Dott. Luciano Cavallone (Giudice del Tribunale di Taranto)



IL DANNO RIFLESSO CONSEGUENTE ALL'ILLECITA LESIONE DELLA SALUTE ALTRUI

IL DANNO RIFLESSO CONSEGUENTE ALL'ILLECITA

LESIONE DELLA SALUTE ALTRUI

 

 Dott. Luciano CAVALLONE

Giudice del Tribunale di Taranto

 

La presente relazione ha lo scopo di indicare le linee evolutive in tema di risarcimento del danno che indirettamente vengono a subire coloro i quali si trovino, per parentela o altri rapporti, ad esser vicini al soggetto leso nel bene salute (sino alla morte o meno) dall'atto illecito altrui.

Si vuol indicare, quindi, quali sono le attuali tendenze giurisprudenziali in tema di risarcimento di detti danni (prima di tutto morali, ma, il discorso non può che essere strettamente connesso, anche d'altro tipo) definiti riflessi, di rimbalzo, indiretti.

Come noto, danno morale risarcibile è costituito dalle sofferenze, dai patemi e perturbamenti d'animo, dai dolori che il fatto illecito altrui provoca. Allorché si parla di danno morale di riflesso o di rimbalzo o indiretto, si intende quel danno morale provocato non alla vittima primaria dell'atto illecito, ma a coloro i quali, collegati in vario modo alla vittima medesima, vengano, appunto, di riflesso ed indirettamente, ad esserne interessati.

Orbene, mentre è abbastanza pacifica in giurisprudenza la risarcibilità del danno morale (ed eventualmente di quello biologico, ove provato) allorché la vittima dell'illecito altrui decede (si vedano, ad esempio, Cassazione civile sez. III, 25 febbraio 2000, n. 2134 e Cassazione civile sez. III, 12 ottobre 1998, n. 10085), nei casi in cui ciò non accada la soluzione adottata dalla giurisprudenza non appare così univoca.

La ragione di questa differenziazione è, forse, più di natura puramente fattuale e psicologica che propriamente giuridica. Invero, concettualmente, laddove in entrambi i casi chi agisce lo fa per vedersi risarcito un proprio danno (e quindi, nel caso di decesso, jure proprio, e cioè non quale erede del defunto) non mi pare che possano sussistere, concettualmente, differenze dal punto di vista giuridico. In pratica, però, si capisce bene che nel momento in cui il soggetto primariamente leso dall'illecito sia in vita, e di fatto chieda egli innanzitutto tutela risarcitoria per quanto accadutogli, al giudice più chiaramente si pone il problema di evitare di duplicare la liquidazione del danno, e cioè, in sostanza, di disporre un doppio risarcimento per il medesimo danno; dubbio che non si pone laddove chi agisce in giudizio non abbia titolo per chiedere i danni morale e biologico subiti dal defunto, ad esempio perché costui è morto immediatamente in conseguenza dell'illecito (casi in cui, come noto, la Cassazione e la Consulta ritengono univocamente non risarcibili detti danni).

In realtà, concettualmente, in entrambi i casi s'è di fronte ad una conseguenza non immediata e diretta dell'illecito altrui, bensì ad una conseguenza ulteriore: rispetto all'evento mortale, da un lato, ovvero all'evento macrolesione, dall'altro lato. Tale osservazione è non solo comprensibile logicamente, ma confermata espressamente dalla Corte Costituzionale, la quale, nella nota sentenza n.372 del 1994, parla del danno alla salute derivato dall'uccisione di una persona a un suo familiare, come di un danno "connotato dalla disgiunzione del soggetto che pretende il risarcimento dal titolare del bene primamente leso dal fatto illecito", in sostanza non "identificabile come danno evento, apparendo soltanto come conseguenza della lesione di un diritto altrui".

In ogni caso, a livello ricognitivo, non può, si ripete, che ribadirsi che il problema del cosiddetto danno riflesso o di rimbalzo, a carico di persone in qualche modo vicine al soggetto leso in via primaria dall'illecito, si ponga per lo più con riferimento alle ipotesi in cui costui sia sopravvissuto, sia pur macroleso, all'illecito stesso.

Da un punto di vista meramente quantitativo l'orientamento da ultimo prevalente in Cassazione pare, comunque, quello che afferma il diritto al risarcimento del danno riflesso.

