Tommaso Greco, Mobbing: conflitti quotidiani nel mondo del lavor



Mobbing: conflitti quotidiani nel mondo del lavoro


Mobbing: conflitti quotidiani nel mondo del lavoro

di Tomaso Greco

Il mobbing come fenomeno di massa

Si sente parlare molto spesso di mobbing. Ne parlano ovviamente le riviste specializzate, i medici, i sindacalisti, gli avvocati e quanti hanno quotidianamente a che fare con l'organizzazione del lavoro.
Il dato più interessante e, per certi versi, sorprendente, è che di mobbing si parla soprattutto sulla stampa a larga divulgazione, nelle trasmissioni di interesse generale, in luoghi che non sono sempre teatro di discussioni riguardo ai fenomeni interni al mondo del lavoro.
Sul mobbing è uscito un film, che ha avuto anche un discreto successo.
La rappresentazione cinematografica ha segnato un punto di non ritorno tra il fenomeno inteso come strettamente oggetto di indagini scientifiche e la sua diffusione mediatica.
Infatti l'assenza di una definizione normative e l'amplia visibilità che godono le notizie di mobbing (o le notizie di qualunque genere che vengono proposte come mobbing) possono portare a un'erronea percezione delle dimensioni del fenomeno e a una falsa rappresentazione delle sue reali caratteristiche.
Usando un termine in voga qualche anno fa, si potrebbe definire il mobbing (o meglio, tutto quello che attorno al mobbing si è creato) un "tormentone".
Sono proposti all'opinione pubblica fatti che mobbing non sono, come ad esempio delle violenze sessuali in azienda o un demansionamento, il che porta, spesso, a autodefinirsi mobbizzati lavoratori che non lo sono affatto.
Le ricadute di questo fenomeno sono incalcolabili e riguardano aspetti psicologici e di tutela giuridica del lavoratore.
Difatti l'aver allargato l'area di percezione del mobbing crea situazioni in cui lavoratori che subiscono un torto (dovuto a un errore di gestione del personale o a semplice disattenzione) si sentono vittima di un meccanismo sadico, quanto ipotetico, di violenze nei loro confronti.
Altro aspetto da non sottovalutare è quello della tutela giuridica degli interessi lesi. Intentare una causa per mobbing significa dover dimostrare "[..]particolari indici da cui desumere l'esistenza di un complessivo e perdurante disegno persecutorio e di una specifica finalità vessatoria, ovvero della volontà, da parte della compagnia aerea, del capo scalo o degli altri colleghi dell'odierna ricorrente, di emarginare e svilire[..]"1 il lavoratore.
Si tratta di uno sforzo probatorio particolarmente complesso, che rischia di dilatare i tempi di svolgimento del processo senza portare alcun vantaggio peculiare al lavoratore, nel caso si tratti di una violazione già normata e con una consolidata giurisprudenza alle spalle, senza che dietro tale violazione ci sia chissà quale disegno eliminatorio.
Si è fatto un gran parlare di mobbing anche nel mondo dello sport professionistico, che ha una natura molto diversa dagli ambienti dove viceversa il mobbing è stato analizzato.
Il primo caso per il quale si è parlato diffusamente di mobbing nel calcio professionistico è quello del giocatore cileno Luis Antonio Jimenez, ai tempi in forza alla Ternana.
Jimenez fece ricorso al giudice del lavoro di Terni, sostenendo di essere stato vittima di vessazioni, persecuzioni e demansionamento, fino a essere escluso dalla nomale attività sportiva, privato della fascia di capitano e costretto ad allenarsi da solo. Si è poi arrivati a un accordo extragiudiziale per la cessione del giocatore in prestito alla Lazio. (Tribunale Civitavecchia, sentenza n. 899 20.07.2006)
Il caso non è rimasto isolato e le cronache (sportive) si sono trovate araccontare del (presunto) mobbing del Real Madrid nei confronti diAntonio Cassano. Ben più rilevante è stato il caso dei tre calciatori delCatania, Biso, Falsini e Pantanelli, che ha portato alla condanna dellasocietà sportiva siciliana da parte del Collegio Arbitrale della Lega Calcio. Si trattato del primo caso di giudizio su un fatto che è stato rappresentato, dalla stampa sportiva e non, come mobbing sportivo.
