TAR Lazio Sez. I, 01.09.2008, n.7972



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio Sede di Roma, Sez. I^

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n. 12174/2006 proposto da Vito R. CONTRO - Ministero della Giustizia e Consiglio Superiore della Magistratura, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, presso la quale domicilia ex lege in Roma, alla via dei Portoghesi n.12;

per la condanna al risarcimento del danno in favore del ricorrente.

Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Avvocatura dello Stato; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti di causa; Data per letta alla pubblica udienza del 4 giugno 2008 la relazione del dr. Silvia Martino e uditi altresì gli avv.ti di cui al verbale; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO e DIRITTO

1. Il dr Vito R. espone di essere stato designato quale Giudice di Pace nella prima tornata costitutiva dell'Ufficio. E' tuttavia accaduto che, in data 15 marzo 2000, il C.S.M. ne abbia negato la conferma, per un secondo mandato, affermando il venir meno dei requisiti di cui all'art. 5, comma 3, l.n. 1034/71. Per effetto del provvedimento di mancata conferma, il ricorrente è cessato dalle funzioni in data 12.4.2000. Il TAR del Lazio ha accolto però la domanda di sospensione, con ordinanza confermata in appello. Il dr. R. è stato quindi riammesso temporaneamente in servizio a far data dal 6.11.2001. A seguito della riforma di un'ordinanza emessa dal TAR in sede di ottemperanza, il ricorrente è cessato nuovamente dall'ufficio in data 16 maggio 2003. Infine, con sentenza n. 1298 del 2004, questo TAR ha accolto il ricorso, annullando sia i provvedimenti originari che quelli emessi in sede di riesame, impugnati con motivi aggiunti.
La sentenza è stata confermata in appello dal Consiglio di Stato (decisione n. 2126 del 16 maggio 2006 della IV Sezione). Il dr. R. è stato reintegrato in servizio con deliberazione assunta dal C.S.M. in data 28 settembre 2006.
Con il presente ricorso, egli domanda il risarcimento del danno cagionatogli dai provvedimenti di diniego di conferma, poi annullati dal giudice amministrativo. In particolare, sotto il profilo soggettivo, pone in luce l'incongruità e l'inadeguatezza della motivazione di siffatte determinazioni (basate sulla mera esistenza di una querela sporta nei suoi confronti, in relazione alla quale il C.S.M. omise di effettuare ogni approfondimento, come pure non si peritò di valutare adeguatamente la successiva remissione di querela) Invoca, oggi, il danno patrimoniale subito, commisurato ai compensi che avrebbe presuntivamente percepito ove avesse esercitato le funzioni di giudice di pace nell'intero periodo di astensione. Chiede altresì il ristoro del danno esistenziale subito per il patologico stato di stress indotto dal ripetuto allontanamento dall'ufficio, aggravato dalle ridotte dimensioni della località (Benevento) in cui la notizia ha avuto diffusione. Ritiene infine di dover essere risarcito anche per la perdita di professionalità e delle ridotte possibilità di svolgimento della sua personalità umana e professionale. Si è costituita, per resistere, l'amministrazione intimata, depositando documenti e una memoria. Il ricorrente ha presentato una memoria, in vista della pubblica udienza del 4 giugno 2008 alla quale il ricorso è stato assunto in decisione.
2. Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
2.1. Deve premettersi (al fine di confutare l'eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa erariale), che il presente giudizio consegue ad un processo in esito al quale i provvedimenti di diniego di conferma, adottati nei confronti del dr. R. , sono stati annullati da questa stessa Sezione. Anche se l'oggetto del giudizio risarcitorio concerne la liceità di comportamenti più che la legittimità di atti, è evidente che l'avvenuto riconoscimento in sede giudiziale dell'illegittimità di provvedimenti impugnati crea in linea di principio il presupposto non solo per la restitutio in integrum, ma anche per il risarcimento degli ulteriori danni; e va ricordato che per la valutazione dei comportamenti rivestono importanza le affermazioni contenute nelle precedenti sentenze (cfr. TAR Lazio, sez. III -bism sentenza n. 3208 del 13 aprile 2007 nonché sez. I, 10 maggio 2007, n. 4251).
In linea di principio, la giurisprudenza non esclude la possibilità di attingere elementi di giudizio dalle sentenze pronunciate in altro processo, sia tra parti diverse, sia - a maggior ragione - tra le stesse parti (Cass. civ., sez. I, 22 aprile 1993, n. 4763; Cass. civ., sez. Lavoro, 10 gennaio 2003, n. 244). L'accertata illegittimità dell'azione amministrativa integra, peraltro, uno degli elementi costitutivi del fatto illecito, ex art. 2043 c.c., di talché il giudice investito della domanda di risarcimento può e deve trarre elementi, comprovanti o al contrario escludenti la colpa dell'Amministrazione, proprio dal giudicato di annullamento dell'atto amministrativo. Esso produce inoltre effetti riflessi anche sulla distribuzione dell'onere della prova, nel senso che sollecita l'amministrazione convenuta a sottoporre al giudice del risarcimento concreti elementi di giudizio atti a dimostrare l'assenza di colpa, nonostante l'accertata illegittimità della propria condotta (così Cass. civ., sez. III, 27 luglio 2005, n. 15686).