In particolare, si segnala il caso trattato dalla sentenza n. 1516 del 2 febbraio 2001 della Suprema Corte, avente ad oggetto, oltre che i danni di un soggetto (che svolgeva la professione notarile, investito da un'auto mentre stava attraversando le strisce pedonali) direttamente leso dall'illecito altrui, anche i danni personali subiti dalla moglie convivente sia di ordine patrimoniale (per il precoce pensionamento), sia di ordine morale. Mentre la sentenza d'appello aveva negato a costei la risarcibilità di siffatti danni, la Cassazione è stata di diverso avviso, enunziando i seguenti principi:

1)  Che «il danno subito dalla moglie della vittima primaria, che rinunci per solidarietà familiare ad una propria attività lavorativa (insegnamento) per dedicarsi al soccorso del proprio marito, è un danno riflesso o di rimbalzo rispetto alla vittima primaria (secondo l'originaria intuizione della giurisprudenza francese), ma è un danno diretto, sia pure di natura consequenziale, per la vittima secondaria, che lo subisce come conseguenza rispetto al medesimo evento, subendo l'ingiusta menomazione della propria sfera "patrimoniale"»;

2) Che "il nesso di causalità, rispetto alla condotta imputabile, si pone non in termini di causalità materiale, ma di causalità giuridica, secondo l'id quod plerumque accidit (art. 1223 c.c.), posto che il conducente dell'auto che guidi spericolatamente o imprudentemente, ben può prevedere che la vittima sia un padre o una madre di famiglia, e che dunque le conseguenze dell'evento possano essere plurioffensive. È il cd. principio della colpa cosciente, ben noto alla dottrina penale, ma che bene si adatta alla identificazione della colpa civile, essendo questa inerente al medesimo illecito, che viene ora in rilievo come l'illecito civile descritto nella clausola generale dell'art. 2043 c.c.";

3) Che "anche il danno morale debba essere "costituzionalizzato" e cioè "conformato" ai valori che la Costituzione arreca alla persona umana, come diritti umani inviolabili che arricchiscono la sua dignità";

4) Che è "inconsistente il tradizionale argomento dell'ostacolo costituito dall'art. 1223 c.c. (argomento della causalità diretta ed immediata), in quanto il danno morale in favore dei congiunti trova causa efficiente nel fatto del terzo, sicché il criterio di imputazione concerne la colpa e la regolarità causale, in quanto sono considerati risarcibili i danni che rientrano nelle conseguenze ordinarie e normali del fatto";

5) Che "appare fuorviante parlare di danno riflesso o di rimbalzo, proprio perché lo stretto congiunto, convivente e/o solidale (per la doverosa assistenza) con la vittima primaria, riceve immediatamente un danno consequenziale, di varia natura (biologico, anche se può essere di ordine psichico/morale, patrimoniale, e secondo recente dottrina e giurisprudenza, anche esistenziale) che lo legittima jure proprio ad agire contro il responsabile dell'evento lesivo".

6) Che in relazione a tali danni, si è "certamente in presenza di un "fatto reato" plurioffensivo, e dunque non sussiste alcuna preclusione ai sensi dell'art. 195 c.p. correlato all'art. 2059 del codice civile".