Senza contare i casi in cui il termine mobbing è stato accostato a situazioni di svuotamento delle mansioni nel campo dell'informazione radio-televisiva e dello spettacolo, ambiti con una forte cassa di risonanza, per certi versi anche emotiva, tra i destinatari del messaggio.
Pare difficile trovare un punto di contatto tra una così forte diffusione mediatica e la realtà di un fenomeno, che sembrerebbe essere allo stesso tempo meno diffuso e più complesso.
L'allargare le dimensioni del mobbing rende più difficile trovare soluzioni efficaci per combatterne gli effetti e apre piuttosto la strada a manifestazioni demagogiche, che molto poco si prestano a mettere in luce, agli occhi dell'opinione pubblica, gli aspetti fondamentali della relativa fenomenologia.
Allo stato attuale possiamo parlare del mobbing come di patologia che nasce internamente alle dinamiche delle relazioni umane e organizzative del modo del lavoro, ossia come risultante di rapporti conflittuali perduranti nel tempo, tali da assumere vere e proprie forme persecutorie.

Mobbing come conflitto tra individui

Il termine mobbing è principalmente usato per descrivere situazioni di violenza psicologica nell'ambito degli ambienti di lavoro. Vale la pena, prima di entrare nel vivo della materia, di precisare che, in altri Paesi, al termine mobbing afferiscono episodi di diversa natura, come, ad esempio, la violenza tra i banchi di scuola e nelle caserme.
L'analisi del mobbing come fenomeno interno al mondo del lavoro, che si evidenzia con peculiarità proprie a partire da studi sociologici e psicologici in materia, permette di analizzare il fenomeno del mobbing in maniera distinta dal bullismo, dal nonnismo e dalle violenze sessuali in genere, categorie con le quali sono  individuabili delle affinità, ma anche delle profonde differenze strutturali.
Una corrente definizione è data da Harald Ege, che definisce mobbing "una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell'impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell'umore che possono portare anche a invalidità psicofisica permanente."2 Si evince, dunque, una sistematicità di comportamenti e non un'azione singola o occasionale, né una serie di azioni tra loro slegate.
Deve trattarsi di una pluralità di azioni, anche di natura eterogenea, costruite attorno a una finalità da raggiungere.
E' interessante vedere quale possa essere l'obiettivo, che cambia in relazione alla posizione della vittima e dell'aggressore. Può trattarsi dell'esclusione dall'ambiente lavorativo, della mancata assunzione, di una mancata promozione o di un mancato riconoscimento professionale ed economico.
Va detto che l'obiettivo, perseguito con una strategia scientificorazionale, non sempre trova le sue ragioni remote in una valutazione strettamente razionale.
Un'azione mobbizzante perfettamente riuscita può avere, ad esempio, alla base una strategia aziendale volta ad aggirare la normativa sull'interruzione dei rapporti di lavoro e in questo caso le ragioni andrebbero cercate in una organizzazione del lavoro irrispettosa della personalità del lavoratore, ma può anche scaturire da un'incompatibilità personale, le cui motivazioni soggettive possono affondare profondamente nella psiche tanto della vittima che dell'aggressore.
Proprio su quest'ultimo aspetto vale la pena di soffermarsi. Studiare le relazioni individuali nell'ambiente di lavoro non può prescindere dall'analisi di una condizione umana che si esplica, com'è naturale, tanto nell'orario d'ufficio che all'esterno. Infatti è riduttivo pensare che i lavoratori seguano solo parametri inerenti alle dinamiche lavorative.
Non è affatto detto che una sentimento di invidia possa essere determinato esclusivamente dalla successo professionale del soggetto invidiato, dato che le ragioni possono benissimo essere esterne all'ambiente di lavoro e comportare quindi imprevedibili ricadute nell'organizzazione del lavoro stesso.
