Cass. Civ. Sez. lavoro, 02-01-2002, n. 10



Sentenza

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Ettore MERCURIO -Presidente-
Dott. Mario PUTATURO DONATI VISCIDO -Consigliere-
Dott. Ettore R. GIANNANTONIO -Consigliere-
Dott. Raffaele FOGLIA -Consigliere-
Dott. Gabriella COLETTI -Rel.Consigliere-

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:  P. D. elettivamente domiciliato in ROMA VIA XX SETTEMBRE 98/G, presso lo studio dell'avvocato FABIO SCATAMACCHIA, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;
-ricorrente-
contro : R. RADIOTELEVISIONE ITALIANA SPA;
-intimato-
e sul 2^ ricorso n^ 16462/99 proposto da:  R. RADIOTELEVISIONE ITALIANA SPA,in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA BOCCA DI LEONE 78, presso lo studio dell'avvocato E. I., che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;
-controricorrente e ricorrente incidentale-
nonché contro
P. D., elettivamente domiciliato in ROMA VIA XX SETTEMBRE 98/G, presso lo studio dell'avvocato FABIO SCATAMACCHIA, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;
-controricorrente al ricorso incidentale-
avverso la sentenza n. 15625/98 del Tribunale di ROMA, depositata il 07/09/98 R.G.N. 5564/94;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/10/01 dal Consigliere Dott. Gabriella COLETTI;

udito l'Avvocato SCATAMACCHIA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Renato FINOCCHI GHERSI che ha concluso previa riunione dei fascicoli, rigetto di entrambe i ricorsi.

Svolgimento del ricorso

Con ricorso al pretore di Roma D. P. esponeva che dal 1970 al 1973 aveva lavorato come attore alle dipendenze della R. S.p.A.; che dal 1973 al 1989 la R., pur retribuendolo, non lo aveva fatto più lavorare sicché era responsabile dei danni derivanti:
da inattività protrattasi per sedici anni; da perdita dell'equo compenso ex art. 80 della L. 22 aprile 1941 n. 633 (legge sul diritto d'autore);
da mancata conclusione di contratti artistici con terzi;
da mancata percezione degli aumenti di merito di cui all'art. 8 del Regolamento contrattuale; da lesione del diritto alla notorietà.
Nel contraddittorio con la R., il pretore, con sentenza non definitiva del 15 luglio 1992, dichiarava il diritto del P. ad essere utilizzato sia nella produzione radiofonica che televisiva e rimetteva la causa sul ruolo per la determinazione delle inadempienze della R. e per la quantificazione dell'eventuale danno. Quindi, con sentenza definitiva del 22 aprile 1994 condannava la società datrice di lavoro a pagare al P. la somma di lire 100 milioni a titolo di risarcimento del danno per inattività.
Contro le due sentenze proponevano appello entrambe le parti evidenziandone l'erroneità sotto più profili.
Disposta la riunione dei giudizi, con sentenza del 7 settembre 1998, il Tribunale di Roma ha accolto parzialmente l'appello del P. (precisamente, in punto di liquidazione delle spese di lite e di correzione di errore materiale della sentenza non definitiva del 15 luglio 1992) e ha respinto quello della R..
In motivazione il giudice del gravame ha osservato che infondate erano le eccezioni (litispendenza, nullità dell'appello del P., mancata sospensione del giudizio sul quantum in attesa della definizione di quello sull'"an") sollevate dalla R.. Nel merito, ha accertato che il P. era stato assunto dalla R. nel 1970 per lo svolgimento di mansioni di attore di terza categoria e che, in base al contratto intervenuto tra le parti, era tenuto a rendere una prestazione giornaliera di cinque ore per la produzione di programmi radiofonici, ovvero di sei ore e trenta per i programmi televisivi, per sei giorni la settimana. Ha quindi affermato che la sostanziale inattività del P. nell'arco di sedici anni, a partire dal 1973, era un dato provato in giudizio come imputabile alla R. e integrava violazione dell'art. 2103 cod. civ., nonché del fondamentale diritto al lavoro, inteso quale mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino. Ha proseguito osservando che la violazione, protratta per anni, di quel diritto fondamentale, aveva certamente leso la professionalità e l'immagine del P., cioè il bene definito in ricorso come "notorietà", producendogli per ciò stesso un danno che correttamente era stato quantificato nella somma indicata in via equitativa dal pretore utilizzando come parametro la retribuzione percepita dal lavoratore mese per mese nel periodo di demansionamento.
