Disegno di legge 21.12.2004, n.3253



Introduzione nel codice penale del reato di violenza morale in ambito lavorativo



DISEGNO DI LEGGEN. 3253



d'iniziativa della senatrice D'IPPOLITO

COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 21 DICEMBRE 2004

Introduzione nel codice penale del reato di violenza morale in ambito lavorativo

Onorevoli Senatori. - E` noto come il termine mobbing (dall'inglese to mob, che si traduce in «assalire» o «aggredire in massa») abbia derivazione etologica e sia stato impiegato per la prima volta da Konrad Lorenz per definire il comportamento di certi animali sociali, come ad esempio i lupi, che ad un certo momento, per ragioni non sempre spiegabili, si coalizzano contro un loro simile, appartenente al loro stesso branco, ed iniziano a sottoporlo ad una serie di sistematiche vessazioni che lo costringono infine ad abbandonare il gruppo.

Ed e` fenomeno di segno fortemente negativo, diffuso probabilmente da sempre anche nella specie umana, ma sul quale si vanno soffermando da tempo, con sempre maggiore insistenza ed attenzione, i sociologhi per porne in evidenza, quanto all'ambito specificamente lavorativo, i molteplici profili densi di disvalore non solo sul piano etico-sociale ma anche su quello precisamente economico.

E` noto infatti che di regola il mobbizzato finisce col cadere in situazioni psicotiche di depressione, molte volte sfocianti in vere e proprie malattie nervose, con pesanti ricadute negative in primo luogo sul nucleo familiare che lo ha in carico, in secondo luogo sul servizio sanitario pubblico che lo deve curare e, in terzo luogo, sulla stessa struttura produttiva, privata o pubblica, nella quale e` inserito, che deve sopportare il suo calo di rendimento, o la sua completa mancanza di rendimento nei casi piu` gravi, dovuto al suo cattivo stato di salute.

Una ricerca dell'ISPESL (Istituto superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro) ha verificato che nel nostro Paese, con riferimento al giugno 2000, vi erano circa 1.500.000 di lavoratori dipendenti vittime del mobbing, e che, tenendosi conto del numero medio dei componenti della famiglia italiana, si debba stimare in circa 4.000.000 il numero delle persone raggiunte annualmente, direttamente o indirettamente, dalle conseguenze dannose di queste pratiche.

Nei Paesi dell'unione europea la situazione non é dissimile, anche se non esistono dati statisticamente certi. 

In questo quadro, sicuramente allarmante, nella legislazione di molti paesi europei, tra cui la Germania, i danni da invalidita` psicologica prodotti dalle pratiche di mobbing sono considerati una vera e propria malattia professionale assimilata agli infortuni sul lavoro e sono liquidati con i medesimi criteri impiegati per il risarcimento del danno biologico.

La legislazione svedese ha addirittura inserito già da alcuni anni tra le ipotesi criminose i comportamenti di mobbing. L'elevazione a reato di tali condotte fu il risultato di una ricerca medico-legale che aveva accertato come circa il 15 per cento dei suicidi verificatisi annualmente in quel Paese presentavano quale causa efficiente la sottoposizione del soggetto a pratiche vessatorie dei superiori o dei colleghi nei luoghi di lavoro.

Non esistono nel nostro ordinamento disposizioni di legge che definiscano esattamente il mobbing, che e` dunque allo stato figura juris elaborata dalla giurisprudenza (per ultimo, nella sentenza n. 8438 del 4 maggio 2004, le Sezioni Unite Civili della Cassazione lo individuano in ogni ipotesi di pratiche vessatorie, poste in essere da uno o piu` soggetti diversi per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro).

Le corti e i tribunali si sono trovati infatti piu` volte costretti ad individuare la fattispecie quando sono stati chiamati a definire controversie nelle quali la fenomenica in questione veniva prospettata come causa di  patologie produttive di un danno biologico di cui era richiesto il risarcimento, ovvero quale causa di risoluzione del rapporto di lavoro per condotte datoriali dolose o colpose.

