Cass. civ. Sez. lavoro, 19-01-1999, n. 475



Sentenza

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati: Dott. Francesco SOMMELLA Presidente Dott. Marino Donato SANTOJANNI Consigliere Dott. Fabrizio MIANI CANEVARI Rel. ConsigliereDott. Pietro CUOCO Consigliere

Dott. Giovanni MAZZARELLA Consigliere

 ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da:  E. S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA BORSIERI 3, presso lo studio dell'avvocato GIUSEPPE CORAPI, rappresentato e difeso dall'avvocato GIOVANNI DEL VECCHIO, giusta delega in atti; Ricorrente

contro

 C. G., elettivamente domiciliata in ROMA VIA F. SIACCI 2/B, presso lo studio dell'avvocato CORRADO DE MARTINI, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati CARLO CASCIARO e VINCENZO LICCI, giusta procura speciale atto notar Mariella Costa di Lecce del 20/12/96 n. rep. 45383; Controricorrente

 

avverso la sentenza n. 1775/96 del Tribunale di LECCE, depositata il 09/08/96 N.R.G. 831/95;

 udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/09/98 dal Consigliere Dott. Fabrizio MIANI CANEVARI; uditi gli Avvocati DE MARTINI e LICCI; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Antonio BUONAIUTO che ha concluso per il rigetto del I, II e IV motivo del ricorso ed accoglimento, per quanto di ragione, del III.  

Svolgimento del processo

 Con ricorso al pretore di Lecce G. C., già dipendente della società E., deduceva l'illegittimità del comportamento della datrice di lavoro che l'aveva sottoposta a continue vessazioni, tra l'altro con la richiesta sistematicamente ripetuta di visite di controllo del suo stato di malattia, determinando l'aggravamento del stato patologico consistente in una sindrome ansioso depressiva di natura reattiva; chiedeva quindi, oltre all'accertamento del proprio diritto alle ferie e ai riposi, la condanna della convenuta al risarcimento dei danni, anche morali, subiti e subendi, da liquidarsi a prudente criterio del giudicante.Il pretore adito pronunciava su questa domanda condannando la convenuta al pagamento della somma di lire 45.375.000 a titolo di risarcimento del danno biologico, oltre a rivalutazione ed interessi.Su appello proposto da entrambe le parti, il Tribunale di Lecce con sentenza del 9 agosto 1996 riformava parzialmente tale decisione, condannando la società convenuta in primo grado al pagamento di ulteriori somme a titolo di risarcimento dei danni alla capacità lavorativa, del lucro cessante in relazione alle retribuzioni perdute e del danno morale, oltre rivalutazione ed interessi.Il Tribunale, dopo aver disatteso l'eccezione di nullità del ricorso introduttivo del giudizio, ha affermato la responsabilità della datrice di lavoro per il danno cagionato alla dipendente con l'aggravamento e la definitiva stabilizzazione della malattia (prima emendabile e derivata da disturbi della personalità), ravvisando un elemento scatenante della patologia riscontrata nelle continue visite fiscali cui la C. fu sottoposta su richiesta della datrice di lavoro, con frequenza quotidiana; l'intento persecutorio della società era dimostrato anche dal fatto che questa aveva sistematicamente ignorato i risultati delle visite di controllo, con le quali era stata sempre confermata la persistenza della malattia, continuando a richiedere ogni giorno una nuova visita. Il giudice dell'appello, dopo aver confermato la statuizione del pretore in ordine alla liquidazione del danno biologico, affermava che la responsabilità risarcitoria si estendeva al pregiudizio conseguente alla parziale perdita della capacità lavorativa, al danno per lucro cessante e al danno morale. Avverso questa sentenza la Soc. E. propone ricorso per Cassazione affidato a quattro motivi. G. C. resiste con controricorso. 

