualora ritenga fondata la denuncia, a un'indennità normalmente non superiore all'equivalente di sei mesi di salario mentre non potrà in ogni caso disporre la reintegrazione del lavoratore al suo posto di lavoro.
c) tutela prevista dalla legge sull'uguaglianza tra donne e uomini.
Qualora l'attività vessatoria abbia connotazioni a sfondo sessuale si apre anche una terza possibilità di tutela per il lavoratore, quella prevista dalla legge sull'uguaglianza tra donne e uomini che parifica la molestia sessuale alla discriminazione in base al sesso. L'art. 3 della legge stabilisce che "per comportamento discriminatorio si intende qualsiasi comportamento inopportuno di caratteresessuale o fondato sull'apparenza sessuale che comporti offesa alla dignità della persona sul luogo di lavoro e consista in particolare nel minacciare, promettere vantaggi, imporre delle restrizioni o esercitare una pressione su una persona al fine di ottenere dei favori di natura sessuale.". In questi casi l'ordinamento garantisce una tutela molto forte perché il lavoratore potrà, ed è uno dei pochi casi in cui ciò avviene, ottenere anche la reintegrazione sul posto di lavoro oltre naturalmente il risarcimento del danno patito. La competenza spetta al Tribunale del lavoro o a quello Amministrativo a seconda se il lavoratore sia impiegato in un'azienda privata o in una pubblica.
d) tutela penale
Infine il lavoratore potrà, nei casi in cui le vessazioni subite rivestano anche i caratteri di un vero e proprio reato, ricorrere alla tutela penalistica contro le lesioni corporali semplici (art. 124), le lesioni corporali derivanti da negligenza (art. 125), l'offesa all'onore e alla vita privata (art. 177) e la violazione all'integrità sessuale (artt. 193, 197 e 198) garantita dal codice penale svizzero.
d - Belgio
In Belgio il mobbing, o "harcèlement moral" come viene definito in tutti i paesi francofoni, emerge per ora soltanto dalla giurisprudenza in quanto il fenomeno non è ancora regolato legislativamente.
Al fine di garantire comunque una qualche tutela alle vittime di molestie sul luogo di lavoro sono state, di volta in volta, utilizzate dalle corti belghe le seguenti norme:
ô­ l'articolo 16 della legge sul lavoro del 1978 che stabilisce il dovere di rispetto tra datore di lavoro e lavoratore;
ô­ la legge 4 agosto 1996 che mira a garantire il benessere dei lavoratori durante l'esecuzione del loro lavoro;
ô­ l'art. 442bis del codice penale che tutela l'individuo contro qualsiasi forma di molestia e così recita: "Chiunque molesta una persona sapendo o dovendo sapere che con il proprio comportamento lede gravemente la tranquillità della persona stessa, è punito con la reclusione  da un minimo di quindici giorni ad un massimo di due anni e una multa da cinquanta a cento franchi belgi, o in alternativa l'una o l'altra di queste pene. Il delitto previsto dal presente articolo non potrà essere perseguito che a querela della persona offesa.". In base a questa norma possono essere incriminati, però, soltanto episodi di molestia diretta e non la semplice passività serbata dal datore di lavoro rispetto a condotte moleste verificatesi nella sua azienda;
ô­ l'art. 10 del decreto regale del 13 maggio 1999 che stabilisce che "gli agenti dello stato hanno diritto ad essere trattati con dignità e cortesia tanto dai superiori come dai loro colleghi e collaboratori. Essi devono astenersi da ogni comportamento verbale o non verbale che potrebbe compromettere questa dignità.".
In considerazione del vuoto legislativo esistente in materia e della crescente domanda di tutela proveniente dai lavoratori, è stata recentemente presentata al Senato Belga una proposta di legge che si propone di modificare la legge del 4 agosto 1996, sul benessere dei lavoratori nell'esercizio della loro attività, inserendo una disposizione per obbligare tutti i datori di lavoro ad adottare le misure organizzative necessarie per prevenire l'harcèlement moral nei lughi di lavoro. La proposta di legge fornisce una definizione di harcèlement moral che riprende sostanzialmente quella formulata dalla studiosa francese di questi fenomeni, Marie-France Hirigoyen: "si intende per mobbing qualsiasi condotta abusiva e ripetuta che si manifesti con comportamenti, parole, atti, gesti o scritti unilaterali che offendono intenzionalmente la personalità, la dignità o l'integrità psicologica di una persona, che mettono in pericolo il suo impiego o degradano il clima lavorativo". L'art. 3 prescrive quindi ai datori di lavoro di adottare, nell'organizzazione dell'attività lavorativa, tutte le misure che si rendano necessarie al fine di prevenire le molestie morali ai danni dei lavoratori nei luoghi di lavoro; misure che dovranno essere specificatamente indicate nel regolamento del lavoro, obbligatorio per ogni impresa belga in base alla legge dell'8 aprile 1965. Si tratta in sostanza dello stesso meccanismo di controllo interno già sperimentato in Belgio per combattere le molestie sessuali sul lavoro e previsto dal decreto reale del 18 settembre 1992.
Significativa appare, inoltre, la previsione dell'inversione dell'onere della prova a favore della vittima di mobbing, la quale sarà, pertanto, tenuta solo a fornire un principio di prova rimanendo a carico del convenuto, il presunto mobber, l'onere di dimostrare che la molestia non c'è stata.
e - Francia
A seguito della definitiva approvazione della legge n. 2002-73 sulla modernizzazione sociale il 17 gennaio 2002., la Francia è, dopo la Svezia, il secondo paese comunitario ad essersi dotato di uno strumento legislativo specifico per la lotta contro il mobbing o meglio l'harcèlement moral come è chiamato qui.
La nuova legge, che contiene un'apposita sezione dedicata alla "lutte contre le harcélement moral au travail" (Chapitre IV), è stata oggetto di una lunghissima discussione nel Parlamento francese nel corso di tutto il 2001 impegnando Assemblea Nazionale e Senato in tre successive letture. Il progetto di legge ha così subito, nel corso del suo peregrinare da una camera all'altra, parecchie modificazioni ed integrazioni.
La versione definitiva del testo, approvata in data 19 dicembre 2001 dall'Assemblea Nazionale, definisce così l"harcèlement moral": "Nessun lavoratore deve subire atti ripetuti di molestia morale che hanno per oggetto o per effetto un degrado delle condizioni di lavoro suscettibili di ledere i diritti e la dignità del lavoratore, di alterare la sua salute fisica o mentale o di compromettere il suo avvenire professionale. Nessun lavoratore può essere sanzionato, licenziato o essere oggetto di misure discriminatorie, dirette o indirette, in particolare modo in materia di remunerazione, di formazione, di riclassificazione, di qualificazione o classifazione, di promozione professionale, di mutamento o rinnovazione del contratto, per aver subito, o rifiutato di subire, i
comportamenti definiti nel comma precedente o per aver testimoniato su tali comportamenti o averli riferiti.". Il legislatore francese pare dunque accogliere una nozione abbastanza ampia del concetto di molestia morale nei luoghi di lavoro, decisamente più ampia di di quella inizialmente prevista nella prima versione del progetto di legge che riguardava solo le forme di mobbing c.d.  verticale, ossia a quelle esercitate dai vertici aziendali (datore di lavoro o suoi rappresentanti) ai danni dei lavoratori, senza contemplare quelle c.d. orizzontali, ossia quelle che si verificano tra colleghi di lavoro. Tale prima versione era stata in effetti giudicata incompleta anche dal Consiglio economico e sociale francese chiamato ad esprire un parere in materia.
La legge appena approvata prevede, quale rimedio generale la nullità per ogni atto di modificazione contrattuale in peius delle condizioni lavorative del dipendente (mansioni, rimunerazione, assegnazione, destinazione, trasferimenti), per ogni atto di rottura del rapporto di lavoro (dimissioni o licenziamenti), per le sanzioni disciplinari qualora siano in qualche modo ricollegabili a pratiche di mobbing ai danni del lavoratore. La norma mira cioè ad evitare che attraverso le molestie morali il lavoratore venga dapprima penalizzato nella sua professionalità e successivamente allontanato o costretto ad allontanarsi volontariamente dal lavoro. Si tratta di una tutela forte contro il mobbing che permette di azzerare tutte quelle conseguenze negative sul rapporto di lavoro che normalmente si accompagnano alle molestie morali. La tutela è rafforzata, inoltre, dal fatto che viene prevista l'inversione dell'onere della prova, ponendo così a carico del molestatore l'incombenza di dimostrare l'inesistenza delle molestie quando il lavoratore abbia presentato elementi sufficienti per lasciar presumere l'esistenza di una molestia ai suoi danni. Previsione quanto mai opportuna in considerazione delle enormi difficoltà che normalmente il lavoratore incontra in questi casi per procurarsi le prove della molestia ai suoi danni.
La legge contiene, poi, tutta una serie di disposizioni che mirano a favorire la prevenzione del fenomeno mobbing nei luoghi di lavoro attraverso l'informazione tra i vari attori delle relazioni lavorative (datori di lavoro e vertici aziendali, lavoratori, sindacati), l'attivazione di procedure di conciliazione interne, l'estensione del concetto di salute del lavoratore anche agli aspetti psichici e psicologici della personalità, la previsione di un obbligo generale in capo al datore di lavoro di vigilare sul corretto svolgimento delle relazioni sociali nei luoghi di lavoro e di adottare le misure, anche di tipo disciplinare, che prevengano comportamenti vessatori ai danni dei lavoratori.
La nuova legge prevede, inoltre, l'introduzione di un'apposita figura di reato dedicata al mobbing con l'inserimento nel codice penale francese di una nuova sezione intitolata, per l'appunto,  all'harcèlement moral e di un articolo, il 222-33-2, che sanzionava espressamente "il fatto di molestare gli altri attraverso comportamenti ripetuti aventi per oggetto o per effetto una degradazione delle condizioni di lavoro suscettibili di ledere i suoi diritti e la sua dignità, di alterare la sua salute fisica o mentale o di compromettere il suo avvenire professionale.". La pena prevista è della reclusione fino a un anno o la multa di 15.000 euros. L'opportunità di sanzionare penalmente il mobbing è stato oggetto di accesi dibattiti nel corso della discussione parlamentare che viene testimoniato anche dal fatto del susseguersi di versioni sempre diverse del testo dell'articolo in questione.