Il risarcimento del danno non è però una conseguenza automatica e costante dell'annullamento giurisdizionale. Esso richiede infatti la positiva verifica di tutti i requisiti previsti dalla legge: oltre alla lesione della situazione soggettiva di interesse tutelata dall'ordinamento, è indispensabile che sia accertata la colpa (o il dolo) dell'amministrazione e che sussista un nesso causale tra l'illecito e il danno subito (Cons. St., sez. IV, 14 giugno 2001, n. 3169). Con riferimento alla sussistenza dei danni (con i connessi profili attinenti all'ingiustizia e al nesso causale), il Collegio osserva che compete in linea di principio al ricorrente l'onere di provare, ai sensi dell'art. 2697 c.c., tutti gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento del danno per fatto illecito (Cons. St., sez. V, 25 gennaio 2002; id, sez. VI, 22 agosto 2006, n. 4932). Questo perché la limitazione dell'onere probatorio che governa il processo amministrativo si fonda sulla naturale ineguaglianza delle parti, privato e pubblica amministrazione, e quindi sul generale possesso dei documenti da parte dei pubblici uffici che resistono in giudizio, mentre in caso di risarcimento danni per dimostrare questi ultimi si tratta in genere di documentazione in possesso dei ricorrenti (TAR Liguria, sez. I, 21 aprile 2006, n. 391). In particolare, il ricorrente è tenuto a indicare i fatti, gli elementi di diritto e i mezzi di prova di cui intende avvalersi (TAR Calabria sez. Catanzaro, 19 luglio 2001, n. 1162).
Con specifico riguardo al danno professionale, biologico ed esistenziale, la Cassazione (Sezioni unite civili, 24 marzo 2006, n. 6572), ha stabilito che, "in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato alla esistenza di una lesione dell'integrità psico fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dallo ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nella abitudine di vita del soggetto) [...] si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ex art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove".
In questa pronuncia la Cassazione aderisce, quindi, a un orientamento rigoroso, precisando che "proprio a causa delle molteplici forme che può assumere il danno da dequalificazione, si rende indispensabile una specifica allegazione in tal senso da parte del lavoratore [...] che deve in primo luogo precisare quali di essi ritenga in concreto di aver subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione in fatto, attraverso i quali possa emergere la prova del danno. Non è quindi sufficiente prospettare l'esistenza della dequalificazione, e chiedere genericamente il risarcimento del danno, non potendo il giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il giudice - se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall'articolo 421 Cpc - non può invece mai sopperire all'onere di allegazione che concerne sia l'oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto".
2.2. Alla luce delle coordinante interpretative, così sintetizzate, può quindi procedersi all'analisi della varie voci di danno dal ricorrente prospettate. Con riguardo ai danni patrimoniali, il Collegio reputa che non vi sia alcuno spazio per l'accoglimento della domanda risarcitoria, dal ricorrente quantificata in euro 125.090, 87, oltre interessi e rivalutazione, in relazione ad un periodo di "forzata assenza dal servizio pari a 5 anni, mesi 1 e giorni 7". Occorre infatti ricordare che l'incarico di giudice di pace ha durata quadriennale, e, pertanto, l'applicazione di criteri analoghi a quelli relativi alla restitutio in integrum, propria dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato si risolverebbe, in realtà, in una forma di locupletazione. Nella fattispecie, inoltre, il dr. R. ha avuto piena soddisfazione in forma specifica, atteso che la delibera del C.S.M. in data 28.9.2006 ne ha disposto il reintegro fino al completamento del (secondo) mandato.
Per tale via, egli ha dunque la possibilità di ottenere la piena restitutio in integrum sul piano economico, con il conseguente ristoro della lesione patrimoniale inferta dagli illegittimi dinieghi di conferma. Il Collegio non nega che, sotto il profilo patrimoniale, il ritardo nell'adozione di siffatto provvedimento, indotto dal comportamento perplesso e inadeguato dell'Amministrazione, abbia potuto cagionare, in via diretta e immediata, danni ulteriori e/o diversi da quelli consistenti dalla mera perdita dei compensi derivanti dall'attività di giudice di pace. Tali poste però non hanno formato oggetto di specifica allegazione da parte del dr. R. , come pure non vi è stata una compiuta allegazione e indicazione di elementi probatori in ordine alla alterazione della sfera esistenziale (si veda sul punto Cass., Sez. lavoro, 16 maggio 2007, n. 11278). Per quanto testé argomentato, il ricorso deve essere respinto. Sembra equo, peraltro, compensare integralmente tra le parti le spese di giudizio.

PQM

Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sede di Roma, sez. I^, definitivamente pronunciando sul ricorso di cui in premessa, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.