Cass. Civ. Sez. lavoro, 05-02-2000, n. 1307



Sentenza

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Francesco SOMMELLA - Presidente
Dott. Ettore Raffaele GIANNANTONIO - Consigliere
Dott. Pietro CUOCO - Consigliere
Dott. Natale CAPITANIO - Rel. Consigliere
Dott. Attilio CELENTANO - Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

E. A. F. DEL L. DI BARI, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA BRUXELLES 61/63, presso lo studio dell'avvocato ROBERTO PESSI, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati GENTILE GIOVANNI G, FRANCO PICCIAREDDA, giusta delega in atti;                                                                                        - ricorrente -

contro

L. P.;

- intimato -

e sul 2^ ricorso n^ 04091/99 proposto da:

L. P., elettivamente domiciliato in ROMA VLE MAZZINI 6, presso lo studio dell'avvocato R MACRO,: rappresentato e difeso dall'avvocato GINO PIETROFORTE, giusta delega in atti;

- contoricorrente e ricorrente incidentale -

contro

E. A. F. DEL L. DI B., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA BRUXELLES 61/63, presso lo studio dell'avvocato ROBERTO PESSI, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati GENTILE GIOVANNI G, FRANCO PICCIAREDDA, giusta delega in atti;
- controricorrente al ricorso incidentale -

avverso la sentenza n. 1075/98 del Tribunale di FOGGIA, depositata il 12/12/98, R.G.N. 2654/97;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/07/99 dal Consigliere Dott. Natale CAPITANIO;
udito l'Avvocato G.;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Al. C. che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e incidentale.

Svolgimento del processo

...(Omissis)
Con ricorso depositato in data 9 ottobre 1987 il dott. P. L. conveniva in giudizio davanti al pretore di Bari l'E. A. F. del L. di B., di cui era dipendente, chiedendone la condanna al risarcimento del danno biologico, da quantificarsi nell'importo di lire 50.000.000, o nella somma ritenuta superiore o inferiore, oltre interessi e danni da svalutazione monetaria e il tutto con il favore delle spese.
Il L. a giustificazione della sua richiesta risarcitoria deduceva che a partire dal gennaio 1979 era divenuto capo-ufficio addetto alla organizzazione della esposizione delle circa duemila aziende partecipanti alla Fiera Campionaria, con un organico dell'E. F. previsto per un totale di quattordici unità complessive, divise nei due uffici operativi in misura di cinque o sei unità operative per ciascuno di essi, con evidente sproporzione tra il personale addetto e la quantità di lavoro prevista.
Esponeva che a causa di tale sproporzione, aggravatasi con il lungo periodo di assenza per maternità ottenuto dal vice-capo reparto, M. T. C., della quale s'era accollato le incombenze lavorative, era stato costretto a una assidua quanto estenuante attività lavorativa non soltanto nelle ore normali di servizio ma anche mediante espletamento, per far fronte alle esigenze dell'ufficio, di lavoro supplementare, straordinario, feriale e festivo anche presso la propria abitazione, con una media di circa sessanta ore di lavoro settimanale.
A causa dell'estenuante attività lavorativa, perdurata per diversi anni con esiguità di personale e senza accoglimento delle sue richieste di aumento, era stato colpito da infarto e ricoverato al Policlinico di Bari in data 24 marzo 1986, rimanendo assente dal lavoro sino all'agosto dello stesso anno.