La nuova legge è stata appena pubblicata sul "Journal officiel" francese ed entrerà in vigore tra poco ed è quindi ancora troppo presto per poter esprimere un giudizio sulla stessa. Fino ad ora, pealtro, in assenza di una normativa specifica sulla materia, in Francia come in molti altri paesi europei ed in Italia, la questione mobbing è stata affrontata soprattutto a livello giurisprudenziale e dottrinale. La tutela contro il mobbing è stata garantita dai giudici francesi con l'utilizzo di strumenti legislativi vigenti, come ad esempio, le norme sul c.d.'"abuse d'autorité" introdotto nel codice del lavoro, le norme penali che vietano di imporre condizioni di lavoro incompatibili con la dignità umana, nonché le norme sulle molestie sessuali regolate dalla legge del 22 luglio 1992 nel caso in cui le vessazioni abbiano connotazione sessuale o sessista.
Si ricorda infine che in Parlamento, a partire dalla sessione 1997-1998, è stato presentato anche il progetto di legge n. 49 sulla prevenzione e la repressione delle infrazioni sessuali e la protezione dei minori, che mira a riconoscere una nuova figura di reato, il cd. "bizutage", che si riferisce in particolare a fenomeni di bullismo scolastico o nonnismo, ma che non si esclude possa essere esteso ai fenomeni di molestia di vario genere che si verificano negli 'ambienti di lavoro.
f - Regno Unito
Nel Regno Unito, come in tutti gli altri paesi anglosassoni, per le condotte persecutorie sul lavoro più che di mobbing si parla normalmente di "bullying at work" dal verbo inglese "to bully" utilizzato non soltanto nel senso di "fare il prepotente" ma anche nella forma transitiva di "angariare" o "tiranneggiare" qualcuno. Il "bully" in sostanza non è dunque solo lo spaccone o il bulletto di paese ma la persona prepotente, crudele e perversa proprio come il "mobber". Con il termine "bullyng" vengono indicate svariate tipologie di condotte aggressive e vessatorie come la discriminazione, i pregiudizi, le molestie morali, le violenze e le molestie sessuali. In particolare gli inglesi distinguono tra "corporate bullying", che è quello esercitato dal datore di lavoro o dal superiore gerarchico nei confronti dei suoi dipendenti, dal "client bullying" che riguarda, invece, ipotesi di persecuzioni attuate dai destinatari della prestazione del lavoratore: insegnanti bullizzati dagli studenti o dai genitori, impiegati perseguitati dai propri clienti o viceversa. Si parla poi ancora di "serial bullying" quando le persecuzioni sono sistematicamente portate avanti dal soggetto agente nei confronti di tutti i colleghi di lavoro, siano essi subordinati, sovraordinati o pari grado, ed infine di "gang bullying" quando la persecuzione è esercitata da un gruppo di persone.
Per quanto concerne la tutela giuridica contro tali fenomeni, occorre anche qui subito precisare che manca per ora una specifica normativa in materia anche se un progetto di legge in tal senso risulta giacente al Parlamento britannico già da qualche anno. Si tratta della legge per la tutela della dignità del lavoratore nei luoghi di lavoro, "The Dignity at Work Bill", che stabilisce all'art. 1 che "ogni lavoratore ha diritto al rispetto della propria dignità sul lavoro". Il datore di lavoro viene considerato responsabile di violazione di tale diritto "ogni qual volta il lavoratore venga esposto, durante il rapporto di lavoro, a molestia da parte dello stesso datore di lavoro o al bullying o ad ogni altro atto, omissione o condotta che causi allarme o timore nel lavoratore". Sono da considerarsi comportamenti molesti, tra gli altri: "a) comportamenti che in più di un'occasione risultino essere offensivi, abusivi, maliziosi, insultanti o intimidatori; b) critiche ingiustificate in più di un'occasione; c) applicazione di sanzioni prive di giustificazione oggettiva; d) cambiamenti peggiorativi delle mansioni o delle responsabilità del lavoratore senza ragionevoli giustificazioni".
Il legislatore si preoccupa di precisare che tale lista non ha carattere esaustivo delle condotte potenzialmente vessatorie e ciò al fine di evitare di ingabbiare la tutela del mobbing in una definizione troppo angusta. Il fenomeno, infatti, è molto complesso e si realizza attraverso una molteplicità di comportamenti la cui tipizzazione in un norma rischia di risultare limitativa.
Competente a conoscere delle violazioni alla dignità del lavoratore è l'industrial tribunal, il quale, se riconosce fondata l'azione, può emanare un ordine nel quale riconosce il diritto lamentato dal lavoratore ricorrente e può condannare il persecutore a risarcire i danni anche soltanto morali da questi subiti. Ai fini della determinazione del danno, il giudice dovrà tener conto della gravità, della frequenza e della persistenza della condotta vessatoria perpetrata ai danni del lavoratore. Il giudice può, inoltre, raccomandare al mobber di adottare determinati comportamenti miranti ad ovviare o ridurre le conseguenze negative delle sue precedenti azioni vessatorie nei confronti del lavoratore.
Purtroppo, però, queste norme non sono ancora entrate in vigore e, pertanto, la tutela giuridica di cui oggi possono disporre i lavoratori inglesi va ricercata in un panorama legislativo piuttosto ampio che non sempre si dimostra idoneo a garantire un'adeguata protezione. Significativa al riguardo è la disciplina introdotta dal "Protection from Harassment Act" del 1997, che rappresenta la principale legge britannica per la protezione contro le molestie morali ai danni di un soggetto ed è fondata sul principio generale, contenuto nell'art. 1, in base al quale: "una persona non deve porre in essere una condotta che possa risultare molesta nei confronti di un'altra persona e di cui egli conosca o debba conoscere il carattere molesto...". Ne scaturisce il divieto per chiunque di assumere un comportamento molesto ai danni di un altro soggetto. Il presupposto fondamentale per la sanzionabilità del comportamento è la conoscenza o la ragionevole presunzione di conoscenza da parte del soggetto agente del fatto che la condotta risulti molesta per la vittima. Per stabilire la connotazione molesta o meno di una certa condotta il giudice dovrà riferirsi alle valutazioni che una persona di normale razionalità trovandosi nella medesima situazione della vittima potrebbe fare. Si consideri, però, che il comportamento può essere considerato molesto soltanto se composto da almeno due episodi di condotta molesta. La persona giudicata colpevole di molestia rischia fino a sei mesi di reclusione o una multa non eccedente il livello cinque della scala standard britannica.
Alla condanna si aggiunge normalmente l'intimazione alla cessazione di ogni attività vessatoria ai danni della vittima con l'avvertimento che, in caso di ulteriori episodi di molestia, la condanna verrà aumentata. A prescindere dalla condanna, la Corte può comunque sottoporre l'imputato a misure di sicurezza a protezione della vittima che devono essere specificate in un apposito ordine e consistono generalmente in una serie di proibizioni dal fare qualcosa. La vittima potrà in ogni caso domandare, in sede civile, il risarcimento dei danni patiti, che in questo caso potranno comprendere, oltre il rimborso delle perdite economiche subite anche il ristoro dei danni morali causati dalla molestia. Si tratta, dunque, come ho già sottolineato, di una normativa molto importante ed efficace che tuttavia non è specificatamente volta a sanzionare comportamenti di mobbing nei luoghi di lavoro ma che può prestarsi anche a un tale utilizzo.
Nel caso di molestie a carattere sessuale o comportanti discriminazioni sessuali può essere utilizzato il "Sex Discrimination Act" del 1975.
g - Spagna
L'equivalente spagnolo del nostro concetto di mobbing è l'"acoso moral" o "acoso psichologico", nell'ambito del quale, peraltro, dottrina e giurisprudenza spagnola disgiungono tra "bossing" , nel caso in cui le molestie morali vengano poste in essere dal datore di lavoro o dai suoi rappresentanti nei confronti dei lavoratori per motivi di riorganizzazione aziendale, riduzione del personale o col semplice obiettivo di allontanare i lavoratori scomodi ed indesiderati, e "mobbing" nel caso in cui le persecuzioni ai danni del lavoratore vengano esercitate da colleghi di lavoro (superiori gerarchici o pari grado o anche inferiori). In realtà i due termini acoso moral e mobbing vengono anche comunemente usati come sinonimi soprattutto negli articoli dei massmedia.
L'ordinamento spagnolo, al pari di quello italiano e come si è visto di molti altri paesi europei, non ha ancora approntato una normativa ad hoc in questa materia. Ciò non di meno la questione è ampiamente dibattuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza spagnola e, molto presto, sarà discussa anche a livello legislativo visto che recentemente, in data 23 novembre 2001, sono state presentate al "Congreso de los deputatos", da parte del Gruppo parlamentare socialista, due nuove proposte di legge miranti a regolare normativamente l'acoso moral.
La prima, proposicion de ley num. 122/000157 intitolata "derecho a no sufrir acoso moral en el trabajo", si propone di modificare "El Estatuto de los Trabajadores" , la "Ley de Procedimiento Laboral", la "Ley de Prevencion de Riesgos Laborales", la "Ley de Infracciones Y Sanciones en el Orden Social", la "Ley de Funcionario Civiles del Estado" e la "Ley 30/1984 de Medidas de Reforma de la Funcion Publica" al fine di:
1) garantire al lavoratore il diritto alla propria integrità fisica e morale e conseguentemente il diritto a non essere esposto a pratiche di mobbing nei luoghi di lavoro;
2) considerare l'acoso moral quale rischio lavorativo al pari di qualsiasi altro rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore;
3) obbligare il datore di lavoro ad adottare tutte le misure, organizzative e/o repressive, che si rendano necessarie al fine di prevenire e o reprimere l'acoso moral nei luoghi di lavoro soggetti
al suo controllo;
4) prevedere l'inversione dell'onere della prova a favore della vittima di mobbing, la quale, pertanto, sarà tenuta soltanto a fornire indizi dell'esistenza dell'acoso moral mentre rimarrà a carico del convenuto l'onere di dimostrare la legittimità dei comportamenti adottati e, nel caso del datore di lavoro, l'adeguatezza delle misure di prevenzione e/o repressione adottate.
La definizione di acoso moral accolta nel progetto di legge: "Si intende per acoso moral ogni condotta abusiva o di violenza psicologica che si realizza in forma sistematica nei confronti di una persona nell'ambito lavorativo, che si manifesta in particolare attraverso reiterati comportamenti, parole o atti lesivi della dignità e integrità psichica del lavoratore mettendo in pericolo o degradando le sue condizioni di lavoro" rispecchia sostanzialmente le definizioni, di derivazione medico-legale, già utilizzate in altri ordinamenti europei.