Recentemente la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 359 del 19 dicembre 2003, dichiarando la illegittimita` costituzionale della legge della regione Lazio 11 luglio 2002, n. 16 (disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro) per contrasto con l'articolo 117, secondo comma, della Costituzione, ha ritenuto di configurare, in un dettagliato obiter dictum, gli elementi essenziali della fattispecie, evidenziando che essi debbano consistere
in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui e` inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione, finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.

A prescindere dall'esposto approdo della giurisprudenza della Consulta, quel che occorre sottolineare e` che le prassi giurisprudenziali, di merito e di legittimita` accennate, peraltro risalenti, si fondano, in ogni caso, su un sistema di princı`pi consolidati e chiari, riposanti su norme ordinarie, costituzionali e comunitarie. Basta in proposito accennarsi agli articoli 32 e 41 della Costituzione, che postulano rispettivamente la salute come diritto fondamentale dell'individuo e il divieto per l'iniziativa economica privata di svolgersi in contrasto con l'utilita` sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla liberta` e alla dignita` umana; all'articolo 2087 del codice civile, che obbliga l'imprenditore ad adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, secondo la particolarita` del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessari a tutelare l'integrita` fisica e la personalita` morale dei prestatori di lavoro; all'articolo 2103, sempre del codice civile, che vieta il «demansionamento»; alla risoluzione del Parlamento europeo n. AC-0283/2001 del 21 settembre 2001, avente come oggetto il «mobbing sul posto di lavoro», nella quale, al punto 13, si esorta la Commissione ad «esaminare la possibilita` (...) di elaborare una direttiva-quadro come strumento giuridico per combattere il fenomeno delle molestie (...) e delle vessazioni sui luoghi di lavoro».

Appare dunque giunto il momento, per la vastita`, la diffusione e la plurioffensivita` del fenomeno, che incide in primis sulla liberta` morale e la salute dell'individuo ma pone, anche e contestualmente, a rischio l'interesse pubblico alla sicurezza dei luoghi di lavoro e al corretto e proficuo esercizio dell'iniziativa economica, di introdurre anche nella nostra legislazione il mobbing tra le ipotesi di reato. E` innegabile infatti che la sanzione penale rimanga, sotto molti aspetti, strumento insostituibile per contrastare con la massima efficacia possibile una fenomenica cosı` diffusa e devastante sotto il profilo dell'allarme e del danno sociale.

Precisamente in relazione all'interesse di maggior rilievo che la disposizione penale intende essenzialmente tutelare, rappresentato dalla liberta` e dalla dignita` del lavoratore nel luogo e nell'ambiente di lavoro in cui opera, la norma e` stata inserita nel libro secondo («Dei delitti in particolare»), sezione III («Dei delitti contro la liberta` morale ») del codice penale. Cio` in quanto i comportamenti di mobbing, peraltro non tipizzabili (potendo anche consistere in una
serie di atti o condotte, che, considerati singulatim ed isolati dal piu` ampio contesto vessatorio, potrebbero anche apparire leciti e legittimi) vengono ad incidere, all'evidenza e in primo luogo, sulla capacita` del soggetto preso di mira di autodeterminarsi spontaneamente, costringendolo in una situazione di soggezione a condizioni di lavoro insopportabili, in termini di umiliazione e di sofferenza, e lesive dei suoi diritti o interessi.

L'elemento oggettivo del reato consiste in piu` atti o comportamenti protratti nel tempo, compiuti da chi presti lavoro in un dato ambito, pubblico o privato, in pregiudizio di altri, appartenente allo stesso ufficio o alla stessa azienda, e che puo` essere un subordinato ma anche un pari grado dell'agente.

Comportamenti che devono apparire come oggettivamente caratterizzati da ostilita` nei confronti del destinatario ed adeguati ad umiliarne la dignita` alla stregua dell'id quod plerumque accidit, non potendosi attribuire, altrimenti, rilievo penale a situazioni di sofferenza individuale fondate sulla particolare ed abnorme sensibilita` personale del soggetto. Si tratta dunque di un reato proprio (puo` essere commesso solo da chi rivesta un ruolo all'interno di un gruppo di lavoro e a carico di chi operi nel medesimo ambito), e abituale o a condotta plurima.