Dopo l'infarto trasferito all'altro dei due uffici, in sostituzione del dott. F. R., aveva ivi svolto un'attività lavorativa più normale e meno intensa.
Il dott. R., trasferito all'ufficio da lui ricoperto, era stato, anche lui, ricoverato in ospedale, colpito da paresi, nonostante in precedenza avesse goduto ottima salute.
Da ciò la richiesta di condanna dell'E.F. al risarcimento del danno biologico provocato con la deliberata mancata integrazione dell'organico e il conseguente sovraccarico di lavoro in danno del dipendente.
Si costituiva l'E.F. chiedendo il rigetto della domanda, perché il L. aveva lavorato trentasei ore settimanali con espletamento del lavoro straordinario entro i limiti consentiti e con fruizione delle ferie e delle festività soppresse.
Dopo l'espletamento di consulenza tecnica e di prova testimoniale, con sentenza in data 12 giugno 1991 il pretore adito rigettava la domanda compensando interamente tra le parti le spese del giudizio.
Tale sentenza, appellata dal lavoratore, veniva confermata dal Tribunale di Bari con sentenza in data 3 marzo 1994.
Su ricorso del L. questa Corte con sentenza del 14 febbraio 1997 n. 8267 cassava con rinvio la sentenza del Tribunale di Bari, designando il Tribunale di Foggia per il nuovo giudizio e per la liquidazione delle spese del giudizio di Cassazione.
Al giudice di rinvio assegnava il compito di applicare il principio di diritto secondo cui il potere imprenditoriale, volto alla massimizzazione della produzione, incontra un imprescindibile limite nella necessità di non arrecare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana e nel far sì che nell'attività di collaborazione richiesta ai dipendenti venga predisposta una serie di misure, oltre quelle legali, che appaiono utili a impedire l'insorgere o l'ulteriore deteriorarsi di situazioni patologiche idonee a causare effetti dannosi alla salute del lavoratore ai sensi dell'art. 41, secondo comma, Cost. e dell'art. 2087 c.c.
Con sentenza in data 12 novembre-12 dicembre 1998 il Tribunale di Foggia, premettendo di volersi uniformare a tale principio, accoglieva la domanda del L., ritenendo provata la sussistenza delle condizioni di superlavoro in cui aveva operato il dipendente nell'indifferenza dell'Ente datore di lavoro, sollecitato a ovviare alla insufficienza dell'organico.
Il giudice del rinvio, altresì, sulla base della consulenza tecnica medico-legale disposta dal pretore, riteneva che l'infarto subito dal L., nonostante la sussistenza di altri fattori di rischio, quali la familiarità ipertensiva, il fumo di 15 sigarette al giorno e la vita sedentaria, era da attribuire in via causale all'attività lavorativa intensa svolta dal lavoratore in concomitanza con l'omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di misure idonee atte ad evitare tale effetto dannoso.
Sulla base di tale premessa il Tribunale di Foggia riconosceva la risarcibilità del danno biologico e ne determinava la misura nella complessiva somma di £. 300.000.000, oltre svalutazione monetaria e interessi quantificati nel 4% sulla somma rivalutata dal giorno dell'evento dannoso sino al saldo.
Condannava, infine, l'Ente convenuto alle spese dell'intero giudizio.
Contro la suindicata sentenza l'Ente Autonomo Fiera del Levante propone ricorso principale per Cassazione sostenuto da tre motivi illustrati da memoria.
Resiste il L. con controricorso e ricorso incidentale sostenuto da due motivi e contro il quale l'Ente Autonomo Fiera del Levante ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