Il secondo progetto di legge presentato, sempre dal Gruppo parlamentare socialista, il n. 122/000158 intitolato "Organica por la que se incluye un articulo 314 bis en el Codigo Penal tipiticando el acoso moral en el trabajo", è, invece, finalizzato a introdurre nell'ordinamento penale spagnolo una nuova figura di reato sull'acoso moral limitatamente alle ipotesi in cui il soggetto responsabile di acoso moral, e già per questo condannato con sanzione amministrativa o provvedimento giudiziario, perseveri nel comportamento vessatorio o non adotti le misure necessarie per eliminarlo. La pena è aumentata nel caso in cui il comportamento venga commesso con abuso di relazione di superiorità.
Dottrina e giurisprudenza spagnole, incalzate dalla crescente domanda di tutela proveniente dagli ambienti lavorativi hanno cercato di individuare forme alternative di tutela giuridica contro il mobbing traendole da normative di portata generale come lo Statuto dei Lavoratori (Estatuto de los Trabajores - ET), nella legge di prevenzione dei rischi lavorativi (Ley de Prevenciòn des Riesgos Laborales - LPRL), nel codice penale (art. 316 del Codigo Pènal) e nelle leggi sulla responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
Per quanto riguarda lo Statuto dei lavoratori, sono state individuate nel suo ambito alcune norme che si prestano bene ad essere utilizzate in caso di acoso moral:
ô­ artt. 4.2.d e 4.2.e che stabiliscono rispettivamente il diritto del lavoratore "alla sua integrità fisica" e "al rispetto della sua intimità e dignità compresa la protezione contro offese verbali o fisiche di natura sessuale";
ô­ art. 4.2.a che garantisce al lavoratore il diritto all'occupazione effettiva;
ô­ art. 20.3: che limita il potere di vigilanza e controllo del datore di lavoro in ordine all'esercizio dei compiti affidati ai lavoratori;
ô­ artt. 39.3 e 41 che limitano il potere datoriale in ordine alla mobilità del lavoratore e alla modifica sostanziale delle sue condizioni di lavoro.
In caso di violazione di tali norme il lavoratore può scegliere tra due strade: 1) rivolgersi all'Ispettorato del lavoro, il quale dopo aver verificato i fatti potrà avviare procedure di conciliazione tra le parti o, nel caso in cui ciò non sia possibile per il rifiuto manifestato da una o dall'altra delle parti, avviare il procedimento amministrativo sanzionatorio, ai sensi dell'art. 8.11 della "Ley de Infracciones y Sanciones en el Orden Social", che può comportare anche l'inflizione di una multa compresa tra le 500.001 pesetas e i 15.000.000 di pesetas; 2) avviare un procedimento davanti alla "jurisdiccion social" per l'estinzione del rapporto contrattuale ed ottenere la relativa indennità ed il risarcimento dei danni patiti in conseguenza dell'acoso moral patito.
L'acoso moral può, però, molto più spesso costituire violazione della Legge sulla prevenzione dei rischi lavorativi (LPRL) che contiene norme volte alla prevenzione della sicurezza e salute dei lavoratori e stabilisce il principio generale per cui il datore di lavoro è tenuto ad adottare tutte le misure che si rendano necessarie per la prevenzione dei rischi di lavoro (art. 2 LPRL). Per rischio derivante dal lavoro si deve intendere, ai sensi dell'art. 4.2 LPRL, "la possibilità che un lavoratore soffra un determinato danno in conseguenza del lavoro" e per "danno derivante dal lavoro", "tutte le infermità, patologie o lesioni sofferte a causa o in occasione del lavoro" comprese a pieno titolo le lesioni di natura psicologiche. Secondo l'attuale interpretazione della LPRL, tra le obbligazioni di prevenzione in capo al datore di lavoro rientra anche quella di adottare tutte le misure idonee a prevenire l'acoso moral qualora questo possa determinare un danno alla salute per il lavoratore.
Pertanto il datore di lavoro potrà essere ritenuto responsabile per violazione delle norme di prevenzione previste dalla LPRL sia nel caso in cui si renda partecipe di pratiche di "bossing" ai danni dei lavoratori, sia nel caso in cui permetta lo svilupparsi dell'acoso moral nei propri stabilimenti, uffici, negozi o altri luoghi di lavoro non adottando le misure, organizzative e sanzionatorie, necessarie a prevenirlo. Anche in questi casi il lavoratore potrà domandare tutela in via alternativa all'Ispettorato del lavoro o alla giurisdizione ordinaria secondo le procedure che sono state descritte sommariamente sopra a proposito della violazione delle norme dello Statuto dei lavoratori.
Per quanto concerne la tutela penale, la dottrina spagnola è ancora molto incerta in ordine all'eventualità di considerare l'acoso moral come condotta delittuosa, ai sensi dell'art. 316 del codice penale, che consiste nel non "procurare i mezzi necessari affinché il lavoratore possa eseguire la sua attività in sicurezza e nel rispetto delle norme igieniche, così da esporlo a pericoli gravi per la sua vita ed integrità fisica". Si tratta, infatti, di una norma soggetta ad un'interpretazione restrittiva che, fino ad ora, è stata sempre utilizzata soltanto con riferimento ad un concetto tradizionale e classico di sicurezza e salute del lavoro che non comprende le ipotesi di molestia morali tipiche dell'acoso moral. Trattandosi poi di norma penale richiede l'accertamento del dolo in capo al soggetto agente.
Qualora infine, la molestia morale provenga da un aggressore o imprenditore esterno all'impresa lavorativa in cui il lavoratore presta la propria attività, questi potrà invocare le norme sulla responsabilità extracontrattuale previste dagli articoli 1902 e 1903 codice civile spagnolo.
h - Unione europea
L'Unione Europea non ha ancora fornito una risposta precisa al mobbing. Come si è visto, oggi come oggi, sono soprattutto i legislatori nazionali che stanno cominciando a mettere a punto misure giuridiche di contrasto in questo campo. Tuttavia qualche riferimento indiretto al mobbing emerge da alcuni documenti comunitari relativi ai settori della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, delle condizioni di lavoro, del rispetto e della dignità dell'individuo:
ô­ la direttiva 76/207/CEE del Consiglio del 9 febbraio 1976 relativa all'applicazione del principio di uguaglianza tra uomini e donne per quanto concerne l'impiego, la formazione, la promozione professionale e le condizioni di lavoro;
ô­ la direttiva quadro 89/391/CEE del Consiglio del 12 giugno 1989, relativa all'applicazione delle misure finalizzate alla promozione del miglioramento della sicurezza e salute dei lavoratori sul lavoro;
ô­ la risoluzione del Consiglio del 29 maggio 1990, concernente la protezione della dignità della donna e dell'uomo al lavoro secondo la quale "ogni comportamento indesiderato a connotazione sessuale, o qualsiasi altro comportamento basato sul sesso, che offenda la dignità degli uomini e delle donne nel mondo del lavoro, può in determinate circostanze essere contrario al principio della parità di trattamento ai sensi degli articoli 3, 4 e 5 della Direttiva del Consiglio 76/207/CEE". La medesima risoluzione contempla, inoltre, l'ipotesi della creazione di un "ambiente di lavoro intimidatorio, ostile o umiliante" (c.d. molestia ambientale);
ô­ la raccomandazione 92/131/CEE della Commissione del 27 novembre 1991, sulla protezione della dignità degli uomini e delle donne al lavoro alla quale è allegato un codice di condotta su come evitare e combattere le molestie sessuali;
ô­ la direttiva 2000/43/CE del Consiglio del 29 giugno 2000, relativa all'applicazione del principio di uguaglianza di trattamento delle persone indipendentemente dall'origine razziale o etnica;
ô­ la direttiva 2000/78/CE, del Consiglio del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro e per la quale le molestie sono da considerarsi una discriminazione in caso di comportamento indesiderato adottato sulla base della religione o delle convinzioni personali, degli handicap, dell'età o delle tendenze sessuali e avente lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo.
La stessa Corte di Giustizia delle Comunità Europee in una sua pronuncia del 12 novembre 1996 si è occupata indirettamente di mobbing quando, richiesta di chiarire le nozioni di "ambiente di lavoro" "sicurezza" e "salute" richiamate dall'art. 118A del trattato UE, ha fornito un'interpretazione molto ampia del concetto di ambiente di lavoro e delle sue implicazioni di natura psicologica, avvicinandosi alla concezione scandinava dell'ambiente di lavoro, particolarmente attenta all'integrazione psicosociale del lavoratore nella comunità di lavoro.
In tempi più recenti sono, peraltro, state avviate specifiche iniziative e studi comunitari in materia di mobbing da parte del Parlamento Europeo. Una scossa in tale direzione è venuta dal terzo rapporto europeo sulle condizioni di lavoro nei paesi della Comunità, predisposto dalla Fondazione Europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della CE (Fondazione di Dublino). La percentuale è particolarmente elevata se confrontata con il 6% dei lavoratori che sostengono di aver subito violenza fisica nei luoghi di lavoro (4% da persone esterne all'ambiente lavorativo e 2% da persone facenti parte dell'organizzazione lavorativa) e con il 2% che dichiara di essere stato molestato sessualmente.
La diffusione del mobbing, pur essendo presente in ogni settore produttivo, varia significativamente da settore a settore. Come si può vedere nel grafico che segue, le attività più colpite sono quelle della pubblica amministrazione (con il 14% dei lavoratori), la sanità e l'educazione, la ristorazione, il settore alberghiero ed i trasporti, nei quali il 12% dei lavoratori lamenta di essere oggetto di pratiche mobbizzanti. Meno drammatica appare la situazione per gli operatori agricoli e gli addetti ad elettricità, gas ed acqua dove soltanto il 3% dichiara di essere stato oggetto di vessazioni sul luogo di lavoro.
In data 16 luglio 2001 la Commissione occupazione ed affari sociali del Parlamento europeo, ha presentato un'ampia relazione sulle problematiche del mobbing nella quale analizza il fenomeno sotto vari punti di vista: definizione del fenomeno, ricerca delle cause della sua rapida espansione, individuazione degli effetti sulla salute del lavoratore e sull'efficiente ed economica organizzazione delle aziende, ricerca di strumenti efficaci per contrastarlo. Con riguardo a quest'ultimo aspetto la Commissione evidenzia come le lacune attualmente presenti nelle conoscenze sul mobbing rendano ancora più difficile l'individuazione di misure di contrasto efficaci e sollecita, pertanto, in tale direzione le istituzioni competenti in materia (Eurostat e la Fondazione di Dublino) ad attivarsi.