Introducendo il concetto di doppio-mobbing3 si può facilmente superare il confine artificiale tra uomo lavoratore e uomo nel tempo libero.
Difatti il lavoratore che subisce delle azioni di attacco alla personalità tenderà per lo più a trasferire lo stress così accumulato nella vita privata, ma non è questo il dato più rilevante. Riveste maggior interesse, infatti, considerare ciò che avviene una volta trasportata la sofferenza nel contesto familiare e affettivo del lavoratore, dove potremmo assistere dapprima a un "effetto assorbimento", ossia a delle azioni affettive di supporto al mobbizzato, e in un secondo momento al vero e proprio doppio-mobbing, ossia ad una crescente insofferenza nei confronti della vittima, che si troverà così a dover convivere con un clima ostile tanto al lavoro, quanto tra le mura domestiche.
La posizione della vittima e dell'aggressore comporta a sua volta una diversa qualificazione del mobbing. Distinguiamo infatti tra bossing, ossia il mobbing c.d. top-down, e mobbing tra colleghi di pari livello, c.d. orizzontale. A queste due differenti caratterizzazioni corrisponde un differente coinvolgimento e diversi tempi di reazione da parte dell'organizzazione aziendale.
Esiste poi la possibilità di mobbing down-top, che ha la caratteristica di un ammutinamento nei confronti di un superiore gerarchico.
Quest'ultima possibilità, che non può essere esclusa a priori, riveste un'importanza marginale nella descrizione del fenomeno, in quanto fortemente minoritaria nella casistica complessiva.
In ogni caso, il mobbing, che nasce come rapporto conflittuale tra due soggetti, tende a produrre i propri effetti soprattutto al di fuori di questo rapporto, dovendo tanto il mobber quanto la vittima cercare alleanze (di oppressione o di resistenza) e allo stesso tempo riuscire a rappresentare la propria posizione come corretta agli occhi della comunità aziendale.
Nei casi di bossing subentrano ulteriori automatismi dovuti alla posizione preminente dell'aggressore. Si tratta dell'esercizio di una leadership formale, dove i meccanismi di obbedienza prescindono dalla completa condivisione dell'azione violenta e seguono piuttosto dinamiche utilitaristiche (consce e inconsce) e di tutela della propria posizione.
Infatti appoggiare il capo significa acquistare visibilità e ottenere in futuro eventuali riconoscimenti. Di converso assumere un atteggiamento di non adesione al bossing significa rischiare di isolarsi in una situazione conflittuale dove, se oggi non si è vittime nell'immediato, nulla toglie che lo si possa essere in un secondo momento.
Proprio questo aspetto della problematica può dar luogo ad un rilevante costo indiretto del mobbing per l'azienda, in quanto anche i lavoratori non mobbizzati, che percepiscono però l'alterazione dei rapporti umani, tenderanno laddove possibile a mantenere un profilo di fidelizzazione basso, addirittura cercando soluzioni di trasferimento in altre unità lavorative o in altre aziende.
In ogni caso l'effetto "branco" rafforza il mobber e mina le difese della vittima, in modo tanto più incisivo quanto più il branco sarà compatto al proprio interno e convinto della necessità della propria azione di esclusione. Non a caso Heinz Leymann adotta tra le prime definizioni di mobbing "[..] la comunicazione ostile e non etica sul posto di lavoro, diretta sistematicamente da uno o più soggetti soprattutto verso un soggetto che, a causa del fenomeno, è messo in una condizione senza difesa[..]", ossia attribuisce un valore strategico all'elemento della comunicazione.
Quest'ultimo elemento va valutato nelle sue distinte direzioni di comunicazione nei confronti della vittima, ossia lo stabilire relazioni distorte, parziali o addirittura interromperle, e comunicazione nei confronti del resto dell'ambiente di lavoro.