A norma dell'art. 335 c.p.c. vanno, intanto, riuniti il ricorso principale e quello incidentale.
Con il primo motivo del ricorso principale l'E. A. F. si duole che il Tribunale non abbia compiuto un'adeguata indagine al fine di accertare, in attuazione del compito delegatogli da questa Corte e, quindi, in violazione dell'art. 384, primo comma, c.p.c., se nella specie fosse stata superata nell'adempimento della prestazione lavorativa quella soglia di normale tollerabilità indicata da questa Corte, anche con riguardo alla posizione autonoma assunta dal lavoratore in seno all'azienda per la sua qualità di "quadro" e in relazione alle indagini istruttorie già acquisite.
Il dedotto motivo è infondato.
Con l'entrata in vigore dei codici Rocco cessò la funzione limitativa nei confronti dell'art. 1151 dell'allora vigente codice civile in ordine alla risarcibilità dei danni non patrimoniali, che il codice penale del 1989 e l'art. 7 del c.p.p. del 1913 avevano limitato, mediante l'istituto della "riparazione pecuniaria", ad alcuni tipi di reato.
L'art. 185, secondo comma, c.p., tuttora vigente, previde, infatti, che il colpevole di qualsiasi reato fosse tenuto a risarcire alla persona offesa non solo i danni patrimoniali ma anche quelli non patrimoniali.
L'art. 598, secondo comma, c.p. previde, inoltre, la risarcibilità dei danni non patrimoniali anche per le offese contenute negli scritti difensivi concernenti l'oggetto della causa e per le quali il primo comma escludeva la punibilità oggettiva e, quindi, la sussistenza del reato per mancanza di uno dei suoi tre elementi essenziali (fatto, colpevolezza e punibilità oggettiva).
Il vigente art. 2043 c.c. potrebbe ricomprendere nei danni risarcibili sia quelli patrimoniali che quelli non patrimoniali, potendosi attribuire agli uni e agli altri il carattere dell'ingiustizia richiesto ai fini risarcitori.
L'art. 2059 c.c., però, pur essendo stato accompagnato da una relazione ministeriale che intendeva limitare la risarcibilità dei danni non patrimoniali solo in quanto previsti dalla legge attribuendo alla locuzione "danni non patrimoniali" solo il significato più ristretto di danni morali causati dal reato, di fatto, però, ha adoperato un'espressione omnicomprensiva di qualsiasi tipo di danno non patrimoniale.
D'altra parte al momento della entrata in vigore (21 aprile 1942) dell'art. 2059 c.c. la risarcibilità dei danni non patrimoniali non causati dal reato era prevista non solo dal ricordato art. 598, secondo comma, c.p., ma anche dagli artt. 89 e 120 c.p.c., entrato in vigore contestualmente al codice civile e non riferibili, anch'essi, a danni derivati da reato.
In particolare l'art. 89 attribuiva al giudice - e tuttora l'attribuisce - la facoltà di assegnare alla parte che sia stata offesa da espressioni offensive o semplicemente sconvenienti una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale.
L'art. 120, invece, prevedeva - e tuttora prevede - la risarcibilità dei danni non riparati dagli effetti della sentenza civile e, quindi, i danni non patrimoniali non prodotti da reato mediante pubblicità eseguita a spese dell'autore dell'illecito civile.
Con l'entrata in vigore (1 gennaio 1948) della nostra Costituzione, di tipo non flessibile ma rigido (essendo prevista per la sua revisione o per l'abrogazione di sue norme una procedura rinforzata ex art. 138 Cost.) si è realizzato nel nostro ordinamento giuridico un insieme di norme superprimarie, le leggi costituzionali, rispetto a quelle primarie, costituite dalle leggi ordinarie e rispetto a quelle secondarie, costituite dai regolamenti.
È sorto, allora, il problema della configurabilità di un diritto, come quello alla salute, che, pur essendo tutelato da una norma costituzionale (art. 32 Cost.) e, perciò, da una norma superprimaria, non potesse, tuttavia, trovare tutela risarcitoria ex artt. 2043 e 2059 c.c. se interpretati in senso restrittivo, tenuto, però, presente che tali ultime norme, in quanto primarie, erano pur sempre subordinate a quelle superprimarie della Costituzione.
Deve attribuirsi, in giurisprudenza, al Tribunale di Genova (sentenza del 25 maggio 1974 in Giurisprudenza Italiana, 1975, 1, 2, 54) il merito di avere per primo prospettata la risarcibilità del danno alla salute o danno biologico, in quanto fondata sull'art. 32 Cost.
Parte della giurisprudenza, però, aveva individuato in tale prospettata risarcibilità un ostacolo ermeneutico nel combinato disposto di cui agli artt. 2043 e 2059 c.c., che poteva essere rimosso soltanto dalla Corte Costituzionale.
