Tribunale di Pisa Sez. lavoro, 24.10.2003, n.4030



Sentenza

RIBUNALE DI PISA
Sent. n. 547/03 Cron. n. 4030
Dep. il 24. 10. 2003
REPUBBLICA ITALIANA
TRIBUNALE DI PISA
-Sezione Monocratica del Lavoro-

NEL NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Giudice del Lavoro -dr. G. SCHIAVONE- ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A
nella causa di lavoro iscritta al n. 210/03-R.G.C, decisa all'udienza del 25. 09. 2003 e promossa da
SV domiciliate in Pisa presso lo studio dell'Avv. *** che la rappresenta e difende per mandato in atti, unitamente all'Avv. ***
RICORRENTE
Contro
P. I. spa, elettivamente domiciliata in Pisa presso lo studio dell'Avv. *** che le rappresentata e difende, per mandato in atti unitamente all'Avv. ***
RESISTENTE

OGGETTO: Nullità/inefficacia di licenziamento per giusta causa.

CONCLUSIONI per la parte ricorrente: Voglia il Tribunale, accertata la nullità/illegittimità/inefficacia del licenziamento intimato all'odierna ricorrente dalla Soc. P. I. spa. con lettera del 13. 05. 2002, CONDANNARE, ex art. 18 L. n. 300/70, la Soc. P. I. spa. a reintegrare la ricorrente nel posto di lavoro; a risarcire il danno dalla medesima subito per il licenziamento di cui sia stata accertata l'inefficacia o l'invalidità stabilendo un'indennità, in ogni caso non inferiore a cinque mensilità, commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegrazione; al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione. Rivalutazione ed interessi. Vittoria di spese ed onorari.

CONCLUSIONI per la parte resistente: Rigettarsi la domanda avanzata dalla S perché infondata in fatto e in diritto e comunque non fornita di prova. Vittoria di spese ed onorari.