Quanto poi alla asserita (dalla R.) non imputabilità dell'inadempimento, il Tribunale ha affermato che l'assunto appariva del tutto inadeguato a fronte di un'attività disimpegnabile dal dipendente in produzioni, radiofoniche e televisive, nelle quali la società era impegnata giornalmente per 24 ore e su più reti; e comunque era rimasto del tutto indimostrato con riferimento ad entrambi i profili dedotti a giustificazione del comportamento datoriale, non essendo state avanzate né reiterate sul punto richieste istruttorie.
Ha disatteso, inoltre, la doglianza della R. relativa all'aggravamento del danno professionale per comportamento colposo del dipendente, e passando ad esaminare le (altre) voci di danno pretese dal P. (equo compenso, mancata conclusione di contratti, aumenti di merito) ha evidenziato: quanto alla prima, che mancava del tutto la prova del fatto costitutivo del vantato diritto; quanto alla seconda, che la stessa era del pari sfornita di prova e comunque contraddetta dalle deduzioni di cui al punto 8) del ricorso introduttivo; quanto alla terza, che gli aumenti di merito erano rimessi alla discrezionalità del datore di lavoro e non potevano ritenersi perciò conseguenza normale e diretta dell'inadempimento.
Il P. chiede la cassazione di questa sentenza con ricorso fondato su cinque motivi.
La società R., nel controricorso, propone, a sua volta, ricorso incidentale affidato a tre motivi, ai quali resiste il P.. Le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione

Il ricorso principale e quello incidentale devono essere riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c. perché proposti contro la stessa sentenza.
Con il primo motivo del ricorso principale D. P. censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell'art. 2103 c.c., degli artt. 1362 c.c. e segg., nonché per vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, con riferimento alla interpretazione del contratto di lavoro (art. 360, n. 3 e n. 5, c.p.c.). Sostiene che il Tribunale non ha considerato la intenzione delle parti di stipulare un contratto di scrittura artistica, contratto che si qualifica per l'interesse dell'artista interprete ad eseguire le attività concordate, in quanto il suo lavoro - e quindi la sua "notorietà" - si arricchiscono sempre più con l'interpretazione e con i conseguenti riconoscimenti di critica e di pubblico. Conseguentemente il danno provocato dalla esclusione di esso ricorrente da qualsiasi parte, doveva essere risarcito in modo consono alla sua personalità, alla sua fama e alle sue immense possibilità di impiego come attore, ossia con una determinazione "qualificata". Non corretta, pertanto, sarebbe la quantificazione del danno operata con il semplice calcolo dell'aumento del 50% ("rectius" 29%) delle retribuzioni percepite, in quanto il giudice del merito, visto il gravissimo inadempimento del datore di lavoro, avrebbe dovuto considerare e valutare sia gli elementi specifici del contratto in essere tra le parti, sia i programmi in cui il P. avrebbe dovuto e/o potuto essere impiegato come attore (anche con riferimento alle prove richieste sul punto) e quantificare, seppure in via equitativa ma tenendo conto comunque di questi specifici elementi, il danno da risarcire.
Con il secondo motivo e con denuncia di vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.) assume il ricorrente che il Tribunale ha omesso di pronunciarsi sulla sua richiesta di mezzi istruttori, che gli avrebbero consentito di quantificare il danno subito tenendo in doveroso conto le proprie capacità artistiche e professionali e le "parti" che avrebbe potuto e dovuto effettuare come attore se la R. non si fosse resa inadempiente agli obblighi contrattuali. Il Tribunale, a tal fine, avrebbe dovuto:
a) ammettere le prove testimoniali richieste con l'atto introduttivo;
b) disporre la esibizione dei palinsesti R. dal 1973 al 1989;
c) disporre la esibizione degli orari di lavoro di esso ricorrente dal 1973 al 1989;
d) disporre CTU al fine di accertare in quali e quante programmazioni il P. poteva essere impiegato;
e) disporre che la R. esibisse l'elenco degli attori a tempo indeterminato e gli spettacoli delle reti televisive e radiofoniche in cui erano stati impegnati, nonché una panoramica di tutti gli spettacoli e produzioni, dal 1973 al 1989, in cui il P. doveva essere impiegato in forza dell'art. 11 del contratto artistico di lavoro;
f) disporre la esibizione di tutti gli appalti artistici delle reti televisive e radiofoniche concessi a ditte esterne con la indicazione dei compensi versati agli attori non R..