Orbene, nell'argomentare della Suprema Corte si nota anzitutto una commistione tra il nesso causale (parte dell'elemento oggettivo dell'illecito) e l'elemento soggettivo (colpa) del medesimo illecito: ed a tal proposito si segnala che recentemente parte della dottrina (si vedano, ad esempio, Giovanni Fiandaca ed Enzo Musco, Diritto penale. Parte generale, II edizione, pag.189) sostiene che se si sia accertato, secondo la miglior scienza, che da un fatto X sia derivato un evento Y, il nesso causale così sussistente non viene certamente meno perché si verifichi che Y non sia conseguenza normale di X, ma solo occasionale o eccezionale: e cioè, in simile ipotesi non potrà mettersi in dubbio l'accertato nesso causale, bensì la circostanza se sussista o meno l'illecito sotto il profilo soggettivo (e quindi, come evidenziato dalla Suprema Corte, sia pur con l'accennata commistione tra elemento oggettivo e soggettivo, se l'agente versasse o meno in dolo o colpa). E comunque, a proposito del concetto richiamato di colpa cosciente, non può non evidenziarsi che la dottrina e la stessa giurisprudenza penale della Suprema Corte ritengono che essa "è caratterizzata dalla previsione dell'evento" e "postula che questo non sia stato voluto né accettato nell'ipotesi che si verifichi" (Cass. pen. sez. 1 sent. 07382 del 27/07/1993, massima CED). Sicché non appare chiaro come nel concetto penale di evento previsto quale possibile, seppur non voluto ed accettato, da parte del danneggiante che abbia nonostante ciò tenuto una condotta imprudente, negligente od imperita, possa essere ricompreso, ad esempio, l'eventuale malattia psichica derivata ad un congiunto o (perché no) ad un amico del danneggiato. E cioè, per essere più espliciti, nelle ipotesi di cui si discute, a voler seguire la tesi anzidetta, si dovrebbe parlare non di un solo reato a carico del danneggiante (omicidio o lesioni, colposi o dolosi, a carico della vittima primaria), ma anche di una serie indefinita di altri reati (in particolare di lesioni colpose) a suo carico per aver provocato una o più malattie psichiche in danno di persone più o meno vicine alla vittima primaria.

Peraltro, anche al fine evidente di contenere il risarcimento del danno e per evitarne gli eventuali (e difficilmente preventivabili) effetti a cascata (come li definisce la Cassazione in altra sentenza di cui si dirà appresso), l'art.1223 c.c., che come noto opera in tema di illecito aquiliano ex art.2056 c.c., stabilisce la risarcibilità di quei danni emergenti o lucri cessanti che siano "conseguenza immediata e diretta" dell'illecito. Orbene, bisognerà pur dare uno spazio di operatività alla norma in oggetto e chiedersi sino a che punto l'estensione (che pare in alcuni casi addirittura incontrollata) del concetto di danno ingiusto risarcibile, operata di recente dalla giurisprudenza, sia compatibile con tale precetto.

E tanto per far comprendere come non ci si possa, da parte degli operatori del diritto, avvocati e magistrati in prima linea, adagiare sugli allori di questa o quella sentenza della Cassazione, basti pensare che se è vero che l'orientamento a cui s'è fatto cenno pare prevalere ultimamente (tant'è che analoghi concetti a quelli anzidetti sono stati recentissamente affermati dalle sentenze n.10291 del 27/07/2001 Sez. 3 e n.12198 del 02/10/2001 Sez. 3), è anche vero che non mancano precedenti di segno diametralmente opposto, neppure remoti.

Infatti, Cass. Sent.: 02037 del: 23/02/2000 sez.: l ha negato la concessione del risarcimento dei danni morali sofferti dai congiunti di chi abbia riportato gravi lesioni in conseguenza dell'illecito. In particolare la Suprema Corte ha motivato il rigetto dell'istanza asserendo:

1) Che l'art.1223 c.c. "esclude la risarcibilità dei danni indiretti, osservando al riguardo che la menomazione fa soffrire immediatamente e direttamente il danneggiato, e solo in via mediata ed indiretta i suoi congiunti";

2) Che, quindi, "la sofferenza dei congiunti del danneggiato non è immediata e diretta (come in caso di decesso della vittima) ma soltanto mediata, ed in alcuni casi lontana dal fatto causativo";

3) Che "la vittima della lesione, in quanto ancora in vita, percepisce una indennità volta ad alleviare la sua personale sofferenza", con "effetto compensativo del dolore dell'offeso in prima persona", effetto che "non può, poi, non riverberarsi anche nei confronti dei suoi congiunti per ricavarne pur essi conforto";

4) Che "la permanenza in vita del soggetto offeso non" consente "di ritenere intaccata la rete dei rapporti tra la vittima diretta dell'illecito ed i suoi congiunti";

5) Che "le tradizionali finalità di prevenzione e repressione costantemente sottese ai danni non patrimoniali inducono, inoltre, a privilegiare una opzione interpretativa diretta a limitare l'applicazione degli art. 185 c.p. e 2059 c.c. alle sole persone offese dal reato";