Motivi della decisione

 1. Con il primo motivo la società ricorrente denuncia i vizi di violazione e falsa applicazione dell'art. 414 c.p.c., n. 3, n. 4 e n. 5 e dell'art. 164 cod. proc. civ., nonché omessa insufficiente motivazione, censurando la statuizione di rigetto delle eccezioni di nullità del ricorso introduttivo. Rileva l'assoluta indeterminatezza della generica richiesta di risarcimento dei danni, in assenza di indicazioni sulle singole voci di danno e di una necessaria quantificazione del risarcimento richiesto (che non può essere demandata all'impulso dell'organo giudicante e ai risultati di una consulenza tecnica); deduce inoltre che l'attrice in primo grado non ha specificato gli elementi di diritto posti a fondamento della domanda, qualificando il titolo giuridico della pretesa responsabilità della convenuta (riferibile ad una responsabilità contrattuale o extracontrattuale) e prospettando, quanto al danno morale, la sussistenza di una fattispecie penalmente rilevante. Il motivo appare infondato. Nel rito del lavoro, per aversi nullità del ricorso introduttivo del giudizio, ai sensi dell'art. 414 c.p.c., n. 3 e n. 4 in relazione all'art. 156 dello stesso codice, occorre che il petitum, sotto il profilo sostanziale e processuale (ossia il bene della vita richiesto ed il provvedimento giudiziale invocato), nonché le ragioni della domanda siano del tutto omessi ed assolutamente incerti, al punto che non sia possibile rilevarli attraverso l'esame complessivo dell'atto, la cui interpretazione è riservata al giudice del merito; l'onere della determinazione dell'oggetto della domanda può ritenersi poi assolto anche in difetto di quantificazione monetaria della pretesa dedotta, quando di questa siano indicati i titoli (giurisprudenza costante: v. per tutte Cass., 17 marzo 1986, n. 4413, 14 febbraio 1987, n. 1654, 18 novembre 1987, n. 8456, 27 febbraio 1998, n. 2205). D'altro canto, una volta dedotta la situazione di fatto che giustifica la garanzia attribuita dalla legge, la individuazione del fondamento normativo che la sorregge attiene ad una questione di qualificazione giuridica, che il giudice deve compiere - senza essere condizionato dalla formula adottata dalla parte - tenendo conto del contenuto sostanziale della pretesa e del provvedimento chiesto in concreto (cfr. Cass., 22 giugno 1995, n. 7080, 2 febbraio 1996, n. 900). Nella fattispecie, le ragioni poste dall'attrice a fondamento della domanda sono identificate con l'allegazione di un danno alla persona dovuto ad un comportamento della datrice di lavoro, fonte di responsabilità risarcitoria; la richiesta del risarcimento dei "danni, anche morali, subiti e subendi" "da liquidarsi a prudente criterio del giudicante" appare, così come formulata, certamente esaustiva, in quanto idonea a comprendere tutti i profili del pregiudizio subito (cfr. Cass., 27 luglio 1995, n. 8216) rilevanti ai fini della determinazione dell'oggetto della domanda. 2. Con il secondo motivo si eccepisce (per la prima volta in questa sede) il difetto di competenza del giudice adito, rilevandosi che la sig. C. non ha invocato l'applicazione dell'art. 2087 cod. civ., e che la sussistenza del rapporto di lavoro è stata "degradata... a mera occasione della commissione di un delitto"; la controversia doveva ritenersi quindi devoluta alla cognizione del Tribunale secondo le regole ordinarie della competenza e non del giudice del lavoro. Il motivo appare inammissibile, perché l'incompetenza per materia del giudice del lavoro non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità ove la relativa questione, ancorché non preclusa dal giudicato, implichi l'esame di elementi e profili di fatto non ritualmente prospettati nelle pregresse fasi di merito; né, comunque, sussiste l'interesse a sollevare la relativa questione, quando la parte non alleghi alcuno specifico pregiudizio processuale derivato dalla mancata adozione del diverso rito (Cass., 20 settembre 1996, n. 8368). 