Da un punto di vista più strettamente giuridico, la relazione evidenzia la necessità di chiarire se la vigente direttiva quadro per la salute e la sicurezza sul lavoro, la n. 89/391/CEE, possa essere interpretata estensivamente in modo da ricomprendere nel suo ambito applicativo anche i casi di mobbing. Secondo la Commissione occorre, cioè, stabilire se l'attuale formulazione dell'art. 1, che prevede che lo scopo della direttiva è quello di adottare provvedimenti che promuovano migliori condizioni di sicurezza e di salute per i lavoratori nell'ambiente di lavoro, comprenda anche le condizioni di lavoro psichiche, sociali o psicosociali che non sono ivi espressamente menzionate.
Stesso discorso vale per l'art. 6 della sopracitata direttiva: anche qui sarà necessario chiarire se la responsabilità del datore di lavoro nella valutazione dei rischi lavorativi e nell'adozione dei provvedimenti necessari per garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori si estenda anche ai rischi del mobbing.
La relazione è stata esaminata ed approvata dal Parlamento Europeo nella seduta del 20 settembre 2001 ed allegata alla risoluzione sul mobbing sul posto di lavoro. Da parte sua il Parlamento esorta stati membri, parti sociali e istituzioni comunitarie a farsi carico delle problematiche relative al mobbing ed invita, in particolare, la Commissione a presentare, entro il marzo 2002, un libro verde recante un'analisi dettagliata sulla situazione del mobbing negli ambienti lavorativi con rifermento ad ogni stato membro e, sulla base di detta analisi, a presentare successivamente, entro l'ottobre 2002, un programma d'azione concernente le misure comunitarie contro il mobbing.
Si segnala, inoltre, che il Parlamento europeo ha già provveduto all'istituzione, nell'ambito della propria organizzazione interna, di un apposito Comitato Consultativo sulle Molestie Morali che, in base all'art. 3 del suo regolamento "ha come compito principale la prevenzione da ogni azione verbale, fisica e professionale costituente molestia morale contro il personale, funzionari ed agenti, del Parlamento europeo. Il comitato sulla base delle denunce, delle segnalazioni ricevute o di propria iniziativa, dispone l'audizione dei denuncianti e di ogni altra persona reputata utile ai finidell'istruzione della pratica".
La Commissione europea ha già avuto modo di occuparsi delle problematiche del mobbing quando ha messo mano alla riorganizzazione interna dei propri sistemi di lavoro ed in particolar modo in sede di elaborazione del "Libro bianco per la riforma della Commissione" con il quale la Commissione si propone appunto di inaugurare una nuova politica di gestione del personale volto a migliorare complessivamente le relazioni interpersonali tra lavoratori ed il clima lavorativo negli ambienti di lavoro comunitari.
i - Il caso italiano
In Italia, al di là delle norme generali sulla sicurezza nei posti di lavoro, solo recentemente e con prevalente riferimento alle molestie sessuali - per le quali ci si è potuti avvalere delle indicazioni fornite dalla Raccomandazione della Commissione CEE del 27.11.91 - si cominciano a tratteggiare norme comportamentali e di intervento specifiche.
Azioni positive e azioni disciplinari dirette a contrastare eventuali condotte offensive a carattere sessuale sono previste dai CCNL per i settori metalmeccanico, chimico, alimentare, dal codice di comportamento per la tutela della dignità delle lavoratrici e dei lavoratori del Comune di Torino, dal protocollo di Intesa per l'adozione del Codice di comportamento contro le molestie sessuali sottoscritto il 10.12.99 dal Ministero del Lavoro con le Organizzazioni Sindacali firmatarie del CCNL relativo al comparto dei Ministeri per il quadriennio 1998/2001.
Particolarmente articolate ed interessanti appaiono, in questo panorama, le ultime due regolamentazioni ricordate, le quali contemplano entrambe una figura di "referente di fiducia"; e il riferimento è tanto più stimolante se si considera che a Torino, laddove il consulente incaricato è già operativo, si è dovuta registrare una netta prevalenza dei casi di mobbing, sottoposti alla sua attenzione, rispetto agli episodi di vera e propria molestia sessuale e dare, quindi, spazio ad un diverso e più ampio orientamento del suo ambito di intervento per fronteggiare questa "prepotente" realtà. D'altra parte, merita di essere sottolineato che, secondo alcuni studi, il settore nel quale viene segnalata la più alta percentuale di casi di mobbing è proprio quello del pubblico impiego (42%).
Secondo il dottor Renato Gilioli, studioso della Clinica del Lavoro di Milano il fenomeno in questione in Italia è ancora agli albori.
"E lo si capisce da un semplice fatto: quando un lavoratore italiano è vittima di queste persecuzioni, per prima cosa si domanda quali errori ha commesso e, solo dopo molti tormenti, comincia a pensare che siano colleghi e superiori ad avere un rapporto scorretto con lui. Nelle società e negli ambienti più consapevoli, la vittima è invece capace di individuare le responsabilità e di intervenire o chiedere aiuto molto rapidamente. Nelle aziende svedesi in ogni reparto c'è un garante antimobbing".
Si fatica ad ammettere che il mobbing esista perché porta alla luce i più meschini ed indegni comportamenti umani: nel suo libro, Hirigoyen definisce gli autori di queste persecuzioni dei narcisi perversi.
E anche per le vittime che, a volte, non ribellandosi stabiliscono una sorta di diabolica alleanza con i loro carnefici, la presa di coscienza non è un lavoro piacevole.
Ma nonostante questa comprensibile tendenza alla rimozione, il centro del dottor Gilioli è frequentato da più di 200 persone all'anno e, secondo i calcoli del medico, in Italia un milione di persone avrebbero bisogno di questo appoggio.
Accanto ai farmaci e alla psicoterapia, presso la Clinica del Lavoro si sta sperimentando una sorta di gruppo di autocoscienza, composto dai soggetti che hanno denunciato un trattamento di mobbing.
Come nelle sedute degli alcolisti anonimi, anche in questo caso ciascuno racconta la propria esperienza.
Queste confessioni non solo servono a ciascuno a non considerarsi più come l'unico perseguitato, ma consentono anche di elaborare una reazione meno passiva e, se necessario, di mettere in campo una maggiore aggressività contro queste forme di sopraffazione.

Il mobbing nelle proposte di legge italiane.

Come già evidenziato, al fine di prevedere una regolamentazione specifica ed una tutela certa ed appropriata per i casi di mobbing, sono state presentate in Parlamento delle proposte di legge.
Ciò dimostra il rilievo sempre più manifesto che il fenomeno ha assunto anche e soprattutto in ambito istituzionale.
Si evidenzia fin d'ora che un progetto di legge è stato proposto con riferimento alle violenze morali e persecuzioni psicologiche in generale, quindi in ogni ambito nel quale si manifesta la personalità umana, oltre in quello lavorativo.
Esso prevede sanzioni penali per chi pone in essere "atti di violenza psicologica" nei confronti di "altri costretti a subire tali atti a causa di uno stato di necessità", sanzioni che sono aumentate nel caso in cui tali condotte comportino "per la persona offesa anche danni psico-fisici o danni materiali e psicologici".
All'art. 4, il progetto di legge individua i comportamenti che integrano la fattispecie generale appena definita.
a - Il Disegno di legge Senato 4265
Il disegno di legge (Senato 4265), presentato alla Presidenza del Senato il 13 ottobre 1999 ed assegnato il 21 ottobre 1999 alla Commissione lavoro e previdenza sociale in sede referente, porta il Titolo "Tutela della persona che lavora da violenze morali e persecuzioni psicologiche nell'ambito dell'attività lavorativa".
Come risulta dalla relazione che lo accompagna, il D.d.l. ha, innanzitutto, lo scopo di "favorire un'azione preventive ed efficace", tramite l'informazione -sensibilizzazione e l'intervento prima che le condotte di mobbing abbiano cagionato danni, ma anche quello di fornire, comunque, strumenti di tutela ex post, repressivi e riparatori.
E ciò, non solo al fine, etico e di giustizia, della "tutela individuale della dignità ed integrità della persona", per la correttezza nei rapporti umani e la civile convivenza e coesione, ma anche a quello, di opportunità economica, di impedire la "generazione di diseconomie interne ed esterne al luogo di lavoro", per il buon funzionamento delle aziende e la minimizzazione dei costi sociali e sanitari.
E' qui infatti ritenuto che la menomazione dell'opportunità di autorealizzazione che l'individuo trova nel lavoro ha effetti negativi su entrambi questi aspetti, mentre "la cooperazione nel lavoro è la migliore strada per un'adeguata utilizzazione e valorizzazione delle risorse umane" .
Il D.d.l. tutela ogni lavoratore impiegato in "tutte le tipologie di lavoro, pubblico e privato, comprese le collaborazioni, indipendentemente dalla loro natura, mansione e grado", e definisce i comportamenti cui esso si applica (identificanti quindi il mobbing) come "violenze morali e persecuzioni psicologiche perpetrate in ambito lavorativo" (artt. 1 e 2).
Integrano tale nuova fattispecie tutte le azioni che mirano esplicitamente a danneggiare una lavoratrice o un lavoratore e sono svolte con carattere sistematico, duraturo ed intenso.
All'interno di questa ampia definizione generale, conforme a quella raggiunta nella psicologia del lavoro, il D.d.l. fornisce un elenco di comportamenti specifici che, per costituire "violenze morali e persecuzioni psicologiche", devono "mirare a discriminare, screditare o, comunque, danneggiare il lavoratore nella propria carriera, status, potere formale e informale, grado di influenza sugli altri".
Sono inoltre aggiunti altri comportamenti che vengono considerati dal D.d.l. allo stesso modo, ed è previsto che "ciascun elemento concorre individualmente nella valutazione del livello di gravità".
Singolare è la previsione secondo la quale "ai fini dell'accertamento della responsabilità soggettiva, l'istigazione è considerata equivalente alla commissione del fatto".
Per quanto riguarda gli interventi ai fini preventivi, l'art. 3 prevede l'obbligo per i datori di lavoro e le rappresentanze sindacali aziendali di effettuare azioni di informazione periodica verso i lavoratori, azioni che "concorrono ad individuare, anche a livello di sintomi, la manifestazione di condizioni" dei comportamenti lesivi.
E' stabilito espressamente che tale attività informativa deve riguardare anche gli "aspetti organizzativi - ruoli, mansioni, carriere, mobilità - nei quali la trasparenza e la correttezza nei rapporti aziendali e professionali deve essere sempre manifesta".
Altri strumenti informativi previsti sono: la comunicazione del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale relativa alla tutela delle violenze morali e dalla persecuzione psicologica nel lavoro, che deve essere consegnata dal datore di lavoro ai lavoratori, al momento della formalizzazione di qualsiasi tipo di rapporto di lavoro, e affissa nelle bacheche aziendali: due ore aggiuntive di assemblea su base annuale, fuori dall'orario di lavoro, per trattare questo tema, cui possono partecipare rappresentanze sindacali aziendali, dirigenti sindacali ed esperti.