6) Che "la necessità di non allargare l'area dei danni risarcibili e di impedire possibilità di duplicazioni di spese a carico del danneggiante ostano a che, nei casi in cui a favore dei congiunti vi sia già stata trasmissione jure hereditatis dei danni morali scaturenti dalle lesioni della vittima, agli stessi congiunti possano riconoscersi anche i danni morali jure proprio";

7) Che, "infatti, nella determinazione della somma da corrispondere al soggetto offeso a titolo di ristoro delle sofferenze per le lesioni patite non può non tenersi conto anche dell'alterazione di quella serenità e tranquillità familiare, che finisce per pesare oltre che sulla persona offesa anche su tutti i componenti della famiglia, che in tal modo finiscono anche essi per usufruire delle somme riconosciute al loro dante causa";

8) Che, "su un piano più generale non può, infine, che ribadirsi la già sottolineata esigenza di impedire nella presente materia a carico del danneggiante alluvionali "effetti a cascata" ...".

In conformità con detto orientamento vi sono altre pronunzie fra cui: Cass. 17 ottobre 1992 n. 11414; Cass. 16 dicembre 1988 n. 6854, Cass. 11 febbraio 1998 n. 1421 (sia pur solo in relazione al danno morale dei congiunti di un macroleso, più complessa essendo la motivazione in relazione al danno alla vita di relazione), nonché Cass. 17 novembre 1997 n.11396.

Orbene, anche la pronunzia da cui sono tratti i brani anzidetti suscita più d'una perplessità. Anzitutto, non pare possa dirsi con tanta sicurezza che il risarcimento attribuito alla vittima primaria dell'illecito possa essere di conforto a chi gli sia vicino.

Peraltro, si ribadisce che devono essere condivise le perplessità di chi ritiene, come accennato più sopra, che in realtà non si vedono grosse differenze tra i danni morali (o biologici o esistenziali) riflessi che derivano ai soggetti vicini a chi è leso in maniera rilevante, seppur non mortale, e quelli in capo a chi sia deceduto in seguito alle lesioni subite (per cui, delle due: o l'art.1223 c.c. è d'ostacolo anche all'attribuzione del diritto al risarcimento dei danni patiti dai congiunti del defunto, oppure non lo è neppure se il leso abbia avuto la fortuna di sopravvivere al fatto illecito).

D'altro canto, però, non può non condividersi l'opinione di chi, sia per il dato normativo in questione, sia al fine di garantire le esigenze sottese ad esso (e cioè evitare, come detto, «a carico del danneggiante alluvionali "effetti a cascata"») ritiene che i danni riflessi o di rimbalzo costituiscano danni non direttamente derivanti dall'atto illecito e come tali giammai risarcibili.

E che sulla via tracciata dalla prima giurisprudenza sopra richiamata vi sia un concreto pericolo di dar vita alle più svariate (ed impensate) ipotesi risarcitorie è tanto vero sol che si guardi all'aspetto soggettivo del problema ed a quello oggettivo. Sotto il profilo soggettivo è agevole constatare come anche in questo sede (ed in genere negli scritti nella presente materia) si parli genericamente di prossimi congiunti del danneggiato, di persone a lui vicine, con formule vaghe che, almeno in teoria, non escludono certamente la possibilità di vedere inserito nel novero dei titolari di diritti risarcitori anche chi abbia magari con lui uno stretto, fraterno rapporto d'amicizia, che abbia subito una perturbazione non solo morale, ma, perché no, alla salute ovvero anche solo relazionale (ad esempio, per non aver più il piacere di andare a svolgere attività prima esplicate assieme al soggetto leso: giocare al pallone, pescare, correre ecc.).

Ed ha perfettamente colto tale aspetto Cass. 17 ottobre 1992 n. 11414, la quale nell'escludere la risarcibilità del danno morale subito dai genitori di un bambino leso per essere stato investito da un'automobile, ha per l'appunto asserito che "si tratta di conseguenze indirette del reato", e che, per convincersene, basta "considerare il numero, in teoria illimitato, delle persone che legate dal soggetto passivo del reato per le ragioni più varie (parentela, convivenza, amicizia, ecc.) possono subire le stesse conseguenze".