Le due categorie comunicative, all'apparenza diverse, sono in realtà in stretta correlazione, in quanto alle azioni mobbizzanti vere e proprie si affianca un clima diffuso e costante di mobbing percepito, di ostilità diffusa.
La possibilità d'intervento da parte dell'azienda, a questo punto, di certo poco vigile ab origine, si riduce ulteriormente. Deve condividersi infatti l'analisi di Silvia Ferri, riguardo al processo di apprendimento organizzativo, ossia la tendenza a introiettare la cultura e i valori di riferimento aziendali.
Dunque i meccanismi aziendali vengono percepiti come normalità, condivisi e addirittura vissuti come male necessario, qualora vadano a nocumento dei lavoratori o di parte di essi.
Appare chiaro che l'intervento dell'azienda dovrebbe avvenire in modo drastico per essere risolutivo, rischiando però di confliggere con il principio di coerenza aziendale che vorrebbe che i comportamenti nelle singole unità e uffici fossero orientati automaticamente a riflettere l'equilibrio aziendale.
In altri termini, destituire, trasferire, punire un capo che ricorre al mobbing o che tollera situazioni di conflitto, rischia di mettere in crisi il rapporto fiduciario tra lavoratori e azienda, trovandosi l'azienda stessa a dover giustificare l'aver attribuito precedentemente una posizione di autorità alla persona ora rimossa.
E' quindi più probabile che l'azienda cercherà di dirimere la questione accettando la situazione di fatto, ossia, con un paragone bellico, imponendo un cessate il fuoco che non metta in discussione lo status quo, gli obiettivi raggiunti mediante l'azione violenta. Di contro l'azione violenta stessa non verrà riconosciuta come tale e tutti i provvedimenti del caso, sia nei confronti del capo sia nei confronti dei lavoratori, verranno assunti allo scopo di rimuovere le cause di possibili conflitti futuri.
Nelle tre azioni tipicamente mobbizzanti (attacco alla comunicazione; attacco alla reputazione; attacco alla professionalità) rientrano un gran numero di atteggiamenti, di azioni e financo di volute omissioni, che non possono avvenire senza una responsabilità sia pure indiretta dell'azienda.
Se da un lato un piano preordinato e strategico di estraniazione del lavoratore rispetto ai risultati del proprio operato, finalizzata all'ostruzione di una carriera o all'estromissione volontaria dal luogo di lavoro, è certamente grave, d'altro lato è più facilmente individuabile dalle conseguenti vessazioni e dalla disparità di trattamento perpetrate nei confronti della vittima.
Diverso è il caso in cui la dirigenza preferisca prendere in considerazione un criterio di "selezione naturale", dove per un singolo posto ambito da un numero consistente di lavoratori (ad es: una promozione o un contratto al termine di uno stage) venga tollerato tra i concorrenti ogni genere di scorrettezza, chiudendo un occhio o due.
Posto che è difficile considerare il criterio appena esposto come economicamente conveniente all'azienda stessa o come utile al fine di scegliere davvero la persona più idonea a ricoprire un determinato ruolo, è certo che, per quanto l'azione mobbizzante risulti essere indiretta e perpetrata passivamente, non elude le responsabilità che spettano all'azienda a partire dal dettato Costituzionale. Il secondo comma dell'art. 41 Cost. pone infatti a limite dell'iniziativa economica privata (a fortiori vale quindi per il pubblico impiego) il non "[..]svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.[..]".
Del resto, come si dirà in seguito, larga parte della tutela giurisprudenziale si basa su una lettura attenta dell' art. 2087 cc, che pone a carico dell'imprenditore l'onere di "[..]adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro."
Altrettanto meritevole di attenzioni e non meno problematico, è il caso in cui, di fronte a un insuccesso dell'azienda, attribuibile alla dirigenza o a rovesci del mercato, vengano scelti dei capri espiatori.