In riferimento agli interventi da attuare prima che le violenze morali e persecuzioni psicologiche abbiano cagionato danni, l'art. 3, comma secondo, stabilisce che quando sono denunciati i comportamenti lesivi al datore di lavoro e alle rappresentanze sindacali aziendali, questi due soggetti devono attivare "procedure tempestive di accertamento dei fatti denunciati e misure per il loro superamento", per la predisposizione delle quali "vengono sentiti anche i lavoratori dell'area aziendale interessata ai fatti accertati".
Per quanto riguarda le conseguenze dei comportamenti illeciti, l'art. 4 stabilisce che sia nei confronti di coloro che attuano le azioni lesive, si di chi denuncia consapevolmente violenze morali e persecuzioni psicologiche che si rilevino inesistenti per ottenere vantaggi comunque configurabili, "si può realizzare responsabilità disciplinare, secondo quanto previsto dalla contrattazione collettiva".
L'art. 5, inoltre, prevede, per il lavoratore che abbia subito il comportamento lesivo e non ritenga di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, la possibilità di adire il giudice ex art. 413 c.p.c. e di promuovere il tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c., anche attraverso le rappresentanze sindacali aziendali .
Sempre l'art. 5 sancisce la condanna ad opera del Giudice del responsabile del comportamento sanzionato al risarcimento del danno, da liquidarsi in forma equitativa.
In mancanza di ulteriori precisazioni a riguardo, è stato rilevato in dottrina che essa potrebbe ipotizzare il risarcimento del danno biologico, del danno morale ex art. 2059 c.c. slegato dall'integrazione di un reato e del danno professionale (da dequalificazione o perdita di chances di carriera).
Infine, l'art. 7 recita: "Su istanza della parte interessata, il Giudice può disporre che del provvedimento di condanna o di assoluzione venga data informazione, a cura del datore di lavoro, mediante lettera ai dipendenti interessati, per reparto ed attività, dove si è manifestato il caso di violenza morale e persecuzione psicologica, oggetto dell'intervento giudiziario, omettendo il nome della persona che subito tali azioni di violenza e persecuzione".
L'art. 8 prevede la nullità di tutti gli atti o fatti che derivano da comportamenti lesivi, nonché la presunzione, salvo prova contraria ex art. 2728, comma secondo, c.c., del contenuto discriminatorio dei provvedimenti, in qualunque modo peggiorativi della condizione professionale, relativi alla posizione soggettiva del lavoratore che abbia posto in essere una denuncia, compresi i trasferimenti ed i licenziamenti ("atti discriminatori e di ritorsione").
L'art. 6 stabilisce che "le variazioni nelle qualifiche, nelle mansioni, negli incarichi, nei trasferimenti o le dimissioni, determinate da azioni di violenza morale e persecuzione psicologica, sono impugnabili ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 2113 c.c., salvo risarcimento dei danni" come stabilito dall'art. 5 del D.d.l..
b- Il Progetto di legge Camera 6410
Il giorno 30 settembre 1999, è stata presentata alla Camera la proposta di legge (Camera 6410) dal titolo "Disposizioni a tutela dei lavoratori dalla violenza e dalla persecuzione psicologica".Tale progetto riserva un'ampia attenzione al tema della prevenzione e dell'informazione.
Ai datori di lavoro e alle rispettive rappresentanze sindacali è fatto obbligo: di adottare tutte le iniziative necessarie allo scopo di prevenire la violenza e la persecuzione psicologica; di fornire informazioni sui propri atti di esercizio del potere organizzativo che producano riflessi sul personale (assegnazioni di incarichi, trasferimenti, ecc.); di porre in essere tempestive procedure di accertamento dei fatti denunciati, eventualmente anche con l'ausilio di esperti esterni all'azienda; di adottare le misure necessarie per il loro superamento, individuate con il concorso dei lavoratori dell'area aziendale interessata.
E' altresì prevista un'estensione del numero di ore retribuite, che l'art. 20 dello Statuto dei Lavoratori assegna per l'esercizio del diritto di assemblea, al fine di consentire il dibattito sul tema delle violenze e delle persecuzioni psicologiche sul luogo di lavoro.
Forse meno convincenti sono le opzioni effettuate sotto il profilo delle forme di tutela apprestate.
Privilegiata è la tutela sanzionatoria, sia nella forma della responsabilità disciplinare, sia in quella dell'obbligazione risarcitoria.
Quanto alla prima, si tratta di una ipotesi di integrazione necessaria del codice disciplinare per volontà legislativa, che potrebbe configurarsi come misura di tutela obbligatoria ai sensi dell'art. 2087 c.c.: il datore di lavoro che omettesse di introdurla potrebbe incorrere per ciò solo nella relativa responsabilità contrattuale .
La responsabilità disciplinare è stabilita dall'art. 4 anche a carico di chi denuncia consapevolmente atti inesistenti, al fine di ottenere vantaggi comunque configurabili; è evidente che destinatario della sanzione non potrà essere colui che, persuaso della verità della propria denuncia, abbia in realtà solo travisato la realtà (magari proprio a causa di una sua particolarissima suscettibilità o fragilità emotiva.
Quanto alla tutela risarcitoria, recita l'art. 5 comma secondo (il comma primo si limita a richiamare le procedure di conciliazione e le norme procedurali e di rito degli artt. 410 e segg. c.p.c.) che il  "Giudice condanna il responsabile del comportamento sanzionato al risarcimento del danno, che liquida in forma equitativa".
E' prima di tutto, spontaneo interrogarsi sul significato del riferimento al "comportamento sanzionato": vuole forse indicare una necessaria succedaneità dell'intervento del Giudice rispetto a quello disciplinare? E se così non è, che significato riveste tale precisazione, che, oltre tutto, escluderebbe dal novero dei responsabili passibili di condanna il datore di lavoro, soggetto attivo e mai passivo del potere disciplinare?
Quanto al riferimento all'equità quale unico criterio di liquidazione del danno, sembra scontata la non riferibilità della previsione né al danno patrimoniale né al danno biologico, ma solo a quel danno psico-fisico "intrinseco" alla lesività della condotta mobizzante che trova definizione e delimitazione nel comma 4 dell'art. 1: menomazione della capacità lavorativa, pregiudizio per l'autostima, forme depressive.
Ma quello che un po' delude della disciplina della tutela giudiziaria, contenuta nel disegno di legge, è la povertà delle disposizioni volte a garantire una tutela ripristinatoria.
Potrà il Giudice, in sede di cognizione ordinaria, ma anche di procedimento cautelare, ordinare la cessazione della condotta mobizzante (quando posta in essere dal datore di lavoro) o la messa in atto, da parte dello stesso, delle misure e dei provvedimenti opportuni e necessari ad evitarne la prosecuzione quando la condotta provenga da altri dipendenti?
Probabilmente a questo risultato si potrà pervenire in via interpretativa, non diversamente da quanto è stato fatto in materia di demansionamento.
Unica forma espressamente prevista di restituito in integrum è l'annullabilità degli atti e delle decisioni concernenti le variazioni delle qualifiche, delle mansioni, degli incarichi, ovvero i trasferimenti, riconducibili alla violenza e alla persecuzione psicologica (art. 2).
Previsione certamente opportuna e tuttavia gravemente deficitaria, non solo nella qualificazione degli atti aggredibili (indeterminato essendo il connotato della "riconducibilità" alla persecuzione), ma soprattutto nella elencazione, apparentemente tassativa, degli stessi. In particolare colpisce il mancato riferimento al licenziamento e alle dimissioni forzate. Quanto al recesso del datore di lavoro, gli strumenti di tutela già esistenti offrono un certo margine di copertura delle possibili ipotesi (per esempio attraverso una valutazione del motivo di licenziamento addotto che ne valuti la fondatezza anche alla luce della possibile influenza di una preesistente situazione di mobbing) ma non garantiscono certo una copertura totale.
Sulla base della legislazione vigente, per esempio, è del tutto opinabile che un licenziamento per scarsa produttività sia suscettibile di annullamento in ragione della addebitabilità all'ambiente lavorativo del calo di redditività del lavoratore.
Allo stesso modo in cui il recesso del datore per superamento del periodo di comporto difficilmente potrà essere messo in discussione sulla base dell'ascrivibilità delle assenze ad una sindrome ansioso depressiva provocata da mobbing, almeno fino a quando una norma, di legge o contrattuale - collettiva, non sancisca la non commutabilità nel periodo di comporto delle assenze per malattia "da ambiente di lavoro".
Più grave ancora la carenza con riguardo alle dimissioni "forzate", spesso unica via di fuga del lavoratore mobbizzato - gli stessi psichiatri la indicano come unica soluzione nei casi più gravi - e altrettanto spesso reale obiettivo del datore di lavoro responsabile.
La possibilità di una tutela giudiziaria di tipo ripristinatorio sembrerebbe restare affidata all'esercizio dell'azione di annullamento delle dimissioni stesse per violenza morale, sia pure da intendersi, quest'ultima, anche alla luce della emergenza legislativa del fenomeno mobbing.
Manca anche una previsione di tutela sotto il profilo risarcitorio: diversamente da alcune proposte la tutela contro le molestie sessuali, non è espressamente previsto - benché sia certamente sostenibile in via interpretativa - il riconoscimento della giusta causa in caso di dimissioni "indotte", e soprattutto non è contemplata l'attribuzione di una particolare indennità a favore del recedente.
Pertanto, al ristoro del danno a norma del già esaminato art. 5 del progetto, sembrerebbe potersi aggiungere, de iure condito, soltanto il diritto all'indennità di preavviso, a meno di non volere aderire all'originale, se pur opinabile, soluzione della Pretura Trento, che alla lavoratrice indotta alle dimissioni dalle molestie sessuali del datore di lavoro ha riconosciuto il diritto alle mensilità ex art.2 Legge 108/90, giustificandolo con l'affermazione che l'originaria identità della tutela apprestata dal codice a favore, da una parte, del lavoratore licenziato in tronco senza giusta causa, dall'altra, del lavoratore dimessosi per giusta causa, debba perpetrarsi anche nel mutato panorama normativo, con l'estensione a questa seconda ipotesi della tutela prevista per la prima.
Come si vede, i margini di miglioramento ci sono e sono consistenti.
Tuttavia bisogna dare atto che questo disegno di legge, più del primo trattato, rappresenta, sino ad oggi, il tentativo più serio che sia stato fatto nel nostro ordinamento per suscitare l'avvio di un dibattito su una problematica che incide profondamente sulla dignità e sull'integrità psico-fisica del non irrilevante numero di lavoratori che ne sono coinvolti.