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato l'1. 03. 2003, VS domandava l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento comminatole dal datore di lavoro P. I.spa., il 13. 05. 2002, nonché la condanna di quest'ultima a reintegrarla nel posto di lavoro e al risarcimento del danno ai sensi dell'art. 18 St.Lav.-
A tal fine esponeva:
1)= che era dipendente della società resistente con le mansioni di direttrice dell'Ufficio postale di Pomarance;
2)= il giorno 15. 03. 1996 riceveva in Ufficio la visita del marito, il brigadiere dei Carabinieri T, da poco in pensione, il quale scorgeva fra la posta da distribuire, un busta destinata alla locale stazione dei Carabinieri ed egli, temendo che si trattasse di una lettera anonima, avente ad oggetto la sua persona e spedita proprio dalla moglie, se ne appropriava, allorquando, apertala, si accorgeva che la missiva era sì anonima, epperò avente ad oggetto la denuncia di un presunto convegno ove si sarebbe fatto uso di droga;
3)= avendo comunque intenzione di far pervenire la lettera ai Carabinieri egli la consegnava personalmente spiegando di averla trovata nella propria autovettura, perché infilata dal finestrino sempiaperto, ad opera di mano ignota;
4)= questa versione dei fatti non era creduta dai Carabinieri e il T provvedeva a rettificarla dicendo che la missiva gli era stata consegnata dalla moglie, credendolo ancora in servizio e che egli l'aveva aperta ritenendo di essere ancora carabiniere;
5)= i militi dell'Arma effettuavano l'appostamento sul luogo indicato nella lettera ma senza esito poiché nessuno compariva, sicchè si provvedeva a denuncia per il reato di calunnia a carico del T e della S;
6)= una perizia calligrafica scagionava entrambi dall'imputazione di essere redattori della lettera, epperò, essendo stato ravvisato nel comportamento della S, in base alla descrizione che dei fatti aveva data il di lei marito, la violazione dell'art. 619 cp. ("aver sottratto corrispondenza per darla in visione a soggetti non legittimati"), questa era denunciata all'a.g.,;
7)= la S era, quindi, rinviata a giudizio ma il relativo procedimento si concludeva il 22. 01. 2002 con il c.d. patteggiamento;
8)= in fine, in data 5. 04. 2002 le P. I. spa, contestavano alla ricorrente il fatto che con sentenza n. 11702 del 18. 01. 2002 fosse stata "dichiarata colpevole" del reato ex art. 619 cp. e la invitavano, ex art. 7, L. n. 300/70, a fornire le proprie giustificazioni sul punto;
9)= che aveva depositato le proprie giustificazioni segnalando che si era trattato di un grossolano equivoco derivato dall'avventata opera del marito il quale, forse, aveva equivocato sul proprio stato di servizio e, quindi, aperto quella corrispondenza. Che si fosse trattato di un malinteso era prova nel fatto che la posta veniva immediatamente recapitata all'Arma destinataria;
10)= che con raccomandata del 13. 05. 2002, la SOCIETA' comunicava di aver valutato con esito negativo le giustificazioni addotte epperò concludevano per il licenziamento senza preavviso;
11)= che la ricorrente impugnava il licenziamento;
12)= che interponeva ricorso ritenendo il licenziamento illegittimo, innanzitutto per tardività nell'avvio della procedura ex art. 7 L. n. 300/70 e, nella sostanza, perché erroneamente la controparte aveva ritenuto che la S avesse riconosciuto la propria colpevolezza, mentre, in realtà, si era risolta per il patteggiamento in base ad una valutazione di mera opportunità.
Si costituivano per P. I. spa chiedendo il rigetto del ricorso, in quanto:
A)= era venuta a conoscenza del carico penale della S solo nel 2002 e grazie a notizie della stampa locale;
B)= aveva provveduto alla contestazione con la tempestività del caso, in quanto, dopo aver richiesto all'A.G. copia della sentenza, aveva proceduto, in data 5. 04. 2002 alle contestazioni notificate l'11. 04. 2002 e, pervenute le giustificazioni il 16 aprile successivo, aveva proceduto alla valutazione ed al licenziamento in data 13 maggio 2002;
C)= non era vero che fosse mancato l'accertamento del fatto perché questo, ai sensi dell'art. 54 CCNL-2001, si poteva ritenere contenuto nella stessa sentenza di patteggiamento che doveva aversi come sentenza di condanna;
D)= assolutamente chiara era, dunque, la giusta causa del licenziamento posto che la ricorrente aveva violato i più elementari doveri inerenti al proprio ruolo, "avendo volontariamente sottratto corrispondenza a lei non diretta al fine di farne prendere cognizione a terzi consentendo inoltre, l'ingresso nei locali della società a persone estraneee" (art. 51 CCNL-2001);
E)= nessuna violazione dell'art. 7 St. Lav. era ravvisabile in quanto la società aveva proceduto ad attenta valutazione della condotta, non ritenendo idonee le giustificazioni addotte.
Interrogata la ricorrente, la causa, sulle conclusioni delle parti come in epigrafe trascritte, senza istruttoria alcuna, era decisa all'udienza del 25. 09. 2003, con lettura pubblica del dispositivo.