Quale che sia il criterio di scelta delle vittime, esso risponde a dei meccanismi e a delle dinamiche interne, non del tutto dissimili da quelle rappresentate dal classico cinematografico "Orizzonti di gloria" di Stanley Kubrick dove, nel contesto del primo conflitto mondiale, a seguito di un attacco fallito un generale ordina la fucilazione di tre uomini scelti a caso e accusati di viltà e codardia.
Neppure in quel caso è chiaro il confine tra il "voler dare l'esempio" e il deviare la ricerca della reale imputabilità della responsabilità del fallimento.
Una delle tre vittime è scelta per precedenti contrasti personali che si riflettono solo indirettamente sulla sua professionalità, ma certamente giocano un ruolo determinante nella scelta finale.
Si passa quindi da un'azienda passiva per incapacità di intervento a un'azienda passiva per scelta razionale, così come si è visto che la responsabilità dell'azienda può essere diretta e persino esclusiva.
D'altro canto, quando l'azienda vuole intervenire a tutela della vittima, non è affatto detto che l'intervento sia un deus ex machina che si inserisce in una situazione nettamente definita. Potrebbe infatti essere molto difficile individuare carnefici e vittime, soprattutto per la contiguità spazio-temporale (la vita d'ufficio) che le accomuna.
Senza contare che la capacità di resistenza della vittima può protrarre il conflitto ben oltre le iniziali aspettative dell'aggressore.
La situazione di stress generata da un'azione mobbizzante non è immediatamente percepita come tale, in quanto, come dimostra la curva di arousal, i soggetti sottoposti a uno scarso livello di attivazione, così come i soggetti sottoposti a un eccessivo livello di attivazione, tenderanno di per sè ad avere prestazioni non ottimali.
Il concetto di stress applicato alle dinamiche del lavoro va letto in due distinte fasi, ossia quella dell'eustress (che produce l'effetto di un miglior rendimento) e il distress (che comporta una sofferenza). Il passaggio dall'una all'altra fase non è meccanico e non dipende esclusivamente dai fattori di stress, quanto dalle caratteristiche del soggetto colpito. Alcune variabili, come l'età, il grado di formazione personale e professionale, la mansione ricoperta, il quadro psicologico individuale, influenzano in modo determinante l'inizio della percezione del mobbing.
Sarebbe altrettanto fuorviante pensare alla vittima come soggetto meramente passivo. I mobbizzati possono adottare strategie diverse di reazione, talune razionali, altre del tutto irrazionali (talvolta controproducenti).
Tra le strategie razionali è possibile distinguere tra reazioni dirette contro l'azione mobbizzante o reazioni dirette contro le conseguenze dell'azione mobbizzante.
Per fare un esempio comprensibile, è come immaginare un castello medioevale cinto d'assedio. Gli assedianti sono, ovviamente, i mobber.
Con il perdurare dell'assedio, inizieranno a mancare nel castello i viveri più elementari, che più dell'assedio stesso fiaccheranno le resistenze e decideranno l'esito della battaglia. Gli abitanti del castello hanno due alternative (oltre naturalmente a trattare la resa): provare una sortita, rischiando il tutto per tutto, oppure cercare opzioni diverse di approvvigionamento, magari cercando di rompere per via diplomatica il fronte degli assalitori.
La prima può essere una scelta felice qualora si abbia la possibilità di prevederne un esito positivo. Se il lavoratore denuncia il mobbing alla dirigenza aziendale e ha il fumus di vedere riconosciute le proprie ragioni, probabilmente opterà per questa soluzione. Se viceversa ha il sentore che l'azienda non lo appoggerà, per ragioni di varia natura (in parte sopra trattate), si troverà costretto ad adottare strategie di contenimento degli effetti dello stress. Questa seconda soluzione si caratterizza con azioni e modalità comportamentali tali da rimuovere i contatti con le fonti di stress e organizzare al meglio la propria convivenza con le fonti inevitabili.
Sarebbe comunque frutto di una lettura approssimativa e priva di prospettiva non inquadrare i possibili comportamenti in uno sviluppo temporale del conflitto. E' infatti assodato che il mobbing sia un fenomeno che nella maggior parte dei casi prevede una escalation di violenze, fino a creare situazioni di incompatibilità umana e lavorativa irreversibili.