Con il terzo motivo e sempre con denuncia di vizio di motivazione omessa insufficiente e contraddittoria (art. 360, n. 5, c.p.c.) il P. sostiene che l'affermazione, secondo la quale il danno era stato liquidato in misura pari al 50% della retribuzione da lui percepita nel periodo di cui è causa, è contraddetta dal fatto che la R., in tale periodo, ebbe a corrispondergli la somma di lire 309 milioni ed il 50% di tale somma ammonta evidentemente a 154 milioni e non a 100 milioni come liquidato dai giudici "a quo". In sostanza il Tribunale ha commesso un errore causato da una inesatta determinazione dei presupposti numerici di un'operazione che si risolve in un vizio logico di motivazione della impugnata sentenza.
Con il quarto motivo, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 2120 e 2115 c.c. e delle leggi in materia pensionistica, in relazione all'art. 1226 c.c. e all'art. 432 c.p.c., nonché vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360, n. 3 e n. 5, c.p.c.), assume il ricorrente che il Tribunale, pur avendo accertato la sussistenza del suo diritto all'aumento retributivo, non ha poi provveduto a determinare le somme a lui spettanti per l'incidenza di tale aumento nel trattamento di fine rapporto e a dichiarare, altresì, il suo diritto alle "spettanze pensionistiche" corrispondenti alle maggiori retribuzioni dovutegli.
Con il quinto motivo e con denuncia di violazione e falsa applicazione dell'art. 80 della legge sul diritto d'autore, degli artt. 1175 e 1375 c.c. nonché di vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo (art. 360, n. 3 e n. 5, c.p.c.), lamenta il ricorrente che il Tribunale abbia omesso di valutare il comportamento inadempiente della R. alla stregua delle regole di correttezza e buona fede nel decidere sulla domanda di risarcimento dei danni per la perdita del diritto all'equo compenso di cui all'art. 80 della legge sul diritto d'autore e per la mancata corresponsione degli aumenti di merito. Il P., infatti, avrebbe potuto recitare nelle numerosissime opere e programmi realizzati dalla società e godere dei diritti nascenti dalla diffusione delle recitazioni eseguite (tra i quali, quello a percepire l'equo compenso). Sul punto, sin dal primo grado, erano stati richiesti numerosi mezzi istruttori, sicché il Tribunale ha errato a ritenere non provato il fatto costitutivo delle asserite perdite o possibilità di guadagno. Quanto poi agli aumenti di merito, assume che, ove il contratto preveda (come, nel caso, il Regolamento R. all'art. 8) la loro attribuzione come elemento costitutivo della retribuzione, gli stessi possono essere considerati come semplice liberalità, ma assumono valore di corrispettivo, soggetto, quindi, al controllo del giudice che deve verificare la discrezionalità del datore di lavoro secondo i principi di correttezza e buona fede.
Con il primo motivo del proprio ricorso incidentale la società R. censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 2103, 1223, 1226 e 1227 c.c., dell'art. 112 c.p.c., nonché per omessa insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360, n. 3 e n. 5, c.p.c.), per avere il Tribunale ritenuto la sussistenza di un danno risarcibile in conseguenza della lesione della professionalità e dell'immagine del P. sulla base di sole presunzioni, benché (contraddittoriamente) giudicate inidonee a sopperire al mancato assolvimento dell'onere probatorio. Inoltre, il giudice a quo avrebbe violato l'art. 112 c.p.c. con l'affermare che l'inadempimento della R. avrebbe reso la professionalità e l'immagine del ricorrente" perché il P. aveva domandato unicamente il risarcimento del danno per la lesione del "diritto alla notorietà". La motivazione della sentenza d'appello sarebbe, altresì, contraddittoria nella parte in cui, da un lato, riconosce la esistenza del danno e, per altro verso, osserva che il P. aveva ricevuto alcune importanti proposte di lavoro, da lui rifiutate in ossequio al contratto che lo legava alla R.; la circostanza, invero, dimostrerebbe che, comunque, nessun effetto pregiudizievole aveva prodotto l'asserita inattività. Censura, infine, le considerazioni con le quali il giudice di appello ha escluso la rilevanza del comportamento del P. nell'aggravamento del danno professionale, osservando che in due sole occasioni (non già "più volte") il lavoratore aveva chiesto di essere utilizzato, e che l'aver proposto l'azione giudiziaria dopo più di quindici anni dall'inizio dell'inattività integrava una condotta acquiescente e omissiva che non poteva essere negata con la mera argomentazione che la decisione di agire in giudizio... necessita di adeguata meditazione".