E` del tutto evidente, infatti, che per l'esistenza dell'estremo oggettivo delle «pratiche vessatorie» occorra una serie di atti o di comportamenti persecutori anche di carattere omissivo
(come nell'esempio del capo che trascuri sistematicamente di assegnare compiti lavorativi al dipendente lasciandolo nell'inattivita` ed umiliandone la dignita`) che durino nel tempo e siano sintomatici, percio`, di un preciso disegno di discriminazione ed emarginazione.

Condotte che possono esercitarsi sia sul luogo di lavoro come nell'ambiente di lavoro, potendo accadere che il soggetto passivo sia vittima di diffamazioni sistematiche e di calunnie, dirette a delegittimarlo, anche fuori dall'azienda o dall'ufficio ma sempre tra coloro che fanno parte del suo stesso gruppo di lavoro.

Si e` inteso stabilire la procedibilita` a querela di parte per il reato-base, al fine di favorire, quando possibile, il recupero di normali relazioni interpersonali sui luoghi di lavoro, nella previsione che l'agente o gli agenti, una volta querelati, possano astenersi dal perseverare nella loro illecita condotta restituendo tranquillita` al soggetto preso di mira, il quale abbia, a sua volta, la possibilita` di interrompere l'esercizio dell'azione penale.

L'elemento soggettivo e` configurato come dolo specifico, nel senso che l'agente debba non solo rappresentarsi e volere i fatti descritti nella norma incriminatrice («le pratiche vessatorie») ma altresı` agire «al fine di danneggiare» il mobbizzato. Scopo della condotta che sta, dunque, al di fuori del fatto costitutivo del reato, che viene a consumazione a prescindere dalla causazione in concreto del divisato danno alla vittima.

Il secondo e il terzo comma si riferiscono alle ipotesi, per nulla infrequenti nella pratica, che la personalita` del soggetto preso di mira risulti ancora piu` intensamente offesa, come accade in tutti i casi in cui il mobbing abbia avuto come conseguenza la lesione della salute della vittima cagionandole una malattia nel corpo o nella mente.

In tal caso e` prevista la perseguibilita` d'ufficio e l'applicazione della reclusione sino ad un anno.

Se la malattia e` grave o gravissima o se dal fatto derivi la morte della vittima (come accade quando questa, per lo stato di disperazione e di totale ottundimento delle proprie capacita` morali nelle quali si trova, giunge a suicidarsi), le pene sono fortemente aumentate, sulla linea di quanto previsto dal secondo comma dell'articolo 572 del codice penale per il delitto di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli.

Sembra evidente che le ipotesi per ultimo accennate, configurate nel secondo e nel terzo comma del proposto articolo 61-bis del codice penale, vengano a costituire altrettanti reati aggravati dall'evento, in cui la malattia o la morte della vittima sono poste a carico dell'agente per il solo fatto che traggano origine dal suo comportamento illecito.

Fattispecie - codesta - da sempre nota a quasi tutte le legislazioni penali del mondo ed anche alla nostra.

Art. 1.
1. Dopo l'articolo 610 del codice penale e` inserito il seguente:
«Art. 610-bis. - (Violenza morale in ambito lavorativo). - Chiunque, nel luogo o nell'ambiente di lavoro, con condotte anche  omissive protratte nel tempo, sottopone altri a pratiche vessatorie al fine di danneggiarlo, e` punito, a querela della persona offesa, con la reclusione sino a sei mesi o con la multa sino ad euro 15.000. Se dal fatto deriva una malattia nel corpo o nella mente si procede d'ufficio e si applica la reclusione sino ad un anno.
Se la malattia pone in pericolo la vita della persona offesa, o cagiona l'indebolimento permanente di una funzione organica o intellettiva, la reclusione e` da quattro ad otto anni; e` da sette a quindici anni se la malattia e` certamente o probabilmente insanabile, ovvero produce la perdita di una funzione organica o intellettiva.
Se dal fatto deriva la morte della persona offesa, si applica la reclusione da dodici a venti anni».