Esistono infatti modelli di sviluppo dell'azione mobbizzante, che scompongono l'azione in fasi diverse, relative alla progressiva degenerazione dei rapporti.
Gli studi di Heinz Leymann portarono nel 1990, con il Leymann Inventory of Psycological Terrorism, a costruire un modello a quattro fasi di stadi evolutivi del mobbing.
La prima fase è individuata nel conflitto quotidiano, ossia la normale conflittualità, che può per certi versi essere considerata fisiologica, ma che, allo stesso tempo, se irrisolta, può portare al secondo passaggio, ossia all'inizio dell'azione mobbizzante vera e propria.
La seconda fase, contrassegnata dall'inizio della violenza psicologica, si caratterizza per la scelta di una vittima, per l'etichettamento del mobbizzato. La principale differenza tra la prima e la seconda fase sta nel passaggio da un conflitto non indirizzato, ambientale, a un conflitto mirato e consapevole.
Nella terza fase troviamo gli errori e gli abusi dell'amministrazione del personale, è il momento in cui entra in gioco la capacità da parte del management di rappresentarsi l'intera vicenda e la volontà di intervenire.
E' un passaggio particolarmente delicato, perchè riguarda non più il conflitto tra due soggetti, ma l'intera organizzazione aziendale. Difatti, quale che sia la decisione finale, si creerà un precedente tale da condizionare successivamente rapporti tra lavoratori e manager.
Bisogna in ogni caso premettere che la scelta che verrà assunta non è completamente libera da condizionamenti. Infatti solo un modello di organizzazione aziendale efficiente permette alla dirigenza di avere un quadro complessivo e chiaro. Nelle tre categorie organizzative proposte da Cinzia Frascheri6, vale a dire azienda sensibile, azienda resistente e azienda assente, solo la prima sembra essere adeguata a conoscere in profondità le dinamiche del conflitto.
La quarta fase riguarda l'esclusione dal mondo del lavoro, che di solito è volontaria e conseguente a una situazione ormai compromessa, dove la vittima presenta patologie psico-fisiche e non ha altra scelta.
E' bene ricordare che il modello Leymann è principalmente modellato sul nord-europa, in particolare sulla realtà svedese.
Nel 1997 Harold Ege ripropone il modello Leymann, al quale vengono però aggiunte alcune varianti, in parte conseguenza dall'adattamento del primo modello alla realtà italiana.
Ege introduce difatti una pre-condizione (altrimenti detta condizione zero). E' simile alla prima fase del modello Leymann, con un sostanziale differenza: siamo sì di fronte a un atteggiamento diffuso di micro conflitti, di attriti, di grandi e piccole incomprensioni, ma è socialmente accettato, ritenuto ontologico dell'ambiente lavorative e, per questo, nessuno si pone il problema di superarlo.
Altro punto di differenza tra i due modelli è una maggiore attenzione alla situazione psicologica della vittima nel modello italiano (fase 3 e 5). Le ragioni di queste variazioni sono probabilmente da ricercare nella distanza di sette anni tra i due modelli, sette anni nei quali si è progressivamente accentuata l'attenzione all'aspetto patologico, alle conseguenze del mobbing.
In virtù di queste differenze si può considerare il modello Leymann un modello oggettivizzante, di converso il modello Ege un modello misto, dove a fianco degli aspetti oggettivi si introducono elementi particolari di attenzione alla condizione soggettiva della vittima.
Leymann ha poi individuato 45 tipi di azioni mobbizzanti, suddivise in 6 differenti categorie, modello successivamente ampliato dai tedeschi Dieter Zapf e Carmen Knorz7 con 39 altre azioni.
E' interessante vedere come le 84 tipologie di azioni mobbizanti non siano sufficienti a esaurire il novero delle azioni possibili, che hanno di fatto come unico limite la fantasia dell'aggressore.
