Tribunale di Catania, 2007, n.1736



Sentenza

TRIBUNALE DI CATANIA N. 1736/2007

E MOBBING E RESPONSABILITÀ CONTRATTUALE DEL DATORE DI LAVORO" - Febo BATTAGLIA e Rosa SAUNA

1. Il caso.
Con la sentenza in epigrafe il Tribunale di Catania ha affrontato il tema del mobbing,
sostanzialmente conformandosi all'orientamento già accreditatosi nel panorama giurisprudenziale, il quale identifica il mobbing in un comportamento vessatorio reiterato nei confronti di un collega o di un lavoratore subordinato, lesivo dell'integrità psico-fisica del lavoratore stesso, fonte di responsabilità contrattuale del datore di lavoro ex art. 2087 c.c.
La decisione in questione muove dal ricorso promosso da una lavoratrice per sentir accertare
l'illegittimità del licenziamento intimatole, con conseguente richiesta di condanna del proprio
datore di lavoro alla reintegrazione della lavoratrice medesima ex art. 18 L. n. 300/1970, oltre al pagamento di un'indennità pari alla retribuzione globale di fatto, contributi compresi, dal giorno del licenziamento sino all'effettiva reintegrazione, con rivalutazione ed interessi, nonché al risarcimento del danno biologico, danno morale, nonché danno da incapacità lavorativa, tutti subiti in conseguenza del comportamento vessatorio tenuto nei suoi confronti e qualificato in termini di mobbing.
La ricorrente deduceva, infatti, di aver lavorato alle dipendenze del datore di lavoro con la qualifica di addetta a tutti i lavori d'ufficio dell'agenzia di Catania, e ad eccezione del primo periodo lavorativo, nonostante lo zelo e la serietà con cui avesse svolto il proprio lavoro, lamentava di aver iniziato a subire rimproveri circa il suo operato da parte di un collega e del suo superiore gerarchico, e di essere stata illegittimamente trasferita da Catania a Palermo, in seguito alla chiusura dell'agenzia di Catania. A causa dei descritti comportamenti la ricorrente si è ammalata di una patologia definita "Depressione Maggiore" che l'ha costretta ad assentarsi dal posto di lavoro per un periodo eccedente a quello di comporto, e di essere stata per questo licenziata.
Il datore di lavoro, costituitosi in giudizio, negava che i comportamenti denunciati dalla ricorrente
fossero vessatori, rilevando che la chiusura della stessa agenzia di Catania ed il trasferimento da Catania a Palermo della dipendente erano stati determinati da ragioni di ristrutturazione aziendale e che il licenziamento fosse assolutamente legittimo, essendo stato pacificamente superato il periodo di comporto.
Il Tribunale di Catania ha accolto la domanda della lavoratrice, ritenendo la configurabilità della
fattispecie di mobbing e disponendo la reintegrazione di quest'ultima nel proprio posto di lavoro. La condotta diretta all'estromissione della ricorrente, aveva, infatti, raggiunto il suo culmine nell'illegittimo licenziamento, oltretutto intimato dopo che la ricorrente medesima aveva subito un danno biologico causatole proprio dal comportamento persecutorio subito nell'ambiente lavorativo.
2. Il mobbing. In assenza di una tipizzazione legislativa del mobbing, la giurisprudenza si è attestata nel senso di ritenere integrata la fattispecie mobbizzante quando vi sia una strategia vessatoria protratta per un tempo considerevole, fissato da Hans Leymann, lo studioso che per primo nel 1996 ha analizzato il fenomeno, in una volta a settimana per almeno sei mesi.
Il Tribunale ha, infatti, descritto il fenomeno del mobbing come un'"aggressione subita da un soggetto in modo persecutorio e reiterato nel tempo, con la finalità perseguita dall'agente o dagli agenti di emarginare la vittima dall'ambiente lavorativo inducendola ad abbandonarlo".
Oltre al mobbing orizzontale, ipotesi che si verifica generalmente quando è un collega di lavoro a porre in essere comportamenti mobbizzanti, la giurisprudenza ha anche individuato una fattispecie più specifica, quella del "bossing", che si realizza quando gli attacchi provengano da parte di un superiore gerarchico con l'intento esclusivo di estromettere il lavoratore dall'ambiente lavorativo.