Quest'ultima, all'uopo sollecitata, in un primo tempo con sentenza in data 26 luglio 1979 n. 88 dichiarava non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2043 c.c. per la mancata previsione di risarcibilità del danno alla salute, rilevando che esso quale danno non patrimoniale, al pari del danno morale puro, andava risarcito ex artt. 2059 c.c. e 185 c.p. come conseguenza lesiva di un fatto costituente reato.
In un secondo tempo, con sentenza 14 luglio 1986 n. 184 pur dichiarando ancora non fondata la sollevata questione di legittimità costituzionale in relazione alla limitata risarcibilità del danno alla salute previsto dall'art. 2059 c.c.
soltanto in funzione dell'art. 185 c.p., rilevava, però, che tale ultima norma era riferibile soltanto ai danni morali puri o con ripercussioni economiche (secondo una distinzione che era stata per la prima volta prospettata da questa Corte con la sentenza del 27 ottobre 1924 pubblicata sulla Giurisprudenza Italiana 1924, 1, 952).
Da ciò in riferimento ai fatti non costituenti reato stabiliva il principio in base al quale era conforme alla Costituzione l'interpretazione, secondo diritto vivente (in proposito vanno ricordate soprattutto la citata sentenza del Tribunale di Genova e quella di questa Corte n. 3675 del 6.6.1981) che considerava non limitata dall'art. 2059 cit. la risarcibilità del danno non patrimoniale, anche se tale risarcibilità non è stata esplicitamente prevista dalla legge, qualora essa sia conseguenza della lesione di un diritto costituzionalmente garantito come quello alla salute, previsto dall'art. 32 Cost.
Il principio è stato subito accolto dalla giurisprudenza che lo ha esteso dalla responsabilità extracontrattuale, alla quale la Corte Costituzionale aveva fatto riferimento nell'enunciare il principio, anche alla responsabilità contrattuale.
Per quest'ultima, infatti, preesistendo un obbligo giuridico tra le parti in relazione all'esecuzione del contratto nascente dall'accordo dei contraenti o dalla legge, la diversità di disciplina rispetto alla responsabilità aquiliana si sostanzia soltanto nell'onere della prova sulla colpa dell'autore dell'illecito, per il solo fatto che l'inadempimento, una volta provato, fa presumerla.
Tuttavia non essendo applicabile l'art. 2059 alla responsabilità contrattuale ed essendo improntato tutto il sistema della responsabilità contrattuale al risarcimento del danno patrimoniale, riguardato o come lucro cessante o come danno emergente, costituente conseguenza diretta e immediata dell'inadempimento (vedi art. 1223 c.c.), il danno alla salute o danno biologico per tale tipo di responsabilità poteva discendere o come esplicita previsione dell'inadempimento operata dalla legge ordinaria ovvero come conseguenza collegata all'inadempimento di un obbligo costituzionalmente previsto, anche se non sanzionato dal risarcimento, essendo la previsione delle sanzioni esclusa dalla tecnica della normativa costituzionale.
Questa Corte, perciò, ha ritenuto sussistente il danno biologico del lavoratore in relazione all'inosservanza dell'obbligo del datore di lavoro di non dequalificare il lavoratore con offesa della sua dignità (art. 41, secondo comma, Cost.), in quanto, insieme alla lesione del diritto alla salute (art. 32, primo comma, Cost.), conseguenza diretta e immediata della dequalificazione (vedi Cass., 24 gennaio 1990, n. 411).
Ha, altresì, ritenuto (Cass., 23 giugno 1992, n. 7663), in tema di infortuni sul lavoro, sussistente la responsabilità del datore di lavoro per il danno biologico, inteso come menomazione dell'integrità psico-fisica, subita dal lavoratore e valutabile monetariamente in modo autonomo rispetto al danno morale e alla vita di relazione causati dal reato (vedi: Cass., 4 ottobre 1994, n. 8054; Cass., n. 3510 del 1996 e n. 7636 del 1996).
Infine questa Corte con la sentenza del 14.2.1997 n. 8267, a seguito della quale è stata pronunciata l'impugnata sentenza di rinvio, ha enunciato il seguente principio di diritto: "In ottemperanza al precetto costituzionale di cui all'art. 41, secondo comma, Cost. il datore di lavoro non può esimersi dall'adottare tutte le misure necessarie, compreso l'adeguamento dell'organico, volte ad assicurare livelli compensativi di produttività, senza, tuttavia, compromettere l'integrità psico-fisica dei lavoratori soggetti al suo potere organizzativo di dimensionamento delle strutture aziendali. Pertanto l'accettazione da parte del lavoratore di un lavoro straordinario continuativo, ancorché contenuto nel c.d. "monte ore contrattuale massimo", o la rinuncia a un periodo feriale effettivamente rigenerativo dell'impegno lavorativo non possono esimere il datore di lavoro dall'adottare tutte le misure idonee a tutelare l'integrità psico-fisica del lavoratore, comprese quelle intese ad evitare eccessività di impegno da parte di un soggetto che è in condizioni di subordinazione socio-economica.