Anche il parametro del tempo nel mobbing sembra essere più che altro indicativo. Dapprima teorizzato come elemento essenziale dell'azione mobbizzante, arrivando persino a inserire il tempo come discrimine tra situazioni di mobbing e violenze psicologiche di altro genere, riveste oggi un'importanza marginale.
Infatti la natura dell'azione mobbizzante non si esplica con la presenza di caratteristiche standardizzabili, in quanto l'eterogeneità delle situazioni in cui il mobbing può prendere forma non sembrerebbero consentire una classificazione ex ante delle tipologie di violenza psicologica.
Le prime sentenze in materia risalgono al 1999. In un lasso di tempo relativamente breve, e in assenza di una normativa specifica, si sono consolidati alcuni criteri di tutela del lavoratore. La sentenza emessa dal Tribunale di Torino il 6/10/1999 (Erriquez c.Ergom Materie Plastiche) individua il mobbing come fatto notorio e in particolare ricerca la sua definizione e le sue caratteristiche al di fuori delle nozioni strettamente giuridiche. "Da alcuni anni" si legge infatti nella motivazione della sentenza "gli psicologi, gli psichiatri, i medici del lavoro, i sociologi e più in generale coloro che si occupano di studiare il sistema gerarchico esistente in fabbrica o negli uffici ed i suoi riflessi sulla vita del lavoratore, ne hanno individuato alcune gravi e reiterate distorsioni, capaci di incidere pesantemente sulla salute individuale. Si tratta di un fenomeno ormai internazionalmente noto come mobbing.".
Una successiva sentenza del Tribunale di Milano il 20/5/2000 (Società Junghans Italia c. Bighi) definisce ulteriormente i confini della materia, precisando che "[..]non si configura mobbing in azienda nell'ipotesi in cui l'assenza di sistematicità, la scarsità degli episodi, il loro oggettivo rapportarsi con la vita di tutti i giorni all'interno della organizzazione produttiva escludono che i comportamenti lamentati possono essere considerati dolosi[..]".
Una risoluzione del parlamento europeo assunta il 20 Settembre 2001 assume come base di partenza le ricerche della Fondazione di Dublino, valutando, alla luce dei dati allora disponibili "[..]il mobbing, fenomeno
di cui al momento non si conosce la reale entità, costituisca un grave problema nel contesto della vita professionale e che sia opportuno prestarvi maggiore attenzione e rafforzare le misure per farvi fronte, inclusa la ricerca di nuovi strumenti per combattere il fenomeno."
Peraltro la risoluzione "pone l'accento sul fatto che le misure contro il mobbing sul luogo di lavoro vanno considerate una componente importante degli sforzi finalizzati all'aumento della qualità del lavoro e al miglioramento delle relazioni sociali nella vita lavorativa".
Successiva alla risoluzione europea è la normativa francese, che entra in vigore all'inizio del 2002, che attinge gran parte delle definizioni e delle tutele nei confronti delle fattispecie di harcèlement moral dagli studi psicologici e sociali di Marie-France Hirigoyen.
In Italia, a fronte di alcuni significativi progetti di legge, non si è arrivati a una normativa, salvo nel caso della Legge Regionale promulgata dalla Regione Lazio (legge n.16 11/7/2002) e dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale (sentenza 19 dicembre 2003, n. 359).
Peraltro i progetti di legge, per quanto si proponesser o di affrontare consistematicità il fenomeno, rischiavano di rappresentare più il problema che la soluzione, inquadrando in forma rigida e, appunto, prescrittiva, un fenomeno vivente, che assume dimensioni e dinamiche proprie, anche in relazione agli ambienti di lavoro in cui si verifica.
Sembra quindi più adatto ad affrontare la problematica il percorso giurisprudenziale a cui si è già in parte accennato.
