Tribunale di Bergamo, 20.06.2005, n.286



Sentenza

REPUBBLICA ITALIANA

TRIBUNALE DI BERGAMO

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 


II Tribunale di Bergamo in funzione di giudice monocratico del lavoro in persona della dott.ssa Monica Bertoncini ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa di lavoro n. 711/02 R. G. promossa con ricorso depositato il 04.06.2002
Da: Is. Pa. con il proc. dom. avv. P. Lu. Bo. del foro di Be. giusta procura a margine del ricorso depositato  (ATTORE )
contro: Ad. Tr. SRL in persona del legale rappresentante pro-tempore con il proc. dom. Avv. Gi. Ga. del foro di Be. giusta procura a margine della memoria depositata (CONVENUTA)

Oggetto: risarcimento danni causa chiusa a sentenza il 21.04.2005

CONCLUSIONI: Parte ricorrente: come da ricorso depositato in data 04-06.2002 Parte convenuta: come da memoria depositata in data 28.10.2002

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso regolarmente notificato Is. Pa. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Bergamo in funzione di giudice del lavoro, la Ad. Tr. s.r.l. per sentir accertare la dequalificazione posta in atto nei suoi confronti a decorrere dal luglio 1998 e per sentirla conseguentemente condannare al risarcimento del danno subito pari ad una mensilità retributiva per ogni mese di mansioni dequalificanti o in quella diversa ritenuta di giustizia, oltre interessi legali rivalutazione monetaria, nonché per sentir accertare il danno alla salute arrecato dai comportamenti di "mobbing" posti in essere nei suoi confronti e per sentir quindi condannare la convenuta al risarcimento dei danni subiti, da determinarsi in via equitativa. A fondamento di tali pretese la ricorrente, premesso di aver iniziato a lavorare per la Ad. Tr. s.r.l. sin dal 1989 con mansioni di impiegata I° livello CCNL terziario addetta alla gestione del recupero crediti, esponeva che con comunicazione del 1.7.1998 era stata formalmente assegnata a mansioni di "analista sistemista", ma che in realtà, era stata completamente privata delle proprie mansioni. In proposito, Is. Pa. precisava di essere stata trasferita in una sorta di ripostiglio, con mobili in disuso senza PC e telefono, di essere stata lasciata nella più assoluta inattività, senza contatti con altro personale e con l'esterno, stante la proibizione ricevuta in tal senso. La ricorrente, nell'aggiungere di essersi dimessa il 31.3.2001 e nell'affermare di aver subito un vero e proprio danno alla salute derivante dalla condotta posta in essere nei suoi confronti, che qualificava come "mobbing", agiva in questa sede per conseguire il risarcimento dei danni conseguenti alla dequalificazione ed alla lesione della integrità psico-fisica subita, rassegnando le sopra precisate conclusioni. Si costituiva regolarmente in giudizio la Ad. Tr. s.r.l., resistendo alla domanda di cui chiedeva il rigetto. La convenuta esponeva che nel luglio 1998, nell'ambito di un'ampia revisione dei ruoli avviata dalla nuova compagine sociale, era stata assegnata a Is. Pa. la mansione di "analista sistemista", ma costei si era rifiutata di apprendere anche le più elementari nozioni relative alla nuova attività. Pertanto la società preso atto della indisponibilità della ricorrente, l'aveva assegnata al recupero dei crediti, ma anche in questo caso la lavoratrice aveva dimostrato scarso impegno, rifiutando reiteratamente l'evasione delle pratiche affidatele. La Ad. Tr. s.r.l., nel precisare di aver tollerato tale atteggiamento in considerazione dell'anzianità di servizio della ricorrente e dell'intenzione di costei di dimettersi al raggiungimento dell'età pensionabile, negava di averle assegnato un ufficio non idoneo allo svolgimento del lavoro, così come escludeva di aver posto in essere nei suoi confronti atti discriminatori. Concludeva pertanto per il rigetto di ogni domanda. La causa, istruita testimonialmente e tramite CTU medico-legale, è stata discussa e decisa, all'udienza odierna mediante separato dispositivo di cui veniva, data pubblica lettura.