Con il secondo motivo e con deduzione di violazione e falsa applicazione dell'art. 2118 c.c. ("recte" 1218 c.c.), nonché del vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360, n. 3 e n. 5, c.p.c.) la sentenza del Tribunale è censurata per aver ritenuto del tutto indimostrato l'assunto della R. circa la non imputabilità dell'inadempimento, disattendendo gli elementi acquisiti al processo e ignorando che il pretore, nella sentenza non definitiva, aveva ravvisato la indispensabilità di un'indagine approfondita circa la gravità dell'inadempimento (a tal fine rimettendo la causa sul ruolo) e prospettato la indispensabilità di disporre una CTU per stabilire un quadro delle opere in cui il P. era validamente collocabile.
Con il terzo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 414, n. 4, c.p.c. in relazione all'art. 434 c.p.c., nonché vizio di insufficiente motivazione su punto decisivo (art. 360, n. 3 e n. 5, c.p.c.), la ricorrente assume che erroneamente il Tribunale ha escluso la nullità dell'atto di appello proposto dal P., posto che lo stesso mancava del requisito della esposizione dei fatti, non recando menzione dello svolgimento del processo, del contenuto degli atti di parte né dei fatti che sarebbero stati a fondamento del ricorso, così da non consentire la individuazione certa dei termini della controversia.
Il ricorso incidentale della società R. va esaminato per primo, prospettando questioni logicamente preliminari a quelle poste con il ricorso principale, e la verifica della fondatezza del terzo dei tre motivi di impugnazione precede la valutazione degli altri, dal momento che le censure ivi proposte investono la stessa validità dell'appello del P..
Tali censure sono, peraltro, infondate.
La Corte ha, infatti, più volte chiarito (vedi, in particolare, Cass., 22 giugno 1999 n. 6312, 1156/95, 11971/95, 9 novembre 1994 n. 9316), che il requisito della "sommaria esposizione dei fatti" richiesto dall'art. 342 c.p.c. (e, nel rito del lavoro, dall'art. 434 c.p.c.) è funzionale alla individuazione delle censure mosse dall'appellante e, in quanto tale, noni esige una parte espositiva formalmente autonoma ed unitaria, ma può emergere indirettamente dalle argomentazioni svolte a sostegno dei motivi di appello, ove questi forniscano gli elementi idonei a consentire l'individuazione dell'oggetto della controversia e delle ragioni del gravame. Il giudizio da rendere al riguardo deve essere, quindi, formulato sulla base del contenuto complessivo dell'atto, con apprezzamento del giudice del merito sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione.
Vizi che, nel caso, non sussistono, apparendo in tutto coerente con il ricordato principio la valutazione del Tribunale che ha escluso la nullità osservando che il ricorso in appello del P. presentava tutti i requisiti di legge necessari per il raggiungimento dello scopo cui l'atto è preordinato e conteneva, in particolare, una esaustiva esposizione dei fatti e delle ragioni di diritto.
Ma infondati sono anche il primo e il secondo motivo del ricorso incidentale.
Quanto al primo motivo, osserva la Corte che il Tribunale, una volta accertato che il P. era stato lasciato in condizione di inattività per lunghissimo tempo, a fronte dell'obbligo assunto dalla R. di farlo lavorare ogni giorno per cinque o sei ore (a seconda del tipo di prestazione, radiofonica o televisiva), ha ritenuto che il comportamento datoriale non solo violava la norma di cui all'art. 2103 cod. civ., ma era al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell'immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza.
In sostanza con tale affermazione il giudice di appello ha enunciato un concetto di lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo, e ha ritenuto che tale lesione produca automaticamente un danno (non economico ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore), anche se determinabile necessariamente solo in via equitativa.
La Corte non ritiene censurabile la statuizione, che è conforme alla ricostruzione del danno da demansionamento professionale data dalla giurisprudenza di legittimità nella sua più recente evoluzione. In diverse, significative, pronunce questo giudice ha, infatti, rilevato che la modifica "in peius" (ovvero la negazione o l'impedimento) delle mansioni dà luogo ad una pluralità di pregiudizi, solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore. Infatti il demansionamento non solo viola lo specifico divieto di cui all'art. 2103 cod. civ., ma ridonda in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell'interessato, con una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa (Cass., 18 ottobre 1999 n. 11727, 6 novembre 2000 n. 14443).