Sempre sotto il profilo soggettivo si segnala che la Cassazione penale (con la sentenza n.11625 del 2000) ha riconosciuto al nascituro il diritto al risarcimento dei danni subiti per la morte del genitore avvenuta al momento in cui era stato concepito, peraltro con un ragionamento che non si vede motivo di non ritenere estensibile anche a chi sia concepito e nasca molto tempo dopo il fatto illecito.

È evidente, quindi, che già dal punto di vista soggettivo il danneggiante (e l'eventuale compagnia assicuratrice della responsabilità civile) non avrà mai la certezza di aver terminato di corrispondere il risarcimento dei danni: si pensi, ad esempio, alla nascita, dopo il fatto illecito, di numerosi figli della vittima, magari per parto plurigemellare di nascituri già concepiti al momento dell'illecito, ovvero perché si tratti di un macroleso che sia, però, in grado di procreare; si pensi, ancora, alla nascita di numerosi fratelli della vittima ovvero magari anche di numerosi nipoti.

Sicché ben potrebbe, con ironia, sostenersi che detta giurisprudenza costituisce valido freno al fenomeno del calo delle nascite nel nostro Paese! Non solo. Laddove si consideri che l'anzidetta sentenza penale 11625/2000, coerentemente al suo ragionamento, ha ritenuto risarcibili anche i danni patrimoniali subiti dal nascituro, è evidente che il danneggiante sarà esposto verosimilmente ad una duplicazione risarcitoria, poiché costui, dopo aver corrisposto l'integrale risarcimento patrimoniale ai congiunti di chi sia deceduto a causa del sinistro, ben potrebbe doversi confrontare con ulteriori richieste risarcitorie da parte di quegli altri congiunti (ad esempio un figlio già concepito al momento della morte, come nel caso trattato da detta sentenza), i quali siano venuti in vita dopo la corresponsione del danno (con possibilità di recupero, da parte del danneggiante, di quanto corrisposto in più precedentemente che non è detto che sussistano).

E si tratta di ipotesi che non sono lontane dal reale, ma che già si affacciano nei Tribunali.

Sotto il profilo oggettivo, poi, è agevole notare la proliferazione dei danni ingiusti risarcibili riconosciuti specie dalla giurisprudenza di merito, la cui casistica, esemplificativamente, ricomprende anche tra gli altri, a livello di genesi: le attese in aeroporto - le case non abitabili - la compromissione dei rapporti familiari - le contravvenzioni illegittime - il danno all'immagine della pubblica amministrazione - l'errato taglio dei capelli - l'estromissione da un concorso - le immissioni - l'irragionevole durata dei processi - la mancata attivazione del servizio telefonico - la mancata collocazione in graduatoria - la mancata somministrazione dei mezzi di sussistenza - la mancata videoripresa nuziale - il mobbing - le molestie - le nascite indesiderate - la perdita del feto - il protesto illegittimo - il tentato furto - la vacanza rovinata.

Tant'è che s'è passati dai tradizionali danni morale, patrimoniale e biologico a riconoscere la risarcibilità del cosiddetto danno esistenziale.

Infatti, la Corte di Cassazione, Sez. I Civ., 7 giugno 2000, n. 7713, ha accolto l'istanza risarcitoria di un figlio che lamentava, per il ritardato pagamento delle somme stabilite per il suo mantenimento da parte del padre, la derivazione di danni "sia sotto il profilo affettivo che economico in conseguenza del comportamento intenzionalmente e pervicacemente defatigatorio del padre".

In specie, è stata riconosciuta dalla Cassazione sussistente la lesione "di fondamentali diritti della persona, in particolare inerenti alla qualità di figlio e di minore", tanto in applicazione dei noti principi espressi dalla Consulta con la sentenza n.184 del 1986, "relativa al danno - evento da lesione del diritto alla salute (cd. danno biologico), ma riferibile (per la latitudine dei suoi enunciati) ad ogni analoga lesione di diritti comunque fondamentali della persona risolventesi in un danno esistenziale od alla vita di relazione".

La Cassazione, in sostanza, legge l'art.2043 c.c. alla luce della Costituzione asserendo che lo stesso, «correlato agli artt. 2 e ss. Costituzione, va così "necessariamente esteso fino a ricomprendere il risarcimento non solo dei danni in senso stretto patrimoniali, ma di tutti danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana" ».