Motivi della decisione

Il ricorso va accolto perché fondato.
Va innanzitutto premesso che, sebbene parte resistente, su cui incombe notoriamente l'onere della prova della fondatezza della giusta causa di licenziamento, abbia in comparsa di costituzione richiesto una prova per testi, questa è stata ritenuta implicitamente inammissibile.
Invero, a parte il (poco influente) dato formale della mancata capitolazione della prova, quel che rileva è che il teste avrebbe dovuto rispondere non su fatti, bensì su valutazioni giuridiche, vero com'è che la narrativa della memoria, alla cui conferma era chiamato, non contiene fatti storici, bensì riferimenti al contenuto di norme contrattuali, ovvero di articoli del codice di procedura penale e a valutazioni sugli stessi.
In realtà, parte resistente, come ha illustrato nella memoria 25. 08. 2003, ritiene esplicitamente la superfluità della prova, poichè "i fatti risultano documentalmente e sono confermati dalle stesse dichiarazioni della S e del marito".
Ora va subito detto che in atti non v'è traccia di alcun atto dell'istruttoria penale ed è stata depositata da entrambe solo la sentenza di patteggiamento. Per quanto attiene, dunque, agli atti di provenienza della S si enucleano solo quelli pertinenti al procedimento disciplinare, mentre nulla esiste relativamente alle dichiarazioni del marito. Ed è appena il caso di ribadire che la ricorrente rifiuta la ricostruzione dei fatti fornita da controparte, peraltro completamente calzata su quella di cui all'imputazione penale.
La causa è, dunque, tutta incentrata sul valore giuridico da dare alla sentenza ex art. 444 cpp., in cui si assiste all'applicazione della pena su accordo della parte pubblica con l'imputato (c.d. patteggiamento).
Parte resistente esclude che il licenziamento sia attribuibile alla propria scelta di aver ritenuto il licenziamento come automatica applicazione della sentenza. Essa parte precisa che si è trattato, invece, della lineare applicazione dell'art. 54 CCNL-2001, secondo il quale si può procedere a licenziamento per giusta causa, in caso di "condanna passata in giudicato, quando i fatti costituenti reato possano assumere rilievo ai fini della lesione del rapporto fiduciario, nell'ipotesi in cui la loro gravità, in relazione alla natura del rapporto, alle mansioni, al grado di affidamento, sia tale da far ritenere il lavoratore professionalmente inidoneo alla prosecuzione del lavoro".
Nessuna fra le parti in causa ha prodotto copia del CCNL-2001 ma non essendovi contrasto sul contenuto, quello riferito dal resistente può ritenersi condiviso.
P. I., riproducendo una giurisprudenza della S.C. (n. 12804/99, peraltro contraria ad altre di poco precedenti n. 9976/98, 3038/96), pronunciata proprio in altra causa in cui essa stessa era parte, afferma: "la sentenza pronunciata a norma dell'art. 444 cpp., non è tecnicamente configurabile come una sentenza di condanna, anche se è a questa equiparata a determinati fini; tuttavia, nell'ipotesi in cui una disposizione di un contratto collettivo faccia riferimento alla sentenza penale di condanna passata in giudicato (nella specie come fatto idoneo a consentire il licenziamento senza preavviso), ben può il giudice del merito, nell'interpretare la volontà delle parti collettive, espressa nella clausola contrattuale, ritenere che gli agenti contrattuali, nell'usare l'espressione si siano ispirati al comune sentire che a questa associa la sentenza c.d. , atteso che in tal caso l'imputato non nega la propria responsabilità ma esonera l'accusa dall'onere della relativa prova in cambio di una riduzione di pena".
Questo Giudice, pur condividendo le grosse linee ispiratrici della citata massima, ritiene errate le conclusioni a cui è pervenuta la parte, la quale ha operato, sostanzialmente, un indebito automatismo, forse dettato dall'impropria estensione di una parte della decisione.
Dice in sostanza la citata sentenza della Suprema Corte (sulla scia di Cass ss.uu. pen. n.5777/92 che parla, addirittura, di accertamento implicito), che nella sentenza c.d. di patteggiamento l'imputato non nega la propria responsabilità, mentre altra sentenza, sempre della Cassazione penale (n. 4117/99), ritiene che si possa parlare con certezza quanto meno di "ammissione del fatto (quando non di responsabilità o implicito riconoscimento di colpevolezza)".