3. Con il terzo motivo, che reca il titolo "violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2056 cod. civ., nonché degli artt. 2087 1218 1223 1225 1226 e 1227 cod. civ. ed altresì dell'art. 2059 cod. civ. e dell'art. 185 cod. pen. - omessa insufficiente e contraddittoria motivazione" la sentenza impugnata viene censurata sotto diversi profili, che devono essere analiticamente esaminati tenendo conto delle loro connessioni. 3.1. L'apprezzamento in ordine al nesso casuale tra l'aggravamento della malattia della sig. C. e il comportamento della società datrice di lavoro viene criticato con i seguenti rilievi: - il Tribunale ha fondato il suo convincimento sulla deposizione del teste Schiavone, marito dell'attrice in primo grado, che non poteva essere ritenuto attendibile, anche perché riferiva su quanto appreso dalla moglie; - non era stato dimostrato l'intento persecutorio del datore di lavoro, né il suddetto nesso causale con le richieste all'INPS di visite di controllo; inoltre, il giudice dell'appello non ha tenuto conto della condotta dell'ente previdenziale, che avrebbe comunque dato un considerevole apporto alla determinazione dell'evento; - il danno risarcibile doveva essere limitato all'aggravamento riconducibile al comportamento datoriale, posto che (come riconosciuto nella sentenza impugnata) la sig. C. era già portatrice di una patologia stabilizzata. 3.2. Con riguardo ai criteri adottati per la liquidazione delle singole voci di danno, la ricorrente deduce che il risarcimento del danno biologico è stato determinato sulla base delle c.d. "tabelle milanesi" e quindi con riferimento ad una realtà socio-economica che non corrisponde a quella dell'area territoriale del mezzogiorno dove si è svolto il rapporto; che gli importi derivati dal calcolo tabellare sono stati "inspiegabilmente rivalutati" e che la valutazione è comunque eccessiva. 3.3. È poi sproporzionata la liquidazione del danno morale, calcolato in "poco più della metà del danno biologico": la quantificazione al livello massimo rispetto ai criteri di solito seguiti è priva di motivazione, e potrebbe essere giustificata solo dalla commissione di gravi reati. 3.4. Quanto al danno alla capacità reddituale, si contesta che la sig. C. abbia subito un danno permanente rilevante sotto questo aspetto; non si comprende poi in base ai quali parametri il Tribunale abbia potuto rapportare l'importo spettante ad un terzo di quanto liquidato per il danno biologico. Risulta del resto una duplicazione del risarcimento, perché nelle tabelle di liquidazione è compreso anche il danno alla capacità lavorativa generica. 3.5. Quanto al risarcimento del lucro cessante, si deduce che l'attuale resistente "non è tornata al lavoro per la sua libera scelta" perché se avesse seguito le terapie indicate nella consulenza tecnica avrebbe potuto riprendere la sua attività; si prospetta così un "concorso del creditore nella produzione dell'evento". Sotto il profilo della responsabilità contrattuale, si deduce poi che "nessun danno era ragionevolmente prevedibile" e che comunque il risarcimento doveva essere proporzionalmente ridimensionato; doveva essere anche considerato il fatto che la patologia sofferta dalla dipendente non era stata sino ad allora conosciuta dalla società. 4. Le censure meritano accoglimento nei limiti qui specificati. Il Tribunale, con un giudizio di fatto sorretto da adeguata e logica motivazione (che fa riferimento anche ai risultati dell'indagine peritale) ha accertato che la ricorrente in primo grado era affetta da "sindrome ansioso-depressiva in una organizzazione di personalità abnorme"; lo stato patologico connesso al disturbo della personalità era, fino ad una certa epoca, comunque compatibile con lo svolgimento normale dell'attività lavorativa, nonostante una situazione di equilibrio instabile. Quando peraltro la sig. C. si assentò dal servizio per malattia, la società datrice di lavoro determinò l'aggravamento dello stato patologico con un atteggiamento persecutorio, consistente nella ripetuta richiesta di visite mediche di controllo; la sentenza parla in proposito di un continuo ed immotivato stillicidio di queste visite, che secondo un ordine di un dirigente della società dovevano essere eseguite continuamente e quotidianamente, anche di sabato e domenica (deposizione