L'eventuale concorso di colpa del lavoratore non ha efficacia esimente per il datore di lavoro che abbia omesso le misure atte ad impedire l'evento lesivo, restando egli esonerato da ogni responsabilità soltanto quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell'abnormità, dell'inopinabilità e dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute".
Il giudice del merito, pertanto, sulla base dei suesposti principi, è stato chiamato ad accertare se fosse o no fondata la richiesta di risarcimento del danno biologico avanzata dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro.
Va, però, precisato che nella specie si verte in materia di responsabilità contrattuale nascente dall'inosservanza di un obbligo preesistente del datore di lavoro, previsto dalla Costituzione come limite al diritto di libertà all'iniziativa privata nell'esercizio dell'impresa (art. 41, primo e secondo comma, Cost.).
Tale limite si sostanzia nell'obbligo di non recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana e, posto in relazione all'art. 32, primo comma, Cost. e all'art. 2087 c.c., nell'obbligo del datore di lavoro, costituzionalmente imposto, di adottare tutte le misure necessarie a tutelare la integrità fisio-psichica del lavoratore.
L'inadempimento di tale obbligo deve essere dimostrato dal lavoratore che chiede il risarcimento del danno biologico.
Una volta, però, dimostrata la sussistenza dell'inadempimento, non occorre, a norma dell'art. 1218 c.c., che il lavoratore dimostri, come invece nella responsabilità aquiliana, anche la sussistenza della colpa del datore di lavoro inadempiente.
Su quest'ultimo infatti, incombe l'onere di provare che l'evento lesivo dipenda da un fatto a lui non imputabile e cioè da un fatto che presenti i caratteri dell'abnormità, dell'inopinabilità e dell'esorbitanza in relazione al procedimento lavorativo e alle direttive impartite.
Come nella responsabilità aquiliana anche nell'ipotesi della responsabilità contrattuale il lavoratore deve dimostrare, la sussistenza del danno alla salute.
Tenendo, tuttavia, presente che attività lavorative comportanti per il lavoratore meri disagi fisici o psichici, perché espletate in giorni festivi o oltre il monte-ore settimanale massimo previsto contrattualmente o per legge, non sono risarcibili a titolo di danno alla salute o biologico, ma possono essere compensate, caso mai, con remunerazioni supplementari contrattualmente previste o con somme risarcitorie equitativamente determinate dal giudice.
È necessario, comunque, che sussista un nesso eziologico tra l'attività lavorativa prestata dal lavoratore in condizione di subordinazione socio-economica e il danno alla salute denunziato e che di tale nesso il lavoratore offra idonea prova, sottoposta alla insindacabile valutazione del giudice di merito, se sorretta da congrua motivazione.
Uniformandosi a tali principi, non contestati dall'ente ricorrente, il Tribunale di Foggia sulla base della deposizione resa da M. L., e ancor più, essendo la prima coniuge del L., sulla base delle deposizioni rese dalla C. e dalla L., impiegate presso l'E.F., aveva accertato che quanto lamentato dal L. con il ricorso introduttivo del giudizio era conforme a verità, in quanto il lavoratore si era dovuto accollare per considerevoli periodi di tempo le incombenze lavorative della C., non sostituita durante il periodo di assenza dal lavoro.
Inoltre era stato costretto a svolgere lavoro straordinario e lavoro festivo e a rinunciare alle ferie, tanto che la teste L. aveva affermato che si poteva sostenere che il L. vivesse in fiera.
Era evidente, perciò, aveva concluso il Tribunale, che tale superlavoro avesse determinato un danno alla salute, avendo il consulente tecnico d'ufficio nominato dal pretore precisato che l'infarto subìto potesse essere messo in relazione con il superlavoro a cui il dipendente era stato sottoposto anziché con altri fattori di rischio, quali le 15 sigarette al giorno fumate o l'ipertensione della madre; mentre la vita sedentaria non poteva considerarsi un fattore di rischio ma l'effetto della stessa attività lavorativa.
Infine l'Ente ricorrente deduce che non vi sarebbe stata la subordinazione socio-economica del L. il quale, perciò, esclusivamente per sua libera scelta si sarebbe sottoposto al superlavoro.
Lo stesso ente ricorrente, però, smentisce la sua tesi, rilevando che il L. non era un "dirigente" ma un "quadro" e cioè che apparteneva a quei dipendenti che, ponendosi in una via di mezzo tra i dirigenti e gli impiegati, di questi ultimi, tuttavia, conserva la caratteristica fondamentale della subordinazione socio-economica al datore di lavoro.