Ed anzi, definisce espressamente il risarcimento del danno quale "sanzione esecutiva del precetto primario ... la minima delle sanzioni che l'ordinamento appresta per la tutela di un interesse".

Ed allora non si comprende come poi possa affermarsi, sempre da parte della Suprema Corte (e questa volta pacificamente), che la lesione del bene vita non vada risarcita poiché tutelata solo penalmente, "attesa la funzione non sanzionatoria, ma di reintegrazione e riparazione di effettivi pregiudizi svolta dal risarcimento del danno, e la conseguente impossibilità che, con riguardo alla lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del suo titolare e da questo fruibile solo in natura, esso operi quando tale persona abbia cessato di esistere" (Cassazione civile sez. III, 20 gennaio 1999, n. 491).

A raffrontare le fattispecie esaminate a pochi mesi di distanza dalla Suprema Corte viene il dubbio che mentre rientri tra i diritti fondamentali costituzionalmente tutelati quello a vedersi riconosciuto tempestivamente nella qualità di figlio, non vi rientri quello alla vita: come se per l'ordinamento civile conti di più, e sia più grave, che un padre non mantenga i suoi doveri verso il figlio piuttosto che lo uccida.

È chiaro che il moltiplicarsi dei pronunziamenti più disparati in materia, senza che intervengano le Sezioni Unite ovvero una disciplina organica della materia (che sarebbe ormai riduttivo chiamare sul danno biologico), il concentrarsi dell'attenzione dei giudici, degli avvocati, della dottrina e degli stessi danneggiati, per lo più sulle conseguenze dell'illecito, anche indirette e mediate, che si presentino, secondo un giudizio di probabile verificazione rapportato all'apprezzamento dell'uomo di ordinaria diligenza, come effetto normale, non eccezionale od anomalo, del fatto illecito (come riconosciuto dalla giurisprudenza, che così interpreta, o potrebbe dirsi supera, il disposto di cui all'art.1223 c.c.: in tal senso, ad esempio, l'anzidetta Cassazione penale 11625/2000 ediretto, e cioè la lesione dell'integrità psicofisica dell'individuo o addirittura del bene vita, può portare non solo ai contrasti giurisprudenziali a cui s'è fatto cenno, ma anche ad evidenti paradossi.

Per cui è stato detto che bene farebbe (ovviamente civilisticamente parlando) l'automobilista (magari sprovvisto di assicurazione) investitore di un pedone, che abbia subito lesioni gravissime, ma sia ancora in vita, a fare retromarcia ed ammazzare il ferito, dovendo in quel caso risarcire solo l'eventuale danno morale patito dai congiunti (e neppure quello, in ipotesi di persona sola, priva di stretti legami familiari, quale può essere un barbone), piuttosto che lo stesso danno morale dei congiunti ed in aggiunta i danni biologico e morale subiti dalla vittima primaria, che sarebbe costretto a risarcire (con cospicui importi) nell'ipotesi di una sopravvivenza con gravissime lesioni, magari del 100%, delle funzioni vitali.

Ed ancora, ben potrebbe verificarsi (ed anzi s'è verificato) il caso che prima o durante un giudizio civile chi sia stato leso nella salute dall'illecito altrui muoia, magari per altre circostanze del tutto scollegate rispetto al medesimo illecito; per cui, stando alla giurisprudenza formatasi, ben potrebbe sostenersi, da parte del danneggiante, che il risarcimento non andrebbe calcolato sugli importi tabellari, ma rapportato alla vita realmente vissuta con la menomazione, con notevole riduzione, quindi, del danno da reintegrare (in tal senso, ad esempio, Cassazione civile sez. III, 29 maggio 1998, n. 5366 e Cassazione civile sez. III, 7 aprile 1998, n. 3561): sicché i familiari del soggetto leso bene farebbero a spingere costui o ad una veloce transazione o ad un giudizio nella speranza che questo si chiuda prima che il loro "caro" passi a miglior vita.

