Cass. Civ. Sez. lavoro, 27.04.2006, n. 9626



Sentenza

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MILEO Vincenzo - Presidente
Dott. DE LUCA Michele - rel. Consigliere
Dott. MAIORANO Francesco Antonio - Consigliere
Dott. D'AGOSTINO Giancarlo - Consigliere
Dott. DE MATTEIS Aldo - Consigliere


ha pronunciato la seguente sentenza sul ricorso proposto da:
G.M., elettivamente domiciliato in ROMA VIA A. POERIO 56, presso lo studio dell'avvocato GERACI Antonino, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
SANPAOLO IMI S.P.A., in persona del Dott. T.F., legale rappresentante, della Società, quale Responsabile di Relazioni Industriali, elettivamente domiciliato in ROMA CORSO VITTORIO EMANUELE II 326, presso lo studio dell'avvocato SCOGNAMIGLIO Renato, che lo rappresenta e difende, giusta procura speciale atto notar CARLO BOGGIO di Torino del 22/01/2004, rep. 101743;
- resistente con procura -
avverso la sentenza n. 37050/2002 del Tribunale di ROMA, depositata il 20/01/2003 r.g.n. 8856/1998;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 09/02/2006 dal Consigliere Dott. Michele DE LUCA;
udito l'Avvocato POLIDORI per delega GERACI;
udito l'Avvocato PORCELLI per delega SCOGNAMIGLIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NARDI Vincenzo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto Diritto P.Q.M.

Svolgimento del processo

Con la sentenza ora denunciata, la Corte d'Appello di Roma confermava la sentenza del Pretore della stessa sede in data 11 aprile 1997, che aveva rigettato la domanda proposta da G.M. contro l'Istituto bancario SANPAOLO di Torino s.p.a. (ora SANPAOLO IMI s.p.a.) - per ottenere declaratoria di illegittimità del mutamento di mansioni (da direttore della filiale di Roma della Banca nazionale delle comunicazioni, poi incorporata nel SANPAOLO IMI, alla direzione generale) e, per l'effetto la reintegrazione nelle mansioni precedenti ed il risarcimento del danno da demansionamento - essenzialmente in base ai rilievi che, da un lato, le funzioni precedenti (di direttore della filiale di Roma, appunto) non possono considerarsi più importanti rispetto alle nuove mansioni presso la direzione generale dello stesso Istituto bancario - di preposto al settore mercato Italia, che era "la principale direzione della banca (...)" - e che, dall'altro, la "esigua durata dell'effettivo svolgimento" delle "nuove" mansioni non consentiva di valutarne la "effettiva portata".
Avverso la sentenza d'appello, G.M. propone ricorso per Cassazione, affidato ad un unico, complesso motivo.
L'intimato SANPAOLO IMI s.p.a. (già Istituto bancario SANPAOLO di Torino s.p.a.) resiste con controricorso, illustrato da memoria.