Resta da vedere come si inquadri la tutela del mobbing tra responsabilità prettamente contrattuale ed extracontrattuale. Su tale aspetto la Cassazione si è pronunciata (sentenza n.n. 13942 25/9/2002) come segue: "nessun dubbio, in forza del c.d. principio del concorso tra responsabilità extracontrattuale e responsabilità contrattuale, che il lavoratore discriminato abbia la scelta tra l'azionare l'una o l'altra forma di responsabilità facendo valere, nel primo caso, il diritto alla riparazione del pregiudizio arrecatogli dall'illecito e, nel secondo caso, la violazione del diritto (di credito, in quanto di natura personale ) a non essere discriminato e la conseguente responsabilità per danni. Il danneggiato ha, quindi, a propria disposizione due distinte azioni, delle quali quella contrattuale si fonda sulla presunzione di colpa stabilita dall'art. 1218 c. c. e limita il risarcimento ai danni prevedibili al momento della nascita dell'obbligazione, mentre l'azione extracontrattuale pone a carico del danneggiato la prova della colpa o del dolo dell'autore della condotta lesiva e, nel caso in cui detta condotta integri gli estremi di un reato, estende il diritto al risarcimento anche ai danni non patrimoniali".
Vale altresì la pena di soffermarsi sulla sentenza del Tribunale di Pinerolo (n.119 2 Aprile 2004), che individua le ricadute dell'azione mobbizzante nelle tre categorie di danno non patrimoniale (biologico, morale, esistenziale).
Peraltro proprio il danno esistenziale, inteso come categoria generale, sembra rendere superfluo l'intervento diretto del legislatore, se non come mera carta di criteri generali, che sarebbe peraltro nient'altro che un'esplicitazione di alcuni principi strutturali del nostro ordinamento.
La recentissima sentenza in materia di mobbing (Cassazione n. 33624 29/8/2007), corredata da un lungo strascico di polemiche e da pressanti richieste di una normativa in materia, non fa che confermare quanto sin qui sostenuto.
Quando infatti ribadisce che una "[..]condotta di mobbing suppone non tanto un singolo atto lesivo, ma una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell'esprimere l'ostilità del soggetto attivo verso la vittima sia nell'efficace capacità di mortificare ed isolare il dipendente nell'ambiente di lavoro[..]" si pone in coerenza con un'elaborazione, se non già consolidata, fortemente radicata nelle sentenze degli ultimi anni.
La pluralità degli atti finalizzati al mobbing è costituita da una strategia formata di singoli atti (o omissioni) perfettamente coerenti nel perseguimento di un fine, ma che possono essere, di per sè, leciti quanto illeciti. E' il disegno mobbizzante a far nascere la necessità della tutela e del risarcimento, in sede civile, del lavoratore.
Va quindi ricercata nei singoli comportamenti la lesione eventuale di un interesse penalmente rilevante.
La soluzione è la prevenzione Pare davvero complesso e macchinoso indicare in dinamiche esterne all'ambiente di lavoro la soluzione a problematiche che degli ambienti di lavoro sono diretta conseguenza.
Difatti è precisa convinzione di chi scrive che i casi di mobbing siano molti meno di quanti sono presentati all'opinione pubblica (basti contare il numero delle sentenze e rapportarlo alla visibilità che il fenomeno ha ottenuto) e, allo stesso tempo, siano solo la punta dell'iceberg di ambienti lavoro, in cui i fenomeni di competitività deviata e di precarietà crescente hanno via via ridotto i meccanismi di solidarietà e talvolta li hanno addirittura trasformati in conflitto esteso.
Servono forme di mediazione e di prevenzione della degenerazione dei conflitti, che possono essere ricercate nell'educazione alla convivenza nei luoghi di lavoro.
Intervenire sui casi di mobbing, per quanto necessario per riparare ai torti subiti dal lavoratore, assume i connotati di trattamento sintomatologico di una malattia profonda.
Agendo sul duplice aspetto dell'educazione e dell'organizzazione, ossia sulla definizione di relazioni improntate alla cooperazione, si possono confinare i casi di mobbing a argomento marginale, frutto di deviazioni particolari, che non riguarderebbero, neppure come minaccia latente, la più parte degli ambienti di lavoro.