Il mobbing nella giurisprudenza italiana

E' necessario considerare il fenomeno mobbing non solo dal punto di vista clinico o etico- morale, ma anche e soprattutto da quello giuridico, ovvero dalla prospettiva dell'integrazione di una fattispecie giuridica produttiva di effetti nel nostro ordinamento.
In questo ambito risulta subito evidente che, sebbene di mobbing si parli in Italia solo da tempi recenti ed ancora sia assente una normativa specifica che lo individui e lo disciplini come unica figura, i vari tipi di comportamenti che vengono adesso complessivamente ricondotti ad esso integrano spesso fattispecie giuridiche già definite dal legislatore o dalla giurisprudenza, e che già trovano, quindi, una disciplina loro applicabile all'interno dell'ordinamento italiano.
Anche nell'attesa dell'emanazione di una legislazione ad hoc, dunque, laddove uno dei comportamenti ascrivibili al mobbing integri una di tali fattispecie individuate, sono applicabili gli specifici strumenti di tutela che permettono di scoraggiarne e sanzionarne il compimento.
Non è superfluo ricordare che, affinché però si realizzino condotte di mobbing, è considerato necessario che gli specifici comportamenti siano ripetuti nel tempo e preordinati al raggiungimento dello scopo di danneggiare il lavoratore, spesso spingendolo all'allontanamento.
a) - La responsabilità del datore di lavoro
Fondamentale rilievo riveste in materia la norma risultante dall'art. 2087 c.c., che, ad integrazione ex lege delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro, dispone "L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".
La costante giurisprudenza ha interpretato questa norma tenendo conto dei principi dell'ordinamento, e particolarmente del diritto alla salute sancito dall'art. 32 della Costituzione, del limite che l'art. 41, comma 2, della Costituzione, pone al principio della libertà di iniziativa economica privata laddove ne vieta l'esercizio con modalità tali da pregiudicare la sicurezza e dignità umana e di quello di correttezza e buona fede risultante dagli articoli 1175 e 1375 c.c.
In particolare l'art. 1175 pone una regola fondamentale statuendo che il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza nello svolgimento del rapporto obbligatorio.
In tema di esecuzione del contratto, quale è anche quello di lavoro, la buona fede si atteggia come impegno di cooperazione ed un obbligo di solidarietà che impone a ciascun contraente di tenere quei comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali, o dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, siano idonei a preservare gli interessi della controparte senza rappresentare un'apprezzabile sacrificio.
La buona fede rappresenta un vero e proprio dovere giuridico, che viene violato non solo nel caso in cui una delle parti abbia agito con il proposito doloso di recare pregiudizio all'altra (e tale potrebbe essere il caso del mobbing verticale cioè attuato volontariamente dal datore di lavoro direttamente o tramite altri compagni di lavoro dallo stesso istigati), ma anche se il comportamento da essa tenuto non sia stato, comunque, improntato alla diligente correttezza ed al senso di solidarietà sociale che integrano appunto il contenuto della buona fede (in tal caso il datore di lavoro potrà essere chiamato a rispondere a titolo di culpa in eligendo, se non sarà in grado di circondarsi di collaboratori competenti e corretti, e di culpa in vigilando, nel caso in cui ometta di vigilare sui propri dipendenti per evitare che si verifichino lesioni di un diritto soggettivo assoluto: quello alla salute).
Poiché nella fase di esecuzione del contratto le parti, al fine di conservare integre le reciproche ragioni, devono comportarsi con correttezza e secondo buona fede, anche la mera inerzia cosciente e volontaria, che sia di ostacolo al soddisfacimento del diritto della controparte, ripercotendosi negativamente sul risultato finale avuto di mira nel regolamento contrattuale degli opposti interessi, contrasta con i doveri di correttezza e di buona fede e può configurare inadempimento.
Tornando alla norma dettata dall'art. 2087 c.c., così interpretata, la regola giuridica è considerata norma di chiusura del sistema di protezione del lavoratore, che impone al datore di lavoro non solo l'adozione delle misure richieste specificatamente dalla legge, dall'esperienza e dalle conoscenze tecniche, ma anche l'obbligo più generale di attuare tutte le misure generiche di prudenza e diligenza necessarie al fine di tutelare l'incolumità ed integrità psico-fisica del lavoratore.
Da questa disposizione viene quindi fatto derivare sia il divieto per il datore di lavoro di compiere direttamente qualsiasi comportamento, quale ne siano la natura e l'oggetto, lesivo dell'integrità fisica e della personalità morale del dipendente, sia di prevenire e scoraggiare la realizzazione di simili condotte nell'ambito ed in connessione con lo svolgimento dell'attività lavorativa.
L'inadempimento di tale suo obbligo, genera la responsabilità contrattuale dal datore di lavoro.
In giurisprudenza è stato chiarito che la responsabilità diretta ex art. 2087 c.c. del datore di lavoro per la lesione della salute del lavoratore è esclusa quando sono eccezionali, inevitabili ed assolutamente imprevedibili le conseguenze che in concreto scaturiscono, per il soggetto passivo, dall'atteggiamento perpetrato in azienda (in questo caso si è ritenuto non sussistente il nesso causale).
Infatti, "per accertare se una condotta umana sia causa di un determinato evento, è necessario stabilire un confronto tra le conseguenze che, secondo un giudizio di probabilità ex ante, essa era idonea a provocare e le conseguenze in realtà verificatesi, le quali, ove non prevedibili ed evitabili, escludono il rapporto eziologico tra il comportamento umano e l'evento, sicchè, per la riconducibilità dell'evento ad un determinato comportamento, non è sufficiente che tra l'antecedente ed il dato consequenziale sussista un rapporto di sequenza, occorrendo invece che tale rapporto integri gli estremi di una sequenza costante, secondo un calcolo di regolarità statistica, per cui l'evento appaia come una conseguenza normale dell'antecedente".
Da quest'ultimo punto di vista, la Cassazione avrebbe escluso la possibilità di limitare la responsabilità del datore di lavoro per i danni fisici (sindrome depressiva e successivo infarto), provocati con il suo comportamento al lavoratore, in ragione dell'esistenza di una concausa rappresentata da una preesistente patologia coronaria; la Corte avrebbe affermato che una  limitazione di responsabilità può derivare solo dalla concorrenza di un altrui fatto colposo o doloso, ma non dalla concorrenza, nella causazione dell'evento, di una precedente malattia o di altro evento naturale ed imprevedibile.
Non diversamente la giurisprudenza di merito ha escluso che il datore di lavoro potesse essere, in tutto o in parte, esonerato dalla responsabilità per il danno biologico e morale sofferto dalla  lavoratrice molestata, in ragione dell'esistenza di una concausa del danno, rappresentata dallaparticolare fragilità personale della donna.
Conclusione del tutto corretta se si tiene conto, da un lato, del principio per cui il concorso di cause, anche se indipendenti dall'azione o dall'omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità tra questa e l'evento dannoso, e, dall'altro, della in operatività della limitazione della responsabilità contrattuale al solo danno prevedibile, ai sensi dell'art. 1225 c.c., allorquando l'inadempimento sia accompagnato da dolo, ovvero da una condotta intenzionalmente diretta a ledere la personalità del lavoratore.
L'inoperatività che, vale la pena sottolinearlo, potrà certamente essere opposta al datore di lavoro in tutti i casi di mobbing che siano ascrivibili ad una sua propria condotta o ad una sua consapevole e volontaria omissione; inoperatività che non ci sarà nemmeno bisogno di invocare nei casi - meno gravi e più ricorrenti -in cui alla persecuzione sul luogo di lavoro faccia seguito, come conseguenza prevedibile secondo la scienza medica e psichiatrica, una sindrome di tipo ansioso-depressivo.
La considerazione dell'inadempimento dell'obbligo del datore di lavoro di porre in essere tutte le misure necessarie al fine di proteggere l'integrità psico-fisica del lavoratore acquista particolare rilevo laddove si consideri che il datore venuto al corrente di condotte illegittime perpetrate dai suoi dipendenti ha a disposizione strumenti per intervenire a tutela dei lavoratori vessati .
In giurisprudenza è stata riconosciuta infatti la legittimità del licenziamento in tronco di lavoratori che abbiano posto in essere delle gravi condotte nei confronti di altri dipendenti.
In particolare ciò si è verificato con riferimento a comportamenti di molestia sessuale (e anche se il lavoratore era stato assolto in sede di giudizio penale), e in un caso in cui il superiore gerarchico, che aveva tentato in modo molesto di instaurare una relazione sentimentale con una dipendente a lui subordinata gerarchicamente, l'aveva poi sottoposta a vessazioni e discriminazioni.
Oltretutto è stato anche ritenuto in giurisprudenza che il licenziamento disciplinare può in questi casi così gravi, ed in generale in tutti i casi di comportamenti "lesivi dell'interesse dell'impresa e manifestatamene contrari all'etica comune o contraddistinti da rilevanza penale", essere fondato direttamente sulla legge, senza che sia necessaria la previsione del codice disciplinare di tali condotte.
Tali comportamenti, infatti, violano i doveri fondamentali del lavoratore ed i principi della convivenza civile, e sono tali da manifestare "consapevole ribellione o trascuratezza dell'autore del fatto nei confronti dell'assetto organizzativo in cui è inserito" . 
Il potere del datore di sanzionare disciplinarmente i lavoratori che mettono in atto comportamenti molesti verso gli altri può valere non solo nei casi in cui le condotte lesive siano compiute ad opera  dei superiori nei confronti dei soggetti sottoposti al loro potere gerarchico, ma anche nell'ipotesi opposta: il datore di lavoro può sanzionare, specificamente recedendo dal rapporto di lavoro, le condotte gravemente offensive, gli insulti, ingiurie e minacce dei lavoratori di livello inferiore nei confronti del superiore.
In tali condotte sono state spesso riscontrate lesioni del prestigio del datore di lavoro per il buon andamento dell'azienda, negazione del potere gerarchico e rifiuto di obbedienza all'ordine di lavoro legittimamente dato, con violazione dei diritti del datore all'ordinato adempimento della prestazione lavorativa e corrispondente violazione degli obblighi del lavoratore di diligenza e di osservanza delle disposizioni dettate per l'esecuzione e la disciplina del lavoro.
E' stato anche ritenuto licenziabile il lavoratore risultato essere il responsabile di diverbi ripetuti, tali da determinare un ambiente lavorativo insopportabile .