Ciò detto, però, è del tutto evidente che una cosa è valutare che le parti collettive abbiano considerato la sentenza di c.d. patteggiamento alla stessa stregua di quella tipica di condanna, al fine di operare un licenziamento per giusta causa, altra cosa è ritenere che le medesime parti abbiano assegnato a quella sentenza un'efficacia diversa ed anzi contraria rispetto a quella voluta dalla legge. Anche perché le sopra riferite conclusioni sono state assunte dalle SS.UU. a fini interni al corpus iuris penale, mentre secondo l'interpretazione patrocinata dalla parte resistente se ne vuole operare una trasposizione in campo lavoristico bypassando precise disposizioni di legge. Il che le renderebbe nulle, essendo quelle processuali norme di ordine pubblico e, quindi, inderogabili.
Diversamente da quanto previsto dall'art. 28 dell'abrogato codice di procedura penale, la nuova disciplina è improntata, in linea di principio, ad escludere la validità erga omnes dell'accertamento dei fatti effettuato in sede penale, introducendo quindi sostanzialmente la separatezza tra i giudizi (cfr. art. 3, com. 2 cpp.-1930).
Va detto, infatti, che, in ordine all'archetipo processual penalistico del giudizio a cognitio ordinaria, l'art. 654 cpp. esclude che la sentenza penale irrevocabile di assoluzione o di condanna possa avere efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo (diversi da quelli di danno disciplinati, invece, dall'art. 652 cpp.) fra soggetti diversi rispetto a quelli che vi abbiano partecipato o che siano intervenuti (responsabile civile). La regola di cui all'art. 652 cpp. riguarda, invece, più semplicemente coloro che fossero stati posti in condizione di intervenire.
E comunque, laddove nelle diverse ipotesi in cui agli artt. 652, 653 e 654 cpp., è prevista un'estensione dell'efficacia del giudicato penale, vuol dire che solo l'accertamento dei fatti nella "loro materialità oggettiva" (Cass. n.8935/96) è vincolante nel diverso giudizio in cui fossero presenti almeno alcune fra le parti di quello penale. Sicchè, il giudice civile, pur non potendo ricostruire in diverso modo i fatti accertati in sede penale, è, tuttavia, libero di compiere, per le diverse finalità del giudizio civile, una propria autonoma valutazione (Cass. n. 1330/99, n. 9680/98, 9805/97).
Da tanto deriva che "il giudice del lavoro adito con impugnativa del licenziamento, ove pure comminato in base agli stessi comportamenti che furono oggetto di imputazione in sede penale, non è affatto obbligato a tener conto dell'accertamento contenuto nella sentenza penale ma ha il potere di ricostruire autonomamente, con pienezza di cognizione i fatti materiali e di pervenire a valutazioni e qualificazioni degli stessi del tutto svincolate dall'esito del procedimento penale", qualora in questo non vi abbia partecipato il datore di lavoro (Cass. n. 10315/00), come nella fattispecie qui in esame.
E le cose non sono mutate in merito al giudizio disciplinare innanzi alla p.a. dopo l'introduzione, ad opera della L. n. 97/01, del comma 1bis all'art. 653, perchè ha esteso la portata dell'efficacia del giudicato penale di condanna, oltre a quello assolutorio, già previsto, ma sempre limitatamente all'elemento oggettivo del reato (azione e sua riferibilità, evento e nesso di causa) e lasciando libero il giudice civile di apprezzare l'elemento soggettivo del reato.
Non è certo qui il caso di prendere posizione in ordine alla natura della procedura di applicazione della pena su richiesta delle parti (che, significativamente il legislatore non ha titolato come Giudizio, a differenza di tutti gli altri procedimenti speciali) ma, per l'economia della presente causa è sufficiente rilevare, innanzitutto che ai sensi dell'art. 445 cpp., "anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, la sentenza non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi", con esclusione del caso di cui all'art. 653 cpp, cioè nei procedimenti disciplinari innanzi alla p.a. e, anzi, non lo ha neppure nei confronti dell'azione civile che fosse esercitata nel processo penale ("Se vi è costituzione di parte civile, il giudice non decide sulla relativa domanda" art. 444, com. 2, cpp.).