MOTIVI DELLA DECISIONE

II, ricorso è fondato. L'istruttoria testimoniale ha confermato come la ricorrente, dipendente della convenuta sin dal 1989 con mansione di "recuperatrice", a partire dall'ottobre 1998 ed a seguito del mutamento della compagine sociale della società, abbia subito un grave demansionamento, con l'assoluta privazione di tutte le mansioni svolte sino ad allora. In particolare, la teste Bo., dipendente della convenuta dal 1994 al 2001, nel chiarire di aver svolto le stesse mansioni di Is. Pa., essendo entrambe addette al recupero crediti, ha spiegato che il loro lavoro consisteva nell'esaminare la documentazione, capire come si era originato il credito, prendere quindi contatti con il debitore ed avviare la trattativa per il recupero dell'importo (v. deposizione Bo., Ub.). La ricorrente, al pari della teste, aveva facoltà di transigere e concedere dilazioni, seguendo anche la fase finale che si svolgeva tramite l'intervento di un esattore (v. deposizione Bo.). Entrambe si occupavano prevalentemente del recupero crediti di grosse, aziende e disponevano di una scrivania con telefono, PC e calcolatrice (v. deposizione Bo.). La teste ha poi riferito che nell'aprile del 1998 il titolare della società, con cui i dipendenti avevano un ottimo rapporto sia professionale che personale, comunicò di aver venduto l'azienda al sig. Po. ed in quella occasione la ricorrente "chiese al subentrante quali fossero le sue strategie imprenditoriali", ma costui "si innervosì e divenne rosso, non rispose e si sciolse l'assemblea" (v. deposizione Bo.). In seguito, vi furono diversi meeting per informare il personale delle nuove strategie e per effettuare alcuni test, meeting a cui Is. Pa. non fu mai invitata (v. deposizione Bo.). In una successiva riunione del giugno 1998 la ricorrente prese la parola, insistendo per avere spiegazioni sulle strategie aziendali, ed quindi il nuovo titolare, Po., se ne andò sbattendo la porta e convocando in direzione Is. Pa. (v. deposizione Bo. e Ub.). Successivamente, quelle che erano le "recuperatrici" divennero "coordinatrici di un gruppo che lavorava all'esterno ed a cui veniva affidata la pratica", per cui il loro compito divenne quello di tenere il rapporto con il cliente, che seguiva direttamente il debitore, e di curare la parte organizzativa e logistica, supervisionando le attività del personale esterno che si occupava direttamente degli aspetti operativi inerenti al recupero del credito (v. deposizione Bo., Mi. e Ub., la quale ha aggiunto che con il mutamento di gestione cambiò "un po'" tutto sia in relazione alla metodica di lavoro che all'armonia e al clima generale"). La ricorrente venne spostata in un ufficio separato e lontano dagli altri, che veniva utilizzato come ripostiglio di mobili dismessi, e non le venne affidata più alcuna pratica (v. deposizione Bo., Mi. e Ub.). Si trattava di un ufficio isolato, collocato in fondo al corridoio, e mentre tutti gli altri uffici erano stati modificati ed ampliati, quello rimase nelle medesime condizioni (v. deposizioni Ub. e Bo.). L'ufficio della ricorrente era inoltre privo degli strumenti di lavoro, c'erano solo oggetti dismessi e da buttare, Is. Pa. non aveva il PC, né il telefono e neppure figurava nell'elenco telefonico dei dipendenti aziendali (v. deposizione Mi., Ub. e doc. 3 fasc. ricorrente). In tali condizioni era sostanzialmente impossibile lavorare, dal momento che tutta l'attività della Ad. Tr. s.r.l. era informatizzata, per cui senza computer non era possibile fare niente (v. deposizione Mi.), L'ufficio venne dotato di un telefono e di un terminale solo nell'ultimo periodo, quando veniva utilizzato anche da una collaboratrice della società, Ca., ma in ogni caso la ricorrente rimase sempre inattiva, posto che sulla sua scrivania non vi erano pratiche per lavorare, come ebbero modo di constatare molti suoi colleghi (v. deposizione Ub. e Mi., il quale ha confermato che con il passaggio di gestione la ricorrente venne inserita nell'ufficio dei programmatori, benché si trattasse di una soluzione poco comprensibile, in quanto Is. Pa. "di informatica non capiva niente", mentre "era brava nel suo lavoro" di recuperatrice). La totale inattività di Is. Pa. è confermata dalla circostanza, riferita da alcuni testi, per cui costei trascorreva le sue giornate dedicandosi all'hobby dell'astrologia (v. deposizione Bo., Mi., Ub.). La condizione della ricorrente venne inoltre