teste C.), senza alcuna giustificazione perché in ogni occasione era stata confermata la diagnosi relativa alla personalità riscontrata ed era stata formulata la medesima prognosi di durata dell'infermità. L'intento persecutorio era così chiaramente dimostrato, perché nonostante i risultati degli accertamenti la datrice di lavoro aveva insistito nelle richieste di controllo ignorando sistematicamente le certificazioni dei medici dell'INPS. Tale comportamento aveva determinato un aggravamento della malattia, tale da portare ad un'invalidità permanente corrispondente ad una riduzione della capacità lavorativa del 20%: la datrice di lavoro è responsabile dello stato di definitiva stabilizzazione della malattia (con postumi permanenti) e quindi l'intera percentuale di invalidità riconosciuta, dato che la situazione preesistente consentiva una normale vita lavorativa. 4.1. Queste valutazioni si sottraggono alle critiche riportate nel precedente punto 3.1., formulate in modo del tutto generico per quanto riguarda l'accertamento della responsabilità della datrice di lavoro (senza l'indicazione di specifiche circostanze insufficientemente esaminate); il convincimento espresso non si basa del resto sulle dichiarazioni del teste S., alle quali non si assegna valore decisivo rispetto alle altre risultanze valutate. Anche la deduzione relativa al mancato apprezzamento della condotta dell'ente previdenziale è formulata in termini del tutto generici, ed appare comunque priva di rilevanza giuridica in relazione alla identificazione della condotta dell'attuale ricorrente come antecedente necessario del fatto lesivo, in applicazione della regola generale della equivalenza delle cause (che comporta l'inclusione nel risarcimento di tutti i danni che si presentano come effetto normale di tale condotta, rientrando nella serie delle conseguenze ordinarie cui essa dà origine). 4.2. Ugualmente generica appare la censura di cui al punto 3.2., che attiene alla liquidazione del danno biologico effettuata dai giudici di merito secondo il sistema del c.d. punto di invalidità, nel quale - come precisato nella sentenza impugnata - la quantificazione del danno prescinde da qualsiasi parametro legato ad aspetti patrimoniali. Secondo un costante orientamento giurisprudenziale (v. Cass., 13 luglio 1995, n. 4255, 8 ottobre 1996, n. 8784, 2 luglio 1997, n. 5949, 16 luglio 1997, n. 6516, 22 maggio 1998, n. 5134) si tratta di un valido criterio di liquidazione equitativa, la cui adozione da parte del giudice del merito non è sindacabile in sede di legittimità, se sorretta da congrua motivazione in ordine all'adeguamento del valore medio del punto alle particolarità della singola fattispecie. La ricorrente non formula alcuna critica specifica in ordine alla determinazione del parametro adottato nel caso concreto, e le decisioni relative all'area territoriale da considerare non hanno alcuna rilevanza ai fini dell'applicazione del suddetto criterio, che prescinde dai riflessi della lesione subita sulla sfera patrimoniale. Analogo rilievo vale per la deduzione secondo cui gli importi liquidati sarebbero stati inspiegabilmente rivalutati, pur essendo stati utilizzati nel computo parametri e coefficienti "attualizzati": l'assenza di indicazioni in ordine agli specifici elementi che il giudice dell'appello avrebbe erroneamente utilizzato non consente di verificare in questa sede la fondatezza della critica. 4.3. Per quanto riguarda la condanna al risarcimento del danno morale, i presupposti della relativa statuizione ricorrono quando il giudice civile ravvisi nel fatto generatore del danno un'ipotesi di reato: nella specie, tale accertamento è stato compiuto dal Tribunale con il rilevo (non sottoposto a censura) della configurabilità di fattispecie di lesioni personali volontarie penalmente rilevanti. Il Tribunale non indica peraltro le ragioni per cui il risarcimento è stato stabilito nella misura di metà di quanto attribuito a titolo di danno biologico; risulta così violato il principio secondo cui la liquidazione del danno morale da fatto illecito, pur rimessa alla valutazione equitativa del giudice, deve essere compiuta rispettando l'esigenza di una razionale correlazione tra l'entità oggettiva del danno e l'equivalente pecuniario, sicché solo nella effettiva considerazione di ogni aspetto del caso concreto (risultante dalla motivazione della sentenza) e al di fuori di ogni automatismo, può considerarsi legittimo il ricorso al criterio di determinazione della somma dovuta per il risarcimento in questione in una frazione dell'importo riconosciuto per il danno biologico (Cass., 21 maggio 1996, n. 4671, 29 maggio 1998, n. 5366). Sotto questo profilo è quindi fondata la denuncia di vizio di motivazione di cui al punto 3.3. 