Il primo motivo di ricorso va, perciò, respinto.
Con il secondo motivo l'E. A. F. denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 1226 c.c. e/o dell'art. 2056 c.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, avendo il Tribunale omesso di considerare, ai fini della minore quantificazione del danno, che la consulenza tecnica da esso condivisa aveva posto in luce la sussistenza di concause dell'evento morboso sotto l'aspetto di altri fattori di rischio costituiti dalla familiarità ipertensiva, dal fumo di quindici sigarette al giorno e dalla vita sedentaria.
Ciò perché pur non potendosi disconoscere che le concause non hanno valore esimente della responsabilità del datore di lavoro, devono, però, avere un qualche effetto ai fini della attenuazione del danno da porre a carico del medesimo.
Inoltre il Tribunale, pur condividendo l'assunto del C.T.U., secondo cui il tipo di malattia subito dal L. era inquadrabile nel quarto gruppo di classificazione del Melennec, ove si inserisce l'infarto esteso, con una invalidità che va dal 30% al 60%, aveva, tuttavia, ritenuto di ridurre soltanto del 10% tale percentuale di invalidità sulla base di congetture astratte e presunzioni semplici non confortate da alcun riscontro probatorio.
Inoltre, aggiunge l'Ente ricorrente, il giudice di merito nella quantificazione del danno biologico non aveva tenuto conto della sua peculiare caratteristica che lo differenzia dal danno alla vita di relazione con il quale, a seconda dei casi, può coincidere a seconda della sua ampiezza e qualità.
Il dedotto motivo del ricorso principale va esaminato congiuntamente al primo motivo di quello incidentale, con il quale il L. si duole, a sua volta, della decurtazione della percentuale di invalidità in misura di dieci punti, rispetto a quella massima del 60% indicata dal consulente tecnico d'ufficio.
Sia il secondo motivo del ricorso principale come il primo motivo del ricorso incidentale vanno respinti in quanto diretti a ottenere un riesame della valutazione del danno eseguita dal giudice di merito con motivazione congrua e immune da vizi logici, partendo, come premessa, da un corretto concetto di danno biologico tenuto ben distinto da quello alla vita di relazione, costituente il riflesso economico del danno morale liquidabile per un fatto costituente reato ai sensi dell'art. 185 c.p.
L'art. 2087 c.c., il quale fa carico al datore di lavoro di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisico-psichica del lavoratore, introduce un dovere che trova fonte immediata e diretta nel rapporto di lavoro e nei limiti costituzionalmente imposti all'imprenditore per il libero esercizio del potere imprenditoriale (art. 41, primo e secondo comma, Cost.).
La violazione di tale dovere può atteggiarsi sia mediante fatti commissivi e sia mediante atti omissivi e può estrinsecarsi sia nell'omissione di misure tassativamente previste dalla legge a tutela della sicurezza del lavoratore e sia in omissioni non tassativamente previste dalla legge, ma egualmente esigibili nella esecuzione del rapporto di lavoro secondo regole di correttezza e buona fede.
Tale violazione, ove sia stata causa di danno biologico ossia di menomazione dell'integrità psico-fisica del lavoratore, può essere fatta valere dal dipendente, come si è rilevato, con azione contrattuale indipendentemente dal fatto che la violazione integri gli estremi del reato.
Sotto tale profilo il Tribunale ha ben individuato il concetto di danno biologico tenendolo ben distinto sia dal danno morale sia dal danno alla vita di relazione e sia da qualsiasi altro danno di natura patrimoniale che possa influire sulla capacità di guadagno o di lavoro.
Sulla base della disposta consulenza tecnica, poi, con adeguata motivazione ha valutato equitativamente il danno biologico subito dal lavoratore, operando nell'ambito della percentuale di invalidità indicata dal C.T.U. una riduzione di dieci punti rispetto al massimo di essa, che era stata individuata dallo stesso C.T.U. nella misura del 60%.
Con congrua motivazione, infine, il Tribunale di Foggia ha ritenuto irrilevanti, ai fini di una maggiore riduzione del danno, i fattori che avrebbero potuto presentarsi come concausa dell'infarto e che, invece, secondo il giudice di merito, tale veste non avevano assunto.
L'ipertensione familiare, infatti, secondo il Tribunale, non aveva determinato, essendo la madre ancora vivente all'età di 80 anni circa, effetti negativi sulla salute del lavoratore; mentre il fumo delle sigarette, mantenuto nell'ordine di quindici al giorno, non avrebbe potuto avere, secondo il condiviso parere del C.T.U., un peso determinante per la malattia cardiovascolare del L..