L'affermazione di un valore superiore della professionalità, direttamente collegato a un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale, in qualche modo supera e integra la precedente affermazione che la mortificazione della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a risarcimento solo ove venisse fornita la prova dell'effettiva sussistenza di un danno patrimoniale (cfr. le sentenze 11 agosto 1998 n. 7905, 4 febbR.o 1997 n. 1026, 18 aprile 1996 n. 3686, e 13 agosto 1991 n. 8835). Prova, viceversa, che, secondo le ricordate pronunce, rimane necessaria per quanto riguarda l'eventuale danno materiale, il pregiudizio economico cioè subito dal lavoratore anche in termini di guadagno non conseguito per effetto della perdita di concreti vantaggi necessariamente legati allo svolgimento delle mansioni negate.
Con ciò, rimangono in ogni caso superate (limitandosi la Corte a correggere la motivazione nell'esercizio dei poteri di cui all'art. 384, comma 1, c.p.c.) le contraddizioni che si dicono esistenti nel ragionamento svolto dal giudice del merito in punto di prova della sussistenza di un danno risarcibile.
Non sussiste, inoltre, la denunciata violazione dell'art. 112 c.p.c., posto che parlando di lesione della professionalità e della immagine del lavoratore il Tribunale ha ben spiegato che, con tale espressione, intendeva dare contenuto al bene definito nel ricorso introduttivo come "notorietà".
Neppure è censurabile la motivazione con la quale è stata negata rilevanza al comportamento del P. nell'aggravamento del danno professionale, non riscontrandosi illogicità e contraddizioni nelle valutazioni in fatto operate dal giudice del merito, laddove i rilievi svolti dalla società ricorrente, senza evidenziare il mancato esame di elementi e circostanze decisivi, appaiono intesi a sollecitare un nuovo apprezzamento di merito che, secondo i principi, è inammissibile in sede di legittimità.
Quanto, infine, al secondo motivo di ricorso incidentale, è sufficiente osservare, per ritenerne la infondatezza, che la società ricorrente non specifica quali fossero gli elementi probatori acquisiti a dimostrazione del suo assunto e che sarebbero stati trascurati dal Tribunale; il che impedisce alla Corte di verificarne la decisività, l'idoneità cioè a comportare con ragionevole certezza una decisione diversa da quella adottata (esigenza cui l'art. 360, n. 5, c.p.c. allude col riferimento al "punto decisivo") e di ritenere, perciò, sussistenti i denunciati vizi di motivazione. Il riferimento, poi, alla sentenza non definitiva del pretore è inconsistente, essendo la stessa superata dalla sentenza definitiva che, avendo condannato la R. al risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, ne aveva, con tutta evidenza, presupposto la imputabilità.
Passando quindi all'esame del primo motivo del ricorso principale, osserva la Corte che, diversamente da quanto nello stesso si sostiene, il giudice di appello, nel procedere alla liquidazione, in via equitativa, del danno correlato alla lesione della personalità del lavoratore, ha doverosamente tenuto conto della specificità e delle caratteristiche della prestazione lavorativa oggetto del contratto di scrittura artistica intervenuto tra le parti - ponendo in evidenza come la stessa potesse arricchirsi di riconoscimenti e consensi solo con il suo esercizio costante - nonché del dimostrato, notevole grado di notorietà acquisito dal P. negli anni immediatamente precedenti l'accantonamento illegittimamente impostogli dal datore di lavoro.
Neppure arbitrario ed illogico appare il ricorso in via parametrica alla retribuzione (anche) per una quantificazione "qualificata" del danno alla professionalità del lavoratore, non potendo negarsi che la retribuzione costituisce espressione (per qualità e quantità, ai sensi dell'art. 36 della Costituzione) anche del contenuto professionale della prestazione, nel caso in esame concretamente non accettata dalla R. (e tuttavia ugualmente retribuita come se fosse stata eseguita).
Quanto alle censure di cui al secondo motivo si osserva che è principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità quello secondo cui il mancato esame di una istanza istruttoria integra un vizio della sentenza impugnata, idoneo a determinarne la cassazione, solo se e in quanto le circostanze che costituivano oggetto della richiesta di parte siano decisive, siano tali cioè che, se valutate ed esaminate correttamente avrebbero potuto condurre ad una decisione di merito diversa da quella in concreto adottata.