E' ben vero che l'ult. parte del primo comma dell'art. 445 cpp. afferma che "la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna" ma questa equiparazione "è possibile a determinati fini esclusivamente penali" (Cass. n. 3038/96).
Può darsi, per seguire Cass. n. 12804/99, che le parti collettive abbiano voluto equiparare in tutto la sentenza di patteggiamento a quella dibattimentale di condanna, certo è, però, che alla prima non può assegnarsi un'efficacia ulteriore rispetto a quella attribuita dalla legge alla seconda.
Con estrema chiarezza il Giudice di legittimità ha appunto affermato che: "In ogni caso la valutazione della gravità del comportamento del lavoratore, ai fini della verifica della legittimità del licenziamento per giusta causa deve essere operata dal giudice civile alla stregua della ratio degli artt. 2119 cc. e 1 L. n. 604/66 e cioè tenendo conto dell'incidenza del fatto commesso sul particolare rapporto fiduciario che lega le parti nel rapporto di lavoro (...) indipendentemente dal giudizio che del medesimo fatto dovesse darsi ai fini penali" (Cass. n. 10315/00).
Ora, quand'anche, per effetto di un'amplissima interpretazione della volontà collettiva come sopra riportata, si dovesse ritenere in astratto la vincolatività della sentenza di patteggiamento, anche fra persone diverse da quelle che abbiano partecipato al procedimento per l'applicazione della pena a richiesta (ma si è visto che nessuna partecipazione è possibile) va da sé che, pure in questo caso, l'efficacia del giudicato sarebbe limitata alla materialità del fatto, mentre il datore di lavoro nel corso del procedimento disciplinare dovrebbe apprezzare, inoltre, tutti gli elementi soggettivi, al fine di verificare se la loro realizzazione valga altresì ad integrare la lesione irreparabile dell'elemento fiduciario.
A questo, dunque, serve il procedimento disciplinare. Altrimenti, se il potere espulsivo potesse essere ancorato direttamente ed immediatamente alla pronuncia penale, esso stesso sarebbe una inutile superfetazione, essendo bastevole l'atto espulsivo immediato.
Però si dice, la procedura è stata posta in essere ed il datore di lavoro solo all'esito si è convinto della gravità anche soggettiva del fatto, agendo di conseguenza.
Ma si dimentica che, dopo il datore di lavoro, anche il Giudice deve essere posto in grado di realizzare un'ulteriore indagine attinente alla legittimità ed alla congruità della scelta datoriale, poiché: "compete unicamente al giudice del merito stabilire se il comportamento addebitato si risolva in una negazione degli elementi essenziali del rapporto tanto grave da giustificarne la cessazione con effetto immediato e se il provvedimento espulsivo sia o meno proporzionato alla concreta entità della mancanza" (Cass. n. 10315 cit.).
Ciò avrebbe dunque, comportato che fossero portati alla cognizione del giudicante tutti gli elementi di fatto idonei a dimostrare la volontarietà del comportamento contestato, posto che il licenziamento è stato motivato sulla base di una condotta che si asserisce dolosa, poiché si limita a richiamare l'imputazione a suo tempo elevata, la quale, avendo ad oggetto un delitto (art. 619 cp.), non poteva essere sorretta se non dal dolo (di scopo).
Parte ricorrente ha sempre negato, infatti, che le cose siano andate nel senso di cui all'imputazione ed ha affermato di aver acceduto al patteggiamento solo per un mero calcolo di opportunità, evidentemente perché temeva di non essere in grado di dimostrare alcuni elementi di perfezione del reato, come ad esempio la volontarietà della condotta.
Il datore di lavoro è incorso, in verità, in un duplice errore. Da un lato ha dato mostra di ritenere che nel giudizio penale fosse stato effettuato anche l'accertamento dell'elemento psicologico, tant'è che nella contestazione disciplinare afferma testualmente: "(...) è stata depositata la sentenza (...) con la quale la S.V. è stata dichiarata colpevole dei reati previsti dall'art. 619 cp. (...)", dall'altro ha evidentemente equivocato sulla portata degli effetti del giudicato penale nel diverso giudizio civile, ritenendo vincolate al di fuori del processo penale quel giudizio di colpevolezza, peraltro inesistente, non essendo sufficiente dedurlo dal mancato proscioglimento ex art. 129 cpp.