percepita dagli altri come un "monito", tant'è che costoro temevano di "poter fare la stessa fine" (v. deposizione Ub.). In proposito, la teste Bo. ha raccontato di essere stata sorpresa dal nuovo capo a parlare con la ricorrente ed in quella occasione le venne detto di non andare più a trovarla (v. deposizione Bo.), nella medesima situazione si trovò il collega Mi. che evitava di andare dalla ricorrente in quanto il capoufficio, ing. Ro., "aveva la porta aperta e controllava il passaggio", ed un paio di volte in cui era andato a trovarla dovette allontanarsi immediatamente alla vista del Ro., per "evitare la ramanzina" (v. deposizione Mi., il quale ha aggiunto che i rapporti con lei si diradarono "sia perché era inutile parlare con lei che non partecipava al lavoro sia perché Ro. non voleva"). Le circostanze riferite dai suddetti testi, precise e pienamente concordanti tra loro, rendono credibili tali deposizioni, mentre analoghe considerazioni non possono svolgersi per le affermazioni rese dalla teste Ve., la quale, pur sostenendo che l'ufficio di. Is. Pa. era dotato di computer e telefono, ha ammesso di non essere mai entrata nella sua stanza, per cui non è dato comprendere su che basi sia stata resa tale dichiarazione (v. deposizione Ve.). La Ve. neppure aveva conoscenza diretta della mansioni assegnate alla ricorrente avendole descritte in maniera estremamente generica, così come si è limitata ad affermare di aver ''sentito dire nell'ambiente" che a Is. Pa. era stato proposto di diventare "customer manager'' e che costei "si rifiutò" (v. deposizione Ve.). Neppure dalla testimonianza della Ca. possono trarsi utili elementi, posto che costei svolgeva il proprio lavoro prevalentemente fuori dall'azienda, ove si recava solo in caso dì necessità (v. deposizione Ca.). Parimenti inattendibile appare la deposizione del teste Pi., secondo cui la ricorrente, dopo essersi rifiutata di lavorare al reparto informatico, venne riassegnata al recupero crediti e le vennero affidate alcune pratiche da seguire (v. deposizione Pi.). Occorre infatti rilevare come il teste abbia riferito che Is. Pa. "si rifiutò di eseguire questo lavoro, perché riteneva che Ia pratica le dovesse pervenire già istruita", in quanto "voleva limitarsi a fare l'ultima telefonata" (v. deposizione Pi.). Non risulta tuttavia credibile che una persona come la ricorrente, con dieci anni di esperienza nel lavoro di recupero credito e che aveva lamentato insoddisfazione per il mutamento di mansioni (doc. 2 fasc. ricorrente), una volta riassegnata ai vecchi compiti, si sia rifiutata di eseguirli. Peraltro è assolutamente inverosimile che un datore di lavoro, per oltre due anni, tolleri il comportamento di grave insubordinazione del proprio dipendente che si rifiuta sistematicamente di svolgere le mansioni affidategli, soprattutto ove si consideri che in tale lasso di tempo non è stata mossa alcuna contestazione disciplinare verso Is. Pa. per il comportamento in questione. Ed in proposito il teste Pi. non ha saputo, spiegare il motivo per cui non fu assunta alcuna iniziativa disciplinare verso la ricorrente, confermando in ogni caso di averla lasciata inattiva, non avendole più affidato alcun incarico (v. deposizione Pi.). Deve quindi ritenersi che sia stata la datrice di lavoro a privare la ricorrente delle precedenti incombenze, decidendo di modificare le mansioni che costei aveva svolto ininterrottamente per quasi dieci anni e per le quali era certamente qualificata, assegnandole un nuovo incarico, ma di fatto lasciandola completamente inattiva, spostandola dall'ufficio che aveva sino ad allora occupato e condiviso con i propri colleghi e trasferendola in un ufficio isolato e dotato solo di materiale dimesso, senza strumenti per poter lavorare. La condizione di totale e forzata inattività in cui Is. Pa. si è trovata dall'ottobre 1998 (doc. 2 fasc. ricorrente) sino; al 31.3.2001 (data delle dimissioni) integra una chiara violazione dell'art. 2103 c.c., la cui finalità è quella di salvaguardare "il diritto del lavoratore alla utilizzazione, al perfezionamento ed all'accrescimento del proprio corredo di nozioni di esperienza e perizia acquisita nella fase pregressa del rapporto ed impedire conseguentemente che le nuove mansioni determinino una perdita di potenzialità professionali acquisite o affinate sino a quel momento, o che per altro verso comportino una sottoutilizzazione del patrimonio professionale del