Sotto il profilo dell'elemento intenzionale, il mobbing non si caratterizza per la finalità esclusiva di espellere la vittima, quanto piuttosto per l'esistenza, nell'aggressore, di un "chiaro scopo negativo nei confronti della vittima" che può essere sorretto dalle più diverse motivazioni, come l'intento di isolarlo o di allontanarlo, o ancora di ridicolizzarlo o di bloccargli la carriera.
Il mobbing può, quindi, essere caratterizzato non solo dallo scopo di estromettere la vittima dal posto di lavoro, ma anche da una volontà persecutoria fine a se stessa, comunque rilevante.
La giurisprudenza maggioritaria ha riconosciuto la natura contrattuale dell'azione da mobbing, riconducendola nell'ambito della previsione di carattere generale dell'art. 2087 c.c., ed a questa si conforma la sentenza in epigrafe. L'art. 2087 c.c. è, infatti, una norma a contenuto aperto, con funzione residuale e di chiusura del sistema prevenzionistico, mediante la quale il generale diritto alla salute ex art. 32 Cost. si inserisce nel contratto di lavoro, con la conseguenza che la tutela delle condizioni di salute diventa una delle obbligazioni primarie del datore di lavoro che trova la sua fonte immediata nel rapporto di lavoro. E' sufficiente, ad integrare la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., la violazione del generale dovere di salvaguardia che incombe sullo stesso a titolo contrattuale in virtù dei principi di correttezza e buona fede. Ne consegue che il contenuto dell'obbligo ex art. 2087 c.c. non può ritenersi limitato al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, riguardando anche il divieto, per il datore di lavoro, di esercitare, nell'ambito lavorativo, comportamenti idonei a ledere già di per sé solo la personalità morale del lavoratore, cui possono conseguire lesioni dell'integrità psico-fisica di varia entità, quali sono appunto le condotte costitutive del mobbing. La qualificazione di responsabilità contrattuale in caso di mobbing non viene meno neanche quando a porre in essere i comportamenti mobbizzanti sia un collega di lavoro e non il datore di lavoro. In questo caso il datore di lavoro sarà contrattualmente responsabile per aver omesso di adottare tutte le misure idonee ad impedire che atti di persecuzione psicologica siano perpetrati dai suoi dipendenti a danno di colleghi o sottoposti. Il lavoratore danneggiato potrà, allora, agire, a scelta, contro il datore di lavoro, contro il collega, ovvero citare entrambi, senza peraltro che sia ipotizzabile un litisconsorzio necessario. Il più delle volte, così come anche nel caso di specie, la vittima del mobbing preferirà citare in giudizio il datore di lavoro, sia per la ipotizzabile maggiore garanzia patrimoniale, sia per la maggiore semplicità rispetto all'onere della prova (l'azione extracontrattuale richiede infatti la specifica dimostrazione dell'elemento soggettivo).
Poiché nella fattispecie di mobbing viene in rilievo non solo un inadempimento contrattuale, ma,
altresì, un danno alla persona in violazione di diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, si
riconosce che il lavoratore possa intraprendere l'azione ex art. 2043, c.c. in luogo dell'azione ex art. 1218 c.c., in combinato disposto con l'art. 2087 c.c., ovvero esercitare entrambe le azioni in concorso tra loro dinanzi al giudice del lavoro, pur tenendo conto dei diversi regimi.
3. La decisione. Il giudice di merito, nella sua decisione, ha fatto riferimento al cosiddetto modello "italiano" di mobbing, approfondito dal Dott. Herald Ege a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. Il fenomeno del mobbing è stato da questi suddiviso in sei fasi, le quali, nel momento della loro materiale realizzazione, sono spesso sovrapposte ed intrecciate.
Al sorgere di una situazione conflittuale, che si manifesta attraverso discussioni, piccoli diverbi o ripicche, segue la fase della creazione di nuovi pretesti al fine di isolare la vittima, la quale inizia a manifestare i primi segni di cedimento psicologico. Nella fase successiva, si divulga tra i colleghi la voce che la vittima non vuole lavorare, che si assenta spesso dal posto di lavoro e si avvisa la stessa della possibilità di incorrere in gravi sanzioni a causa del suo comportamento. L'ultima fase è, generalmente, quella dell'uscita dall'ambiente lavorativo da parte della vittima, le cui condizioni psico-somatiche si sono nel frattempo aggravate fino all'insorgere di una patologia medicalmente accertabile.