Secondo una parte della giurisprudenza, la responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c., può concorrere con quella extracontrattuale originata dalla violazione di diritti soggettivi primari (vengono in rilevo la lesione del diritto primario ed assoluto alla salute ex art. 32 Cost. e di quello alla sicurezza e dignità - nella specie dei lavoratori - sancito dall'art. 41, comma 2, Cost.) poiché sul datore di lavoro grava il generale obbligo di neminem ledere previsto dall'art. 2043 c.c. ed anche quello specificatamente stabilito dall'art. 2049 c.c. (responsabilità indiretta dei padroni e committenti per il fatto illecito dei loro dipendenti nell'esercizio delle incombenze lavorative).
Le norme appena richiamate possono inoltre combinarsi con altre applicabili alle specifiche condotte che integrano il mobbing (ad esempio l'art. 2103 c.c. nel caso in cui venga intaccato il valore professionale del lavoratore), e deve in particolare essere sempre tenuta presente anche la disposizione penalistica contenuta nell'art. 590 c.p. (reato di lesioni personali colpose), che sanziona, con previsione generale, chi cagiona per colpa una lesione personale ad altri soggetti.
Si potrebbe andare oltre e prospettare "un'apertura" verso un possibile passaggio dalla tutela della salute alla tutela del benessere: non è forse possibile che, mentre ci si sforza di ampliare in via interpretativa la gamma delle lesioni all'integrità della persona del lavoratore, suscettibili di tutela sotto l'egida del concetto di danno biologico, si trascuri di valorizzare il dato normativo, messoci a disposizione dal legislatore del 1942 e rappresentato dall'esplicita estensione dell'obbligo di protezione, posto dall'art. 2087 c.c. a carico del datore di lavoro, anche alla "personalità morale" del lavoratore?
Non si dimentica per caso che l'art. 41, comma 2 Cost. vieta l'esercizio dell'iniziativa economica in contrasto, fra l'altro, con la dignità umana ?
Non è forse possibile trarre dalla specificità e pregnanza della normativa esistente uno strumento di tutela immediata e diretta, anche preventiva e non solo risarcitoria, contro tutte le condotte di mobbing che siano ascrivibili, per azione o colpevole omissione, al datore di lavoro? E ciò a prescindere dalla insorgenza di una malattia fisica o psichica e in dipendenza della mera incidenza che la condotta produce sulle capacità e sul modo del lavoratore di valutare se stesso, di rapportarsi agli altri, di far valere la propria professionalità: in una parola, sulla sua personalità.
Il che costituisce già un danno, così come - forse - è già danno la spedita di energie psichiche e lo sforzo tramite il quale il lavoratore mobbizzato può resistere alla persecuzione, adeguando il proprio atteggiamento alle esigenze difensive, o ricercando compensazioni extra lavorative al senso di frustrazione inflittogli dal lavoro: la vittima del mobbing, infatti, non sempre è una persona malata, ma è sempre un individuo in difficoltà, anche se più o meno brillantemente fronteggiate.
b - Danni risarcibili e profili problematici dell'accertamento del danno Nel caso in cui sia riscontrata per comportamenti di mobbing la sussistenza di responsabilità in capo al datore di lavoro, la giurisprudenza ha ritenuto risarcibili diverse tipologie di danno .
Oltre alla pacifica risarcibilità del danno patrimoniale, incidente sulla capacità di guadagno o di lavoro del dipendente, è stata riscontrata la risarcibilità del danno morale e alla vita di relazione per i casi anche integranti reato (ex art. 2059 c.c. e 184 c.p.), nonché quella del danno biologico.
Quest'ultimo altrimenti detto danno alla salute, è come è noto un danno di natura non patrimoniale consistente nella menomazione dell'integrità psicofisica della persona in quanto tale, quindi non soltanto in riferimento all'attitudine a produrre ricchezza e ad ogni possibile conseguenza patrimoniale della lesione, ma anche in relazione alla totalità dei riflessi pregiudizievoli rispetto a tutte le funzioni naturali del soggetto nel suo ambiente di vita (situazioni, attività e rapporti, con rilevanza biologica, sociale, culturale ed estetica) .
In particolare, la risarcibilità del danno (biologico, e morale in caso di reato) è stata riconosciuta sia
per responsabilità contrattuale data dall'inadempimento degli obblighi scaturenti dall'art. 2087 c.c.,
sia per responsabilità extracontrattuale.
Quanto alle regole probatorie, la giurisprudenza ha fatto applicazione delle norme generali in materia di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale .
In base ad esse, chi domanda il risarcimento di un danno ingiusto secondo le regole della responsabilità aquiliana, deve provare la condotta che ha determinato il danno, il nesso causale ed anche la colpevolezza o il dolo di colui che è ritenuto responsabile.
Al contrario, quando la domanda di risarcimento è fondata sulla responsabilità contrattuale, è sufficiente che l'autore provi l'inadempimento, mentre l'art. 1218 c.c. permette di presumere la colpevolezza del debitore e pone a carico di esso la prova del contrario, vale a dire che "l'inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile".
Specificamente per l'accertamento della responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., tale regola è stata applicata ritenendo necessario che il lavoratore provi la sussistenza dei comportamenti illegittimi, il verificarsi dei danni ed il nesso causale tra le condotte e gli stessi, mentre grava sul datore di lavoro, per escludere la propria colpevolezza e quindi la propria responsabilità, provare di aver ottemperato all'obbligo ex art. 2087 c.c. adottando tutte le cautele necessarie per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore ed evitare il danno .
L'accertamento in sede giudiziale del pregiudizio subito dal lavoratore vittima del mobbing non è tuttavia sempre agevole, soprattutto laddove rilevino delle lesioni unicamente della sfera psichica od "esistenziale" del soggetto.
Il lavoratore si trova, infatti, a dover assolvere un rigido onere probatorio circa la sussistenza del nesso di causalità, o quantomeno concausa, delle condotte latu sensu persecutorie lamentate in relazione alla pretesa compromissione dell'equilibrio psicologico e/o dello stato psicofisico.
In dottrina si è già rilevata la problematicità della dimostrazione di tale effettivo nesso causale, sia in quanto la dimostrazione della sussistenza delle condotte "mobbizzanti" può, nella maggior parte dei casi, richiedere l'ausilio della prova per testimoni (tra cui potrebbero esservi gli stessi soggetti autori delle condotte lamentate), sia in quanto, anche laddove le condotte in questione fossero provate nella loro concreta realtà fattuale, non è affatto certo che venga riconosciuta la loro piena ed esclusiva efficacia causale in relazione ai danni asseritamene patiti dalla vittima, vista la natura del tutto peculiare degli effetti dannosi lamentati (in particolar modo patologie nervose o psichiche).
Con riguardo alle difficoltà di prova dei fenomeni di mobbing, significativa appare una recente sentenza della Cassazione che, a fronte di accuse di mobbing non provate, ha ritenuto giustificato un licenziamento per giusta causa per violazione del rapporto di fiducia, rilevando come la mancata acquisizione della prova impedisca al giudice l'accoglimento della domanda, pur non potendosi escludere che il reperimento delle fonti di prova possa risultare particolarmente difficoltoso a causa di "sacche di omertà" sempre presenti o per altre ragioni (nel caso di specie si trattava della denuncia, operata da una lavoratrice, di aver subito un trattamento persecutorio ed emarginante a seguito del rifiuto opposto alle molestie sessuali poste in essere da un superiore gerarchico).
Ed ancora, altra sentenza della Cassazione ha posto la parola fine ad un contenzioso che vedeva come protagonista un lavoratore intensamente impegnato nell'attività sindacale.
Questi lamentava di aver subito un comportamento persecutorio da parte del suo datore di lavoro: la società lo aveva più volte sanzionato, talvolta anche con il licenziamento; tuttavia, tali sanzioni erano risultate per lo più illegittime o comunque erano state ridotte dalla stessa società a seguito della loro impugnazione giudiziale da parte del lavoratore.
Inoltre, la società aveva in più occasioni querelato il lavoratore, anche se le querele si erano sistematicamente risolte in un nulla di fatto.
Il lavoratore lamentava che il datore di lavoro frapponeva ostacoli quotidiani allo svolgimento di ogni sua attività, lavorativa e sindacale.
Di conseguenza era rimasto vittima di disturbi nervosi con somatizzazioni (nausea, vomito, dolori epigastrici) e si era rivolto al Giudice del Lavoro chiedendo il risarcimento del danno biologico.
Il Giudice, dopo aver disposto una consulenza tecnica, aveva ritenuto che il comportamento del datore di lavoro avesse realmente causato una lesione della salute del lavoratore, conseguentemente condannandola al risarcimento del danno biologico, nella misura di 90 milioni delle vecchie lire.
La sentenza di primo grado veniva però riformata dal Giudice di appello; di qui il giudizio in Cassazione promosso dal lavoratore.
La Suprema Corte ha prima affermato il principio che nel caso in cui si controverta, tra lavoratore e datore di lavoro, in materia di danno biologico, la norma cui fare riferimento è l'art. 2087 c.c. (che impone al datore di lavoro di tutelare l'integrità fisica e psichica del lavoratore) e non l'art. 2043 c.c. (che obbliga l'autore di un fatto ingiusto al risarcimento del danno).
Come si può capire, la differenza non è di poco conto: in questo modo è la società che deve discolparsi e non il lavoratore che deve provare l'esistenza del fatto. Tuttavia la Corte ha anche ribadito che il lavoratore deve provare il nesso causale tra i comportamenti del datore di lavoro e il pregiudizio alla propria salute. L'affermazione è in sé condivisibile e corrisponde a principi consolidati.Tuttavia, lascia perplessi l'applicazione pratica di questo principio al caso concreto, dal momento che la Suprema Corte ha ritenuto che "il lavoratore non avesse provato l'esistenza del nesso causale", conseguentemente rigettando le domande del lavoratore.
Nel caso specifico, il lavoratore non lamentava un danno biologico subito a causa di un fatto eclatante (come potrebbe essere in casi di infortunio sul lavoro, o di dequalificazione protratta nel tempo). Al contrario, il lavoratore lamentava il danno biologico in conseguenza di un'attività persecutoria, che era fatta soprattutto di piccoli dispetti quotidiani, magari in sé di poco peso, ma che -sommati - avevano avuto un effetto dirompente sul suo equilibrio psicologico.