Peraltro, il controllo sulla ricorrenza del detto requisito della "decisività" non può essere esercitato autonomamente dalla Corte di Cassazione attraverso il diretto esame degli atti e degli scritti difensivi dei precedenti gradi di giudizio, ma, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, deve poter essere compiuto sulla sola base delle deduzioni contenute nel ricorso stesso, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative.
Costituisce, dunque, un preciso onere della parte indicare specificamente nel ricorso - se del caso mediante la loro integrale trascrizione - le circostanze che intendeva dimostrare con la deduzione probatoria della quale lamenta la omessa considerazione (vedi, tra tante, Cass., 3 febbR.o 2000 n. 1203, 13 aprile 1996 n. 3494, 13 gennaio 1995 n. 381).
Nel caso, l'onere suddetto è rimasto inadempiuto perché il ricorrente ha omesso di indicare le circostanze che costituivano oggetto della richiesta prova testimoniale, essendosi limitato a fare un mero e del tutto generico riferimento al fatto che la stessa avrebbe chiarito le modalità di quantificazione del danno.
Ma neppure la sentenza impugnata può costituire oggetto di censura per non avere il giudice del merito ordinato la esibizione della documentazione in possesso del datore di lavoro, ovvero per non aver disposto la richiesta consulenza tecnica di ufficio.
Noto è infatti il principio, espresso dalla del tutto prevalente giurisprudenza di questa Corte (vedi Cass., 30 gennaio 1995 n. 1092, 22 febbR.o 1995 n. 2019, 14 settembre 1995 n. 9715, 10 luglio 1998 n. 6769, 20 dicembre 2000 n. 15983) che l'ordine di esibizione di documenti, ex art. 210 cod. proc. civ., costituisce una facoltà discrezionale rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito, che non è tenuto a specificare le ragioni per le quali ritiene di non avvalersene. Ne consegue che il mancato esercizio della suddetta facoltà non è sindacabile in sede di legittimità, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione.
Del pari, fermo restando che la consulenza tecnica non costituisce un mezzo di prova (come sembra sostenere il ricorrente) ma uno strumento per la valutazione della prova acquisita (a parte il caso in cui si risolva nell'accertamento di fatti rilevabili unicamente con l'ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche, il che, nella specie, non è dedotto), va considerato che rientra nel potere discrezionale del giudice la decisione di ricorrere o meno all'assistenza di un consulente tecnico, salvo il dovere di motivare adeguatamente il rigetto della istanza di ammissione proveniente da una delle parti, quando in essa siano state indicate le ragioni della indispensabilità delle indagini tecniche ai fini della decisione (Cass., 20 novembre 2000 n. 14979).
Nel caso concreto, peraltro, il ricorrente non spiega in che cosa consistessero tali ragioni, né fa cenno al fatto di averle adeguatamente rappresentate al giudice "a quo", la cui mancata pronuncia sulla istanza in questione non può, conseguentemente, costituire ragione di cassazione della impugnata sentenza sotto il profilo del vizio di motivazione.
Anche il secondo motivo, dunque, è privo di giuridico fondamento.
Con riferimento, poi, ai rilievi svolti nel terzo motivo, è sufficiente osservare, per ritenerne la totale infondatezza, che il Tribunale (pagina 30 della sentenza) afferma testualmente che "... la liquidazione effettuata in via equitativa dal pretore appare corretta, corrispondendo quasi integralmente a metà della retribuzione... "; dove è evidente che parlare di liquidazione corrispondente "quasi integralmente a metà della retribuzione" non equivale a dire che si tratta di liquidazione corrispondente "a metà (ossia al 50%) della retribuzione".
Oltretutto la circostanza che la R. avrebbe corrisposto al P. la somma di lire 309 milioni, quali effettive e totali retribuzioni del periodo controverso, appare dedotta inammissibilmente per la prima volta in questa sede, in quanto nel ricorso non si fa cenno a un'avvenuta allegazione della stessa in sede di merito.
Il quarto motivo, a sua volta, è per certo privo di fondamento sol che si consideri che il diritto del lavoratore accertato in sede di merito non è quello all'attribuzione di maggiori retribuzioni, ma al risarcimento del danno derivante dalla violazione, da parte del datore di lavoro, di precisi obblighi contrattuali, un diritto cioè che trova titolo nella riconosciuta sussistenza di un'obbligazione risarcitoria, in tutto estranea al sinallagma lavoro-retribuzione.