Nella ricerca degli elementi caratterizzanti il mobbing, la decisione del Tribunale di Catania ha posto l'accento sulla progressiva lesione della personalità morale e della professionalità della ricorrente, esternata da tutti quei comportamenti diretti a denigrarla ed isolarla. Viene, dunque, attribuito significativo rilievo all'elemento intenzionale, come intento di emarginare, escludere la
vittima delle ostilità.
Tra i comportamenti che la ricorrente ha denunciato come mobbizzanti, il Tribunale ha riconosciuto come tali il fatto che la stessa venisse continuamente ripresa, che per due volte un collega avesse staccato dalla bacheca il codice di auto-regolamentazione affisso dalla ricorrente, che il superiore avesse chiesto ad un altro lavoratore come mai la ricorrente si trovasse in una postazione di lavoro così grande anziché in cucina, che lo stesso superiore avesse chiesto ad un lavoratore di scrivere una lettera con accuse false sulla ricorrente perché sarebbe stato meglio che la stessa si dimettesse.
Il Tribunale ha invece escluso dalla fattispecie di mobbing la chiusura dell'agenzia di Catania ed il conseguente trasferimento a Palermo, episodi realmente dettati da ragioni aziendali le quali hanno determinato contestualmente la chiusura di un'altra agenzia, e la mancata assistenza ai PC dell'agenzia di Catania ed il ritardo nel rimborso per le spese di cancelleria: il Tribunale ha ritenuto le dichiarazioni di denuncia di questi comportamenti troppo generiche e non sufficientemente provate, così come invece richiede l'azione ex contractu.
L'azione ex artt. 1218 e 2087 c.c., come è noto, impone, infatti, al lavoratore di provare l'evento
dannoso, la lesione subita ed il nesso di causalità tra le condotte mobbizzanti ed il danno subito, e contestualmente impone al datore di lavoro, per liberarsi dalla responsabilità, di provare di aver adempiuto l'obbligo impostogli dall'art. 2087 c.c. o di non aver potuto adempiere per cause a lui non imputabili.
Il lavoratore, per ricevere tutela, dovrà, allora, provare tutte quelle condotte che singolarmente possono anche essere legittime, quindi giuridicamente irrilevanti, che acquistano idoneità offensiva se guardate nell'ambito di un disegno unitario dalla finalità lesiva.
Relativamente al danno risarcibile, il giudice ha rintracciato la sussistenza del danno biologico denunciato dalla ricorrente e la conseguente illegittimità del licenziamento, richiamando sul punto recenti sentenze della Corte Cassazione, tra le quali Cass. civ., sez. lav., n. 572/2002, secondo cui "è illegittimo il licenziamento formalmente intimato per superamento del periodo di comporto, laddove la malattia del lavoratore sia stata determinata dall'anomalo comportamento del datore di lavoro sia sotto il profilo della violazione dell'obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. sia sotto il profilo del mancato reperimento, nel quadro dell'organizzazione aziendale, di altro posto di lavoro più adatto alle accertate, precarie condizioni di salute del lavoratore, incompatibili con le mansioni da lui espletate, per di più in condizioni di marcato e irreversibile disadattamento ambientale" .
Il Giudice, ritenendo sussistente il nesso di causalità tra i comportamenti mobbizzanti ed il danno subito dalla lavoratrice, ha, pertanto, intimato la reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro, poiché nel caso di specie la ricorrente si era assentata per un periodo eccedente quello di comporto a causa della patologia determinatasi in conseguenza dei comportamenti persecutori del collega e del superiore gerarchico.
Il fenomeno del mobbing, ormai ampiamente diffuso a livello sociale e oggetto di particolare attenzione da parte della giurisprudenza di merito e di legittimità, può reputarsi sufficientemente tutelato dall'art. 2087 c.c. Maggiori difficoltà ancora permangono in ordine alla precisa individuazione del danno risarcibile, posto che il mobbing pare rappresentare il presupposto di una figura di danno ancora oggetto di studio ed approfondimento sia in dottrina che in giurisprudenza, cioè il danno esistenziale.