4.4. Merita poi accoglimento la successiva censura di cui al punto 3.4. Il giudice dell'appello, dopo aver correttamente distinto il danno alla salute - inteso nel senso sopra indicato - dalla lesione della capacità di produrre reddito, riferita agli accertati postumi invalidanti, ha liquidato questa forma di danno (prendendo a base gli stessi calcoli effettuati per il danno biologico) nella misura di un terzo della somma riconosciuta per tale titolo. La sentenza non indica le ragioni poste a base di questa statuizione, che si pone in evidente contrasto con la premessa enunciata e con gli stessi principi correttamente richiamati. Nella determinazione del danno alla persona il danno biologico e quello patrimoniale (considerato cioè per i riflessi della lesione sul piano economico reddituale) attengono a due distinte sfere di riferimento, dovendosi avere riguardo per il secondo alla riduzione della capacità di guadagno e, per il primo, prevalentemente alla gravità della inabilità; per la stessa ragione il danno patrimoniale derivante dalla riduzione della capacità lavorativa generica è risarcibile autonomamente dal danno biologico soltanto se vi è la prova che il soggetto leso svolgesse - o fosse presumibilmente in procinto di svolgere - un'attività lavorativa produttiva di reddito (v. per tutte le Cass., 15 aprile 1996, n. 3539, 15 novembre 1996, n. 10015). Non trova dunque alcuna giustificazione logica la liquidazione del danno alla capacità reddituale secondo un parametro del tutto eterogeneo, indipendente dal ruolo che i requisiti ed attributi biologici della persona sono in grado di svolgere sulle capacità di reddito, e collegato alla sfera di incidenza non patrimoniale di essi. La Corte osserva che il risarcimento del danno in questione doveva essere invece stabilito accertando in concreto in relazione l'incidenza dell'invalidità, in relazione ai redditi conseguibili in assenza della menomazione subita; tale aspetto non è stato affatto esaminato, mentre non risulta neppure rispettato (data l'impostazione adottata) il criterio da applicare perché il risarcimento del danno sia completo e per altro verso non si traduca in un arricchimento senza causa. A tal fine, secondo la costante giurisprudenza, le liquidazioni delle due distinte voci di danno devono essere tenute presenti contemporaneamente affinché la liquidazione complessiva sia corrispondente al danno nella sua globalità che costituisce l'oggetto del risarcimento, riferibile alla proiezione negativa nel futuro di un medesimo evento (v. Cass., 19 aprile 1996, n. 3727, 22 aprile 1998, n. 4071). 4.5. Le somme attribuite a titolo di lucro cessante sono riferibili ad una voce di danno diversa rispetto a quella da ultimo esaminata, così da escludere una duplicazione di risarcimento, in quanto il pregiudizio connesso ai riflessi - proiettati nel futuro - dell'invalidità permanente sulla capacità di guadagno sia concettualmente distinto da quello in concreto verificatosi a seguito dell'interruzione delle prestazioni della ricorrente in primo grado nell'ambito del rapporto di lavoro instaurato tra le parti e conclusosi con il recesso della sig. C.. Di tale danno la sentenza impugnata ha tenuto conto riconoscendo il diritto della lavoratrice all'equivalente delle retribuzioni spettanti per l'intero periodo di assenza, sul rilievo che questa si era protratta per fatto e colpa dell'azienda stessa. Tale statuizione sfugge alle critiche mosse (v. punto 3.5), in cui il dedotto concorso del danneggiato nella produzione