lavoratore" (così cass. civ. sez. lav. n. 10405/95). E' evidente che lo stato di inattività cui la ricorrerete è stata costretta abbia determinato un progressivo svuotamento del suo bagaglio professionale o delle conoscenze acquisite, soprattutto tenuto conto che si è trattato di una assoluta privazione delle mansioni, protrattasi per oltre due anni. Vanno poi considerate le modalità attraverso le quali tale demansionamento è stato attuato, isolando la lavoratrice, che si è vista trasferire dall'ufficio condiviso con i colleghi da circa dieci anni per essere collocata in un locale sprovvisto dei necessari strumenti di lavoro ed utilizzato, come deposito per i materiali dismessi. Il comportamento illecito è stato quindi posto in essere dal datore di lavoro con particolare ostilità ed avversione verso la ricorrente, considerato che il lavoro, come più volte affermato dalla giurisprudenza, non rappresenta solo un mezzo di guadagno, ma anche una forma di estrinsecazione della personalità dell'individuo sul luogo di lavoro, diritto tutelato dagli artt. 2 e 3 Cost. (v. cass. civ. sez. lav. n. 12553/03, n. 15686/02 e n. 8835/91). La Ad. Tr. s.r.l. va quindi condannata al risarcimento del danno subito da Is. Pa. in conseguenza di tale illecita condotta, danno da liquidarsi equitativamente utilizzando come parametro la retribuzione della ricorrente. Pertanto, considerata la gravità del comportamento posto in essere nei confronti di Is. Pa., desumibile dalla completa privazione delle mansioni, dalla durata della dequalificazione, dall'anzianità aziendale della lavoratrice e dalle modalità con cui è stato attuato, in maniera plateale quasi a rappresentare un monito per gli altri dipendenti che intendessero esprimere le proprie opinioni riguardo alle decisioni aziendali, il danno può essere quantificato in Euro 500,00 per ogni mese di dequalificazione subita (pari a circa l'80% della retribuzione netta della ricorrente). Non ritiene questo giudice di accedere alla massima quantificazione, in misura pari ad una mensilità di retribuzione per ogni mese di dequalificazione, dovendosi considerare che la ricorrente, alla data delle dimissioni, ha conseguito la pensione e quindi il danno alla professionalità risulta attenuato dal fatto che non ha dovuto ricollocarsi sul mercato del lavoro. L'importo del risarcimento, a tale titolo, ammonta quindi a complessivi Euro 15.000,00 (Euro 500,00 per i due anni e sei mesi di dequalificazione), e poiché la liquidazione avviene ai valori attuali ed è quindi comprensiva della rivalutazione monetaria su tale somma competono gli interessi legali dalla data del fatto (ottobre 1998) sul; capitale (previa devalutazione della somma sopra liquidata) per il primo anno sul capitale e sul capitale annualmente rivalutato secondo i criteri di cui all'art. 150 disp. Att. C.p.c. per gli anni successivi fino al saldo. Passando quindi ad analizzare la domanda relativa al risarcimento del danno alla salute conseguente a tale condotta, la stessa appare fondata, benché i fatti non siano riconducibili alla fattispecie del "mobbing", come prospettato dalla ricorrente, bensì a quella dello "straining". In proposito, va ricordato che il "mobbing", nella definizione offerta dalla psicologia del lavoro, cui gran parte della giurisprudenza di merito ha ormai aderito, sia "una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobizzato si trova nell'impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell'umore che possono portare anche a invalidità psicofisica permanente" (v, da. ultimo anche Trib. Forlì n. 28/05). Si ritiene inoltre in dottrina che il "mobbing" non si caratterizzi per una singola azione, concretizzandosi in "una strategia, un attacco ripetuto, continuato, sistematico, duraturo" tant'è che sono state individuate cinque categorie entro cui ricondurre le azioni mobbizzanti e precisamente: gli attacchi ai contatti umani (limitazioni alle possibilità di esprimersi, continue interruzioni del discorso, rimproveri e critiche frequenti, sguardi e gesti con significato negativo); l'isolamento sistematico (trasferimento in un luogo di lavoro isolato, atteggiamenti tendenti ad ignorare la vittima, divieti di parlare od avere rapporti con questa); i cambiamenti delle mansioni (privazione totale delle mansioni, assegnazione di lavori inutili, nocivi o al di sotto delle capacità della vittima); gli attacchi contro la reputazione (pettegolezzi, ridicolizzazioni, anche