Motivi della decisione

1. Con l'unico motivo di ricorso - denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 116 c.p.c.), nonchè vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 3 e 5) - G.M. censura la sentenza impugnata - per avere ritenuto che le proprie funzioni precedenti (di direttore della filiale di Roma, appunto) non possono considerarsi più importanti rispetto alle nuove mansioni presso la direzione generale dello stesso Istituto bancario - di preposto al settore mercato Italia, che era "la principale direzione della banca (...)" - sebbene il teste B.P. (preposto al settore mercato Italia, in qualità di direttore, presso la direzione generale dello stesso Istituto bancario) avesse riferito che l'attuale ricorrente, "dopo l'assegnazione alla Direzione generale, nel giugno 1993, divenne responsabile dell'ufficio commerciale filiali e, come tale, era responsabile nei miei confronti". Il ricorrente lamenta, altresì, che la propria attività presso la direzione generale era, comunque, "priva di qualunque potere discrezionale e decisionale, (come tale), certamente non confacente con la qualifica di dirigente", nonchè la funzione punitiva del demansionamento denunciato ed il danno - da mobbing - che ne è derivato.
Il ricorso è fondato.
2. E' ben vero, infatti, che la equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti - che legittima l'esercizio dello ius variandi del datore di lavoro, a norma della disciplina legale in materia (art. 2103 c.c., come sostituito dalla L. 20 maggio 1970. n. 300. c.d.
Statuto dei lavoratori, cit.) - deve essere intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle mansioni, considerate nella loro oggettività, ma anche - secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 3455/90 delle sezioni unite, n. 6871/87, 2896, 12088/91, 3623,10405, 12121/95, 6124/97, 2428/992649, ? 14666/2004, 7453/2005 della sezione lavoro) - come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o, addirittura, l'arricchimento del patrimonio professionale dal lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto.
Tuttavia l'accertamento - sulle nuove mansioni e su quelle precedentemente svolte - come il giudizio circa la loro equivalenza - intesa nel senso prospettato - è riservato ai giudice di merito - secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 2328, 3362/2003, 2649, 14666/2004, 7351/2005) - e, come tale, può essere sindacato, in sede di legittimità, soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5).
Ora è, proprio, il vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.) - deducibile, per quanto si è detto, in sede di legittimità - ad inficiare - siccome ritualmente denunciato dal ricorrente - l'accertamento di fatto della sentenza impugnata - sulle nuove mansioni, assegnate all'attuale ricorrente presso la direzione generale della banca - e, di conseguenza, anche il giudizio circa la loro equivalenza rispetto a quelle precedentemente svolte (quale direttore della filiale di Roma).
3. Invero la denuncia di un vizio di motivazione in fatto, nella sentenza impugnata con ricorso per Cassazione (ai sensi dell'art. 360, c.p.c., n. 5) - vizio nel quale si traduce anche la mancata ammissione di un mezzo istruttorio (vedi, per tutte, Cass. n. 13730, 9290/2004), nonchè l'omessa od erronea valutazione di alcune risultanze probatorie (vedi, per tutte, Cass. n. 3004/2004, 3284/2003) - non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, le argomentazioni - svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l'accertamento dei fatti, all'esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento - con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere - secondo l'orientamento (ora) consolidato della giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 13045/97 delle sezioni unite e n. 8153, 7936, 7745, 4017, 3452, 3333, 236/2005, 24219, 23411, 22838, 22751, 21826, 21377, 20272, 19306/2004, 16213, 16063, 11936, 11918, 7635, 6753, 5595/2003, 3161/2002, 4667/2001, 14858, 9716, 4916/2000, 8383/99 delle sezioni semplici) - dall'esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quei ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti, nè, comunque, una diversa valutazione dei medesimi fatti.
In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto - consentito al giudice di legittimità (dall'art. 360 c.p.c., n. 5) - non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità.
Pertanto, al giudice di legittimità non compete il potere di adottare una propria motivazione in fatto (arg. ex art. 384 c.p.c., comma 2,) nè, quindi, di scegliere la motivazione più convincente - tra quelle astrattamente configurabili e, segnatamente, tra la motivazione della sentenza impugnata e quella prospettata dal ricorrente - ma deve limitarsi a verificare se - nella motivazione in fatto della sentenza impugnata, appunto - siano stati dal ricorrente denunciati specificamente - ed esistano effettivamente - vizi che, per quanto si è detto, siano deducibili in sede di legittimità.
Tuttavia è, proprio, il vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) - nel senso prospettato - ad essere ritualmente denunciato dal ricorrente e ad inficiare - come è stato anticipato - l'accertamento di fatto della sentenza impugnata - sulle nuove mansioni, assegnate all'attuale ricorrente presso la direzione generale della banca - e, di conseguenza, anche il giudizio circa la loro equivalenza rispetto a quelle precedentemente svolte (quale direttore della filiale di Roma).
4. Infatti il giudizio della sentenza impugnata - circa la equivalenza tra le nuove mansioni dell'attuale ricorrente e quelle precedentemente svolte - risulta motivato, essenzialmente, in base al rilievo che le funzioni precedenti (di direttore della filiale di Roma, appunto) non possono considerarsi più importanti rispetto alle nuove mansioni - di preposto al settore mercato Italia, che era "la principale direzione della banca (...)" - presso la direzione generale dello stesso Istituto bancario.
Ed il ricorrente censura la motivazione prospettata, essenzialmente, sotto il profilo che il teste Pietro Buratti (preposto al settore mercato Italia, in qualità di direttore, presso la direzione generale dello stesso Istituto bancario) ha riferito che l'attuale ricorrente, "dopo l'assegnazione alla Direzione generale, nel giugno 1993, divenne responsabile dell'ufficio commerciale filiali e, come tale, era responsabile nei miei confronti".
Il ricorrente, pertanto, denuncia - sotto il profilo, appunto, del vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), - l'omessa valutazione delle risultanze di prova, all'evidenza decisiva (quale, appunto, la deposizione del teste Pietro Buratti, preposto al settore mercato Italia, in qualità di direttore, presso la direzione generale della banca).
Ne risulta, infatti, escluso che l'attuale ricorrente svolgesse, presso la direzione generale della banca, le nuove mansioni - di preposto al settore mercato Italia, che era "la principale direzione della banca (...)" - sulle quali riposa, essenzialmente, il giudizio della sentenza impugnata circa la equivalenza tra le nuove mansioni, appunto, e quelle precedentemente svolte.
Con la riconducibilità, affatto evidente, della prospettata censura del ricorrente - al vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), sotto il profilo della omessa valutazione di risultanze di prova - si coniuga, tuttavia, il rigoroso rispetto del principio di autosufficienza del ricorso (sul quale vedi, per tutte, Cass. n. 3004/2004, 3284, 9712/2003).
In forza di tale principio, il ricorrente - che deduca, appunto, (vizio di motivazione della sentenza impugnata per) mancata o erronea valutazione di j alcune risultanze probatorie - è gravato, invero, dell'onere di specificare, trascrivendole integralmente se necessario, le prove - delle quali denunci, appunto, la mancata o erronea valutazione - anzichè limitarsi ad indicare le circostanze - asseritamente risultanti da quelle prove - che, in ipotesi, possono assumere rilievo al diverso fine della valutazione circa il requisito ulteriore della decisività delle prove medesime.
In coerenza con il principio di autosufficienza, infatti, la deposizione del teste Pietro Buratti (preposto al settore mercato Italia, in qualità di direttore, presso la direzione generale della banca) - del quale si denuncia, appunto, l'omessa valutazione - è stata testualmente trascritta in ricorso, sia pure limitatamente alla parte che, per quanto si è detto, risulta decisiva nel presente giudizio.
Tanto basta per accogliere il ricorso, risultandone assorbita ogni altra censura.
5.11 ricorso, pertanto, deve essere accolto.
Per l'effetto, la sentenza impugnata va cassata con rinvio ad altro giudice d'appello - designato in dispositivo - perchè proceda al riesame della controversia e provveda, contestualmente, al regolamento delle spese di questo giudizio di Cassazione (art. 385 c.p.c, comma 3).

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; Cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d'appello di Roma, in diversa composizione, anche per il regolamento delle spese di questo giudizio di Cassazione.

Così deciso in Roma, il 9 febbraio 2006.

Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2006