Vero è che, prevedendo il CCNL-01 che la decisione di condanna possa essere giusta causa di recesso dal rapporto, vuol dire semplicemente che le parti collettive hanno condiviso il fatto che un condanna penale possa essere aggiunta a quelle cause che legittimano in recesso secondo il codice disciplinare. Anzi l'articolato di cui all'art. 54 ne impone comunque una valutazione di carattere discrezionale, posto che vien detto che il licenziamento può derivare solo se i fatti costituenti reato "possano assumere rilievo ai fini della lesione del rapporto fiduciario", cioè a seguito di un giudizio prognostico negativo circa l'idoneità professionale alla prosecuzione del lavoro.
In quest'ottica, ben si può accedere a Cass. n. 12804/99 e ritenere che anche la sentenza c.d. di patteggiamento possa essere considerata alla stessa stregua di una sentenza dibattimentale di condanna, purchè, però, ciò non comporti un'assimilazione degli effetti dei due istituti che non è consentita dalla legge.
Se, dunque, un procedimento disciplinare può essere avviato per le cause previste dal contratto, ma anche per altre costituenti di per sé fatti assolutamente non tollerabili ex art. 2119 cc., lo potrà essere altresì in relazione a fatti che abbiano formato oggetto di condanna sia con sentenza dibattimentale che di patteggiamento.
Dopo questa soglia non è lecito andare.
In particolare non si può certo ritenere compreso fra i fatti resi certi dalla sentenza penale la violazione dell'obbligo fiduciario, sia perchè un'indagine in merito attiene chiaramente all'elemento soggettivo, poiché riguarda l'atteggiamento psicologico del lavoratore, sia perché la fiducia, che è fatto completamente estraneo al campo del diritto penale, non entra nel gioco delle circostanze apprezzabili nel processo penale, sicchè accade che neanche l'accertamento del fatto contenuto nella sentenza penale, copra tutti gli elementi che, invece, il giudice del lavoro è chiamato ad appurare.
Insomma, quella sentenza di patteggiamento poteva essere un utile punto di partenza ma non certo il punto di arrivo da cui far dipendere in via esclusiva il recesso datoriale. E, ad ogni modo, al vaglio del giudicante non sono stati portati gli elementi oggettivi e soggettivi di fatto, per la necessaria verifica di proporzione (Cass. n. 10315/00) con la sanzione espulsiva comminata.
Per mero scrupolo di completezza della motivazione, non avendo parte ricorrente insistito ulteriormente sulla medesima, va detto che l'eccezione di tardività del procedimento disciplinare non è risultata provata. Non è stato dimostrato, cioè che il datore di lavoro fosse stato a conoscenza delle componenti dell'illecito, prima delle notizie della stampa locale, successive alla sentenza di condanna. Per quanto attiene alla sequenza di accertamenti (cadenzata come sopra riferito) che da quel momento il datore di lavoro ha posto in essere, ne appare veramente tempestiva la realizzazione.
Dall'illegittimità del licenziamento discendono le conseguenze di cui all'art. 18 St. Lav. E cioè: reintegra sul posto di lavoro occupato al momento del recesso e corresponsione dette retribuzioni non corrisposte, aumentate degli interessi sulle somme rivalutate (trattandosi di rapporto di lavoro privato).
La particolarità delle questioni trattate è giusto motivo per compensare integralmente le spese di lite fra le parti.

P. Q. M.

Il Giudice del lavoro, definitivamente pronunciando,
DICHIARA illegittimo il licenziamento intimato a SV il 13. 05. 2002. e per l'effetto CONDANNA le P. I. spa. a reintegrare la medesima sul posto di lavoro che questi occupava al momento del licenziamento.
CONDANNA sempre parte resistente P. I. spa. a pagare a S le retribuzioni lorde omesse dalla data dell'interruzione del rapporto a quella dell'effettiva reintegra, oltre interessi sulle somme rivalutate. COMPENSA integralmente le spese di lite fra le parti.

IL GIUDICE d.L. Schiavone