Né il ricorrente sostiene di aver proposto (anche) una domanda di condanna del datore di lavoro alla corresponsione di emolumenti non percepiti, e neppure afferma che il giudice del merito avrebbe mancato di esaminarla (la violazione dell'art. 112 c.p.c. non è dedotta); si tratta, quindi di questioni prospettate per la prima volta in questa sede e che, in quanto modificano il tema di indagine e di decisione proprio del giudizio di merito, involgendo altresì la necessità di accertamenti di fatto, sono da considerare inammissibili (giurisprudenza costante: per tutte, Cass., 12 febbR.o 1998 n. 1496, 15 maggio 1998 n. 4900, 29 settembre 1998 n. 9711).
Esaminando, infine, il quinto motivo, non può non riaffermare la Corte quanto più sopra considerato a proposito della necessità, per il lavoratore che domandi, come nel caso di specie, il risarcimento del danno consistente nel mancato conseguimento di un trattamento economico dipendente, in via eventuale, dallo svolgimento delle prestazioni negate, di allegare i fatti attraverso i quali il risultato economico preteso si sarebbe realizzato, nonché il rapporto di necessità tra gli stessi fatti e il demansionamento, e di fornire, altresì, la prova della ricorrenza in concreto di quei fatti e di quella necessità attraverso la combinazione dei quali solamente può dirsi venuto in essere il diritto fatto valere.
Questo significa, in relazione al mancato conseguimento dell'equo compenso, previsto dall'art. 80 della legge n. 633 del 1941 sul diritto di autore a favore dell'artista-attore per il caso di ulteriore utilizzazione dell'opera, che il ricorrente doveva dimostrare che, ove non fosse rimasto inattivo a causa dell'inadempimento del datore di lavoro, per certo avrebbe acquisito il diritto a quel guadagno e, a tal fine, avrebbe dovuto fornire indicazione e prova delle singole opere e trasmissioni (radiofoniche e televisive) in concreto realizzate dalla R., nelle quali sicuramente avrebbe potuto e dovuto essere impiegato, evidenziando, altresì, le ragioni per le quali tale impiego si sarebbe verificato.
Sul punto il Tribunale ha affermato che mancava del tutto la prova del fatto costitutivo di questa pretesa voce di danno, non avendo il ricorrente formulato al riguardo alcuna richiesta istruttoria.
Il P. assume oggi, che sin dal primo grado del giudizio, erano stati richiesti numerosi mezzi istruttori, senza peraltro chiarire in che cosa consistessero, né quali fossero i fatti e le circostanze che gli stessi tendevano a dimostrare.
Se poi, come sembra, tali mezzi istruttori erano quelli cui fanno riferimento le censure svolte nel secondo motivo di ricorso, valgono le considerazioni che la Corte ha al riguardo già espresso per ritenerne la inammissibilità e comunque la infondatezza.
Da ultimo, non appare in nulla censurabile la decisione del giudice del merito di negare al P. gli aumenti di merito, anch'essi richiesti dal ricorrente quale ulteriore voce di danno. Una volta, infatti, che il Tribunale ha accertato che la corresponsione di tali emolumenti era rimessa alla discrezionalità del datore di lavoro, la loro mancata attribuzione non può, per certo, essere configurata quale pregiudizio economico conseguente all'inadempimento. A sua volta, la deduzione secondo cui quell'accertamento sarebbe errato, perché la disciplina negoziale del rapporto (contenuta nell'art. 8 del regolamento R.) configurerebbe gli aumenti suddetti come elemento costitutivo della retribuzione, è priva di rilievo, in quanto il ricorso non contiene alcuna specifica denuncia di violazione delle regole legali di ermeneutica di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., né lascia comprendere in quali vizi di motivazione sarebbe incorsa la impugnata sentenza nel trarre dalla interpretazione di quella disciplina negoziale le diverse conclusioni cui è pervenuta.
In conclusione, sia il ricorso principale che quello incidentale devono essere rigettati.
Le spese del presente giudizio di Cassazione sono compensate tra le parti.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa tra le parti le spese del presente giudizio.


Così deciso in Roma il 5 ottobre 2001


DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 2 GENNAIO 2002