calunnie, umiliazioni); la violenza o la minaccia di violenza (minacce od atti di violenza fisica, anche a sfondo sessuale), altre azioni. Ciò che viene evidenziato dai teorizzatori del fenomeno è che il "mobbing" non è costituito e non si esaurisce in una singola condotta (ad esempio in un singolo demansionamento od in una molestia sessuale), ma si traduce in una vera e propria aggressione, in un accerchiamento della vittima, in un conflitto mirato contro una persona od un gruppo di persone ove deve essere ben percepibile un intento persecutorio (al fine di distinguerlo, a titolo esemplificativo, da tutte quelle situazioni di tensioni naturalmente conseguenti da un cambiamento di gestione o di organizzazione). Gli elementi caratterizzanti il "mobbing" sono costituiti dalla frequenza (che serve a differenziare un singolo atto di ostilità da quel conflitto sistematico e persecutorio che è il "mobbing") e dalla rispettività nel tempo delle aggressioni. Ciò premesso, il CTU nominato, dott. M. Eg., nell'analizzare la vicenda, mentre ha ritenuto sussistenti alcuni parametri di riconoscimento del "mobbing" (quali: l'ambiente lavorativo, in cui i fatti si sono svolti; la durata della conflittualità, superiore ai sei mesi, tempo ritenuto necessario per configurare un caso di "mobbing"; la tipologia delle azioni ostili, alcune delle quali tipiche del "mobbing", come ad esempio l'isolamento ed il cambiamento delle mansioni lavorative; il dislivello tra gli antagonisti, in quanto la vittima si trova in posizione di inferiorità rispetto alle decisioni dei superiori), non ha tuttavia ravvisato altri- elementi caratterizzanti il "mobbing." (v. relazione CTU). In particolare, il dott. Eg. ha escluso che la situazione della ricorrente sia stata scandita attraverso fasi successive, in quanto il conflitto, dopo il cambiamento di mansioni e l'isolamento, si è mantenuto sempre sullo stesso livello (v. relaziona CTU). In proposito, secondo la psicologia, del lavoro il "mobbing" presuppone che "la vicenda lavorativa conflittuale non sia stabile, ma in evoluzione secondo una progressione di fasi casualmente legate l'una all'altra" (v. relazione CTU). Il "mobbing" si sviluppa quindi attraverso sei fasi, dalla cosiddetta "condizione zero", di conflitto fisiologico normale ed accettato, alla "sesta fase", di esclusione della vittima dal posto di lavoro (per dimissioni, licenziamento od altra causa). Tuttavia, pur nell'assenza di alcuni elementi tipici del "mobbing", il CTU ha ritenuto che il comportamento tenuto nei confronti di Is. Pa., sia stato ugualmente fonte di un danno alla salute, riconducibile a quel diverso fenomeno che la psicologia del lavoro definisce "straining" (v. relazione CTU). In particolare, la differenza tra lo "straining" ed il "mobbing" è stata individuata nella mancanza "di una frequenza idonea (almeno alcune volte al mese) di azioni ostili ostative: in tali situazioni le azioni ostili che la vittima ha effettivamente subito sono poche e troppo distanziate tempo, spesso addirittura limitate ad una singola azione come un demansionamento o un trasferimento disagevole" (v. relazione CTU). Pertanto, mentre il "mobbing" si caratterizza per una serie di condotte ostili, continue e frequenti nel tempo, per lo "straining" è sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo (come nel caso di un demansionamento) Lo "straining" è stato quindi definito come "una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un'azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell'ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è rispetto alla persona che attua lo straining, in persistente inferiorità. Lo straining viene attuato appositamento contro una o più persone ma sempre in maniera discriminante" (v. relazione CTU). In ogni caso, a prescindere dalle definizioni e dalle classificazioni, il CTU ha accertato che il comportamento illecito tenuto dalla Ad. Tr. S.r.l., come sopra ricostruito, ha determinato una lesione di carattere permanente sull'integrità psicofisica della lavoratrice, la quale risulta aver riportato un danno biologico permanente quantificato nella misura del 7/8% (v. relazione CTU). Is. Pa., infatti, ancora oggi presenta "disturbi alimentari e del sonno, insicurezza, tendenza all'isolamento e alla esclusività degli affetti, fobia della folla, diffidenza generalizzata verso gli estranei", una patologia diagnosticabile come "disturbo