Questo descritto è un caso tipico di mobbing. Ebbene, se dovesse affermarsi il principio per cui, anche in casi come questi, la prova del nesso causale deve essere rigorosa, si capisce che il lavoratore ben difficilmente potrebbe trovare soddisfazione dei danni subiti, se non altro perché la prova del nesso causale, in casi in cui il danno non è stato causato da un unico comportamento eclatante ma da tanti piccoli dispetti quotidiani, è assai ardua da fornire.
c - Il mobbing come causa di danno esistenziale
Allorquando il danno da mobbing permane nel soggetto "colpito" e "leso" oltre un certo tempo e oltre la previsione meramente medico legale della sua entità e durata, viene spontaneo chiedersi se  esso non vada a collocarsi piuttosto in quella, diversa, categoria o voce di danno conosciuta, per la sua "permanente transitorietà", come "danno esistenziale", inteso quale danno a ciò che la persona "è", e non a ciò che la persona "ha", danno quindi lesivo di un diritto soggettivo della persona, garantito costituzionalmente; in buona sostanza, anch'esso "danno ingiusto" e, come tale risarcibile.
Molti autorevoli autori hanno sottolineato nelle loro opere che il "danno esistenziale" è una lesione di natura permanente caratterizzata da temporaneità, che può derivare da problematiche del lavoro (dequalificazione, licenziamento, cassa integrazione, infortunio, molestie sessuali, per rimanere nel campo del lavoro) ma anche da altre di diversa origine e natura (da malattia, da immissioni di rumore, da vacanza rovinata, dalla perdita di un congiunto, e così via), quale "somma di ripercussioni relazionali di segno negativo", per tutte le "rinunce a un facere" e quale compressione di attività non reddituari (danno alla vita di relazione, alla sfera sessuale e a tutte le altre espressioni di vita pregiudicate o limitate da simile voce di danno).
Orbene se a parere degli autori succitati, il danno esistenziale:
1. non è il danno biologico (inteso quest'ultimo come tertium genus, ovvero come danno alla salute in sé, quantificabile e liquidabile in sede medico-legale);
2. non è il danno psichico (inteso come patologia medica) cui può sovrapporsi, se si aderisce ad una nozione allargate del secondo e che è quantificabile con il supporto della medicina legale;
3. non è il danno morale (o pretium doloris), che cosa allora, nel campo della responsabilità civile, rappresenta il danno esistenziale, se non è tutto questo, tra le voci di danno risarcibili?
I cultori della teoria di tale voce di danno asseriscono che esso nasce dalla esigenza di reagire, con un equivalente ristoro, ad una aggressione ingiusta che provochi un mutamento in negativo del complesso delle relazioni dell'individuo in quanto persona.
Tutto ciò è facilmente comprensibile e constatabile nella quotidianità dalla condotta dei soggetti colpiti la cui esistenza subisce effettivamente uno stravolgimento sia del proprio essere persona che di soggetto calato nel sociale.
Ma quale ristoro è possibile se si tratta di un pregiudizio areddituale, non patrimoniale, tendenzialmente omnicomprensivo, in quanto qualsiasi privazione, qualsiasi lesione di attività esistenziale del danneggiato può dar luogo a risarcimento?
La risposta al quesito non è di facile soluzione, non avendo tale voce di danno una precisa matrice medico-legale.
Pur tuttavia, il "danno esistenziale", quale "danno ingiusto" e pertanto quale violazione del principio di cui all'art. 2043 del codice civile, sarà risarcibile quantomeno con il ricorso al criterio equitativo ex art. 1226 c.c., in quanto sicuro danno alla serenità familiare.
Il principio è stato accolto anche dalla Suprema Corte di Cassazione, in quanto al riconoscimento del danno da demansionamento professionale che "costituisce un bagaglio peggiorativo diretto a interferire negativamente nelle intime espressioni della vita".
Dovendosi muovere nell'ambito della risarcibilità in via equitativa il giudice dovrà pervenire ad una valutazione autonoma di ciascun capo di danno, provvedendo alla sua quantificazione quantomeno in via extratabellare e contemperando il danno esistenziale con le altre voci a tutela di un diritto
costituzionalmente garantito.
Per quanto riguarda invece il danno psichico, una volta quantificato in sede medico-legale, sarà risarcibile in virtù delle Tabelle del Tribunale in vigore nel luogo nonché delle prassi assicurative e giurisprudenziali in attesa di pervenire ad un criterio uniforme sul territorio nazionale del valore del punto del danno biologico, non essendo concepibile una diversa configurazione risarcitoria dello stesso danno a seconda delle diverse aree del Paese in cui le si tratta.

Considerazioni finali

Lo scopo principale della presente trattazione è quello di individuare qual è la tutela giuridica approntata dal nostro ordinamento contro il mobbing e quindi di verificare in che misura essa sia stata influenzata o determinata dagli orientamenti sviluppatisi al riguardo a livello europeo.
Dall'analisi effettuata emerge innanzi tutto un dato importante: non esiste per il momento una normativa comunitaria in materia di mobbing anche se alcuni riferimenti indiretti al riguardo possono essere individuati in normative di carattere generale come quella sulla tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro o sull'uguaglianza di trattamento tra uomini e donne, o più in generale da tutta la normativa comunitaria antidiscriminatoria. Si tratta, però, di strumenti poco specifici che necessitano di essere reinterpretati a tal fine e dai quali non sempre si riesce a ricavare un'adeguata tutela contro il mobbing. Di tale situazione si sono resi consapevoli recentemente anche gli organi comunitari, Parlamento in testa, che stanno ora valutando l'ipotesi di adeguare la normativa esistente o di introdurre strumenti legislativi ad hoc.
In assenza di una normativa comune sulla materia la questione mobbing è stata, dunque, affrontata a livello dei singoli paesi europei secondo le specificità dei vari ordinamenti giuridici ma con alcuni dati in comune: 1) la definizione del concetto di mobbing non presenta significative differenze tra i vari paesi e si riallaccia quasi sempre alle ricerche di natura psico-sociale sviluppatesi in materia; 2) la tutela giuridica contro il mobbing, specie là dove non si è ancora adottata una specifica legislazione in materia, viene normalmente fatta scaturire dalla normativa in materia di tutela della dignità e professionalità del lavoratore e da quella relativa alla tutela della sicurezza e salute nei luoghi di lavoro. Emergono così alcuni fili conduttori che legano insieme tutte le esperienze europee in questa materia e che si riscontrano non di meno anche all'interno del nostro ordinamento.
L'influenza delle esperienze degli altri paesi europei in tema di mobbing si è registrato prima a livello dottrinale e soltanto recentemente, come spesso accade, anche a livello giurisprudenziale e normativo.
Tale influenza è sicuramente determinante sotto il profilo definitorio. Il concetto giuridico di mobbing, infatti, è il risultato di una trasposizione operata dalla dottrina dall'ambito medico dove si è sviluppato a partire dai primi anni ottanta a seguito degli studi scandinavi di Heinz Leymann, rielaborati per l'Italia dal prof. Harald Ege. Lo stesso giudice di Torino che per la prima volta introduce il concetto di mobbing in una corte italiana recepisce nella sua sentenza una definizione di provenienza extragiuridica.
Per quanto riguarda la giurisprudenza occorre distinguere due periodi: quello del c.d. pre-mobbing, in cui sostanzialmente l'influenza degli orientamenti europei è stata poco evidente in quanto il giurista non si preoccupava di verificare se il comportamento vessatorio messo in atto ai danni del lavoratore avesse o meno le connotazioni di una condotta di mobbing ma si limitava semplicemente a stabilire se la condotta rivestisse i caratteri della fattispecie civilmente o penalmente sanzionata; ed il periodo più recente del mobbing per così dire ufficializzato (a cominciare dalle sentenze torinesi in materia), in cui il mobbing viene riconosciuto come fenomeno giuridico autonomo anche se ancora privo di una normativa specifica di tutela.
L'influenza delle esperienza europea è poi evidente nella normativa in preparazione dove spesso il progetto di legge è accompagnato da un'ampia relazione descrittiva circa la situazione negli altri paesi europei e sulle soluzione in essi adottate. Gli stessi strumenti di contrasto individuati sono per la gran parte mutuati dalle analoghe misure predisposte negli ordinamenti di altri paesi comunitari adattati con alcune varianti alla situazione locale. E' evidente, nel nostro sistema nazionale, l'esistenza di carenze soprattutto sotto il profilo informativo e procedurale del fenomeno del mobbing. Manca cioè un'adeguata sensibilizzazione al problema, sia tra i lavoratori, sia tra il management aziendale, visto che ancora oggi, come emerso da studi psicologici e sociologici, spesso non si conosce nemmeno il significato del termine. Da questo punto di vista appaiono
sicuramente utili tutti quei provvedimenti legislativi o contrattualistici che propongono interventi di prevenzione ed informazione sul fenomeno o mirano a creare procedure di accertamento dei fatti ad hoc sotto il controllo dei rappresentanti sindacali, aziendali di esperti in materia anche esterni all'organizzazione aziendale.
Incerta appare, invece, l'utilità di procedere alla codificazione giuridica del concetto di mobbing in quanto se da un lato contribuirebbe sicuramente a chiarire i contorni del fenomeno, dall'altra una definizione troppo angusta o troppo specifica dello stesso rischierebbe di escludere dalla fattispecie le modalità più subdole ed indefinibili a priori con cui il fenomeno si realizza.
Un elemento che dovrebbe essere, invece, risolto ma che tutta la normativa in preparazione tralascia, è quello probatorio, che, come si è avuto più volte modo di evidenziare nel corso dell'analisi giurisprudenziale, costituisce il nodo problematico maggiore per la vittima di mobbing che spesso si trova di fronte alla impossibilità di dimostrare le vessazioni e persecuzioni subite perché chi dovrebbe fornire la fonte di prova, per lo più colleghi di lavoro, che si rifiutano di farlo per paura di reazioni da parte del mobber. In questo senso sarebbe forse utile che il legislatore si preoccupasse di alleggerire il carico probatorio del mobbizzato magari attraverso lo strumento dell'inversione dell'onere della prova una volta che la vittima abbia fornito un principio di prova (ad esempio l'esistenza di provvedimenti sanzionatori o determinanti mutamenti di mansioni o funzioni non giustificate o non sufficientemente motivate) o l'impiego di presunzioni di vessatorietà per alcune tipologie di comportamenti. Tali agevolate modalità probatorie a favore del lavoratore dovrebbero comunque essere dosate in modo da evitare che le pratiche vessatorie invertano la rotta e diventino strumento di ricatto dei lavoratori nei confronti dei vertici aziendali.
Un ultimo rilievo riguarda la questione del risarcimento del danno che la maggior parte dei provvedimenti normativi sul tappeto oggi prevede ma senza precisare quale tipo di danno sia risarcibile tra il danno patrimoniale, quello biologico, quello morale o quello esistenziale. Si è visto, infatti, come la questione sia quanto mai confusa e, il legislatore, nel caso decida di intervenire in materia, farebbe bene a chiarire il punto onde evitare il fiorire di orientamenti giurisprudenziali contrastanti.

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