dell'evento non trova alcun supporto nella ricostruzione della vicenda compiuta dai giudici del merito: l'accertata situazione di invalidità permanente esclude infatti l'emendabilità con terapie e la possibilità di una piena ripresa dell'attività lavorativa senza riduzione di capacità di guadagno. Gli ulteriori rilevi in ordine alla prevedibilità dell'evento lesivo e alla conoscenza della malattia trovano ugualmente confutazione nel medesimo apprezzamento di fatto (in particolare per la circostanza della prosecuzione dei continui controlli quando i dati sulla situazione patologica erano già stati acquisiti); si deve d'altro canto rilevare che il criterio della prevedibilità di cui all'art. 1225 cod. civ. coincide tendenzialmente con quello della regolarità causale, nel senso di comprendere del danno risarcibile le conseguenze pregiudizievoli dell'inadempimento che di questo rappresentino effetti immediati e diretti o effetti mediati e indiretti rientranti comunque nella serie delle conseguenze normali ed ordinarie dell'inadempimento medesimo, in base ad un giudizio di probabile verificazione rapportato all'apprezzamento dell'uomo di media diligenza; ai fini dell'applicazione di tale principio, che limita il risarcimento a quello che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l'obbligazione, è sufficiente la consapevolezza di dovere una determinata prestazione ed omettere di darvi esecuzione intenzionalmente, senza che occorra altresì il requisito della consapevolezza del danno (Cass., 30 ottobre 1984, n. 5566, 25 marzo 1987, n. 2899). 5. Con l'ultimo motivo la ricorrente denuncia "inadeguatezza e nullità della C.T.U.", affermando la totale inadeguatezza dell'indagine peritale, che avrebbe dovuto offrire al giudice la possibilità di distinguere ed individuare in modo ben preciso la limitazione della responsabilità datoriale. La consulenza tecnica "è nulla" perché la risposta ai quesiti posti dal giudicante è estremamente generica: il C.T.U. ha quantificato nella misura del 20% il grado di invalidità determinatosi, senza specificare però "se la medesima invalidità fosse espressione di un danno biologico strettamente considerato, e se intendesse ricomprendere accanto al danno alla capacità lavorativa generica del soggetto anche quella specifica, ancora se abbia inteso quantificare il solo danno biologico, il solo danno alla capacità reddituale o entrambe le voci di danno". La censura - che avrebbe dovuto essere rivolta direttamente alla valutazione da parte del giudice delle risultanze dell'indagine peritale - non merita accoglimento, per quanto finora rilevato a proposito del terzo motivo di ricorso. Il grado di invalidità permanente determinato nella consulenza tecnica costituisce infatti un parametro per l'accertamento del danno biologico, da riferire alla salute intesa come bene in sé, indipendentemente dalla capacità del danneggiato di produrre reddito ed a prescindere da questo; l'apprezzamento compiuto sul punto sfugge, come si è visto, alle critiche della parte ricorrente. Lo stesso elemento fornisce d'altro canto la necessaria base per la determinazione dei riflessi pregiudizievoli della lesione sulla capacità reddituale; sotto questo profilo, l'errore rilevato nella decisione impugnata non riguarda l'utilizzazione del suddetto elemento, ma l'adozione di un criterio di liquidazione che non considera la concreta incidenza dell'invalidità sui redditi conseguibili con l'attività lavorativa. La sentenza impugnata deve essere quindi annullata in relazione ai profili di censura accolti (v. punti 4.3 e 4.4.) con rinvio della causa ad altro giudice - designato nel Tribunale di Brindisi - che procederà a nuovo esame attenendosi ai principi sopra enunciati e provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

 P.Q.M. 

La Corte accoglie per quanto di ragione il terzo motivo del ricorso e rigetta gli altri motivi. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai profili di censura accolti e rinvia anche per le spese al Tribunale di Brindisi. 

Così deciso in Roma il 23 settembre 1998. 

 DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 19 GENNAIO 1999.