Inoltre la vita sedentaria, anch'essa indicata come concomitante fattore di rischio, si identificava nella stessa attività lavorativa di natura impiegatizia espletata dal lavoratore e da questo denunziata come causa del sofferto danno biologico.
Pertanto vanno dichiarati infondati e, in quanto tali, non accolti il secondo motivo del ricorso principale e il primo motivo di quello incidentale.
Con il terzo motivo del ricorso principale l'E. A. F. del L. denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 1227 c.c. e/o dell'art. 2056 c.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in quanto era emerso nel corso del giudizio di merito che il L., nella sua qualità di capo ufficio, eseguisse a proprio piacimento il lavoro feriale e festivo, dandone comunicazione alla Direzione; e che le modalità di fruizione delle ferie non fossero da attribuire a decisioni imposte dal datore di lavoro.
Il Tribunale, perciò, avrebbe dovuto ridurre l'ammontare del danno, in quanto era concorso a determinarlo il fatto colposo del lavoratore, creditore dell'obbligo risarcitorio.
Anche tale terzo e ultimo motivo va respinto, avendo lo stesso Ente ricorrente affermato, anche con la prodotta memoria, che il L. apparteneva ai "quadri" e non già ai "dirigenti".
Pertanto costituendo, come è noto, il "quadro" una qualifica intermedia tra il dirigente e l'impiegato, mantenendo di quest'ultima qualifica la subordinazione socio-economica al datore di lavoro, il L., proprio per tale qualità di "quadro" non aveva la facoltà, riservata ai soli dirigenti, di scegliere autonomamente il metodo di lavoro e la fruizione delle ferie.
Infine con il secondo e ultimo motivo del ricorso incidentale il L. denunzia violazione degli artt. 1224 e 1284 c.c., quest'ultimo come novellato dall'art. 1 della legge n. 353 del 1990 e dall'art. 2, comma 183, della legge n. 662 del 1996 in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.
In particolare il L. si duole del fatto che il Tribunale abbia liquidato sull'ammontare del risarcimento del danno gli interessi nella misura del 4%, in considerazione del rendimento medio del denaro, anziché nella misura del tasso legale spettante dal marzo 1986 al novembre del 1998, in tal modo riducendo del 42,66% l'ammontare degli interessi compensativi dovuti.
Il dedotto motivo è infondato.
Qualora la liquidazione del danno da fatto illecito contrattuale o extracontrattuale, sia effettuata in via equitativa o per equivalente e il valore venga espresso in termini monetari con riferimento alla svalutazione intervenuta fino alla decisione definitiva, è dovuto al danneggiato anche il risarcimento del mancato guadagno che questi provi essergli stato cagionato dal ritardato pagamento.
Tale prova può essere offerta e riconosciuta dal giudice mediante criteri presuntivi ed equitativi, quale l'attribuzione degli interessi ad un tasso stabilito valutando tutte le circostanze obiettive e soggettive del caso.
In siffatta ultima ipotesi gli interessi non possono essere calcolati dalla data dell'illecito sulla somma liquidata a titolo di capitale, definitivamente rivalutata.
È, invece, possibile determinarli con riferimento ai singoli momenti da stabilirsi in concreto secondo le circostanze del caso.
Rispetto a tali momenti la somma equivalente del bene perduto si incrementa nominalmente in base ai prescelti indici di rivalutazione monetaria o in base a un indice medio (vedi Cass., Sez. Un. 17 febbraio 1995, n. 1712).
La liquidazione degli interessi al 4% sul capitale di lire 300.000.000 liquidato a titolo di danno biologico sulla somma via via rivalutata dal giorno dell'evento dannoso sino al saldo e in considerazione del rendimento medio del danaro, appare in linea con tale recente orientamento giurisprudenziale espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte con la richiamata sentenza e con lo stesso art. 2, comma 183, della legge n. 662 del 1996, il quale per la modifica futura del tasso legale esplicitamente fa riferimento al rendimento medio annuo del denaro.
Anche il secondo motivo del ricorso incidentale va, pertanto, respinto.
In conclusione vanno integralmente rigettati sia il ricorso principale e sia il ricorso incidentale.
Ricorrono giusti motivi ex art. 92 c.p.c., costituiti dalla reciproca soccombenza, per compensare interamente tra le parti le spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, riuniti il ricorso principale e quello incidentale li rigetta entrambi.
Compensa le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma l'8 luglio 1999.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IN DATA 5 FEBBRAIO 2000.