depressivo-ansioso" (v. relazione CTU). La società convenuta è quindi tenuta anche al risarcimento di tale danno, la cui liquidazione, vertendosi in tema di lesioni inerenti la persona, in quanto priva di contenuto economico, non può che avvenire equitativamente. Per quanto concerne la quantificazione della danno subito da Is. Pa., questo giudice ritiene di poter far propria la determinazione effettuata dal CTU sulla base di un rigoroso accertamento e di argomentazioni immuni da vizi logici. Conseguentemente, il danno può essere così quantificato: euro 7.155,26 per invalidità permanente già rivalutata ad oggi (nella misura del 7%) ed euro 3.500,00 (pari a circa la metà del danno biologico) per danno morale, somma che pare equa avuto riguardo alla gravità della condotta illecita, desumibile dalla totale dequalificazione subita, dalla sua durata, dall'anzianità della ricorrente. Per quanto concerne il risarcimento del danno morale, trattandosi di danno non patrimoniale, questo giudice ritiene di aderire all'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. fornita dalla recente giurisprudenza, sia costituzionale che di legittimità, secondo cui "il danno non patrimoniale conseguente alla ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata all'art. 185 c.p., e non presuppone, pertanto, la qualificazione del fatto illecito come reato, giacché il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsione della legge fondamentale, ove si consideri che il riconoscimento, nella Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige al tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale" (così cass. Civ. Sez. III n. 8827 del 31.5.2003; v. anche cass. Civ. Sez. III n. 8828 del 31.5.2003 e Corte Cost. n. 233 del 2003). E' allora evidente che, alla luce di tale recente orientamento giurisprudenziale, il risarcimento del danno morale, come danno non patrimoniale, nell'attuale sistema normativo prescinde dalla sussistenza di un fatto qualificabile astrattamente come reato, essendo unicamente collegato alla lesione di interessi costituzionalmente garantiti. Nella situazione esaminata, venendo in considerazione quella sofferenza di carattere transitorio atta comunque a determinare un turbamento psichico, si verte nell'ambito della lesione del diritto all'integrità psico-fisica tu telata dall'art. 32 della Costituzione. Non risulta infine documentata alcuna invalidità temporanea. Il risarcimento del danno, alla salute ammonta pertanto a complessivi euro 10.655,26, e poiché la liquidazione avviene ai valori attuali ed è quindi comprensiva della rivalutazione monetaria su tale somma competono gli interessi legali calcolati dalla data del fatto (ottobre 1998) sul capitale (previa devalutazione della somma sopra liquidata) per il primo anno sul capitale e sul capitale annualmente rivalutato secondo i criteri di cui all'art. 150 disp. att. c.p.c. per gli anni successivi fino al saldo. Le spese processuali, liquidate come in dispositivo, e quelle di CTU, liquidate con separato provvedimento, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

II Tribunale di Bergamo, in composizione monocratica ed in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando sulla causa n. 711/02 R.G.: 1. condanna la Ad. Tr. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento in favore di Is. Pa. della somma complessiva, di euro 10.655,26 a titolo di risarcimento del danno biologico, oltre gli interessi legali calcolati dalla data del fatto -ottobre 1998- sul capitale (previa, devalutazione della somma sopra liquidata) per il primo anno sul capitale e sul capitale annullante rivalutato secondo i criteri di cui all'art. 150 disp. att. c.p.c. per gli anni successivi fino al saldo; 2. condanna la Ad. Tr. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento in favore di Is. Pa. della somma complessiva, di euro 15.000,00 a titolo di risarcimento.del danno per la dequalificazione professionale, oltre gli interessi legali calcolati dalla data del fatto -ottobre 1998- sul capitale (previa devalutazione della somma sopra liquidata) per il primo anno sul capitale e sul capitale annualmente rivalutato secondo i criteri di cui all'art. 150 disp. att. c.p.c. per gli anni successivi fino al saldo; 3. Condanna la Ad. Tr. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento in favore della ricorrente delle spese di rito che liquida in complessivi euro 3.000,00 di cui euro 1.000,00 (omissis)