Non si vuol certo dire che nei casi concreti non si debba tener conto delle conseguenze, degli effetti del fatto illecito; si dubita solo che, allo stato attuale della legislazione e delle pronunzie della Consulta:

a) sia corretto attribuire con certezza tali effetti anche in capo a chi non sia il soggetto colpito direttamente dal fatto illecito (ovvero senza che sia quantomeno normativamente acclarato chi esattamente abbia diritto al risarcimento dei danni indiretti o riflessi);

b) sia corretto, anche per quanto riguarda la persona lesa in via primaria, soffermarsi più sulle conseguenze in termini relazionali della lesione alla salute, che non su quest'ultima.

Si vuol qui dire, ad esempio, che una lesione grave dell'integrità psicofisica di una persona resta tale anche se questa persona muore (fosse ciò in conseguenza dell'evento lesivo o meno) e va adeguatamente risarcita di per sé, indipendentemente dalle ulteriori conseguenze connesse alla lesione, che al più potranno aggiungersi (o sottrarsi, in caso di morte prematura), ma che dovrebbero restare di contorno ad una vicenda che ha al suo centro la lesione del bene salute (che è il bene costituzionalmente garantito da cui è partita l'evoluzione giurisprudenziale e dottrinaria ancora oggi in atto).

Per alcuni danni riflessi od indiretti, poi, l'ottica potrebbe essere spostata sempre sul danneggiato. Sicché, il danno patrimoniale (ad esempio, per l'abbandono del posto di lavoro) e relazionale od esistenziale (ad esempio, per la radicale modifica delle frequentazioni amicali e parentali, ed in genere delle attività non propriamente patrimoniali svolte precedentemente) subito da chi debba assistere il proprio coniuge leso dall'illecito, ben potrebbe tradursi in un danno dello stesso leso, rapportabile, magari, al costo di una persona (anche qualificata) che lo assista per il prevedibile periodo di vita restante.

Tanto più che laddove, anche oltre le migliori intenzioni del coniuge assistente, detta situazione si venga a modificare (o per volontario allontanamento o per morte dello stesso) si potrebbe verificare un abbandono del danneggiato privo di assistenza (e privo di risarcimento, sotto tale profilo) ovvero un subentro di altri congiunti (magari un figlio od un fratello del danneggiato) i quali pure potrebbero vantare il diritto ad essere risarciti per le conseguenti perdite patrimoniali e relazionali od esistenziali (con evidente indebita duplicazione o addirittura moltiplicazione delle voci da risarcire).

Di contro, attribuendo, per quanto possibile, il risarcimento al danneggiato primario dell'illecito, si eviterebbero non solo tali distorsioni, ma anche il rischio di risarcire voci di danno che potrebbero, in realtà, configurare scelte non necessitate, ma assolutamente spontanee del preteso danneggiato in via riflessa (si pensi all'ipotesi in cui il soggetto leso non abbia per nulla bisogno di un'assistenza continua da parte del coniuge che, però, per affetto, decida comunque, volontariamente, di interrompere i rapporti di lavoro e relazionali sino a quel momento tenuti per stargli ugualmente vicino).

Né questa tesi appare d'ostacolo al riconoscimento del danno patrimoniale subito dai familiari della vittima (ad esempio un padre di famiglia ormai invalido per il lavoro) che si trovino a non beneficiare più di quanto sino ad allora corrisposto dal loro congiunto.

È, infatti, riconosciuto da una giurisprudenza oramai trentennale, risalente a Cass. Sez. U sent. 00174 del 26/01/1971 (e cioè al famoso caso, Meroni, giocatore di calcio del Torino), che in siffatte ipotesi l'estinzione dell'obbligazione del soggetto leso (che si verifica con la morte di colui il quale unicamente poteva adempiere a quella obbligazione ovvero con una invalidità tale di costui da renderne impossibile l'adempimento) è contestuale estinzione (e lesione, quindi) del correlativo diritto di credito, che va quindi risarcito (in tal senso si veda, ancora, la sentenza n.372 del 1994 della Consulta, sopra richiama, secondo cui, in siffatti casi, "la perdita lamentata dai superstiti si identifica, essendone una implicazione necessaria, con l'estinzione del rapporto giuridico che obbligava la persona deceduta a provvedere ai loro bisogni: in quanto incide su un rapporto obbligatorio strettamente personale facente capo al defunto, il medesimo fatto illecito lede in pari tempo una situazione giuridica vantaggiosa per i congiunti, qualificandosi anche nei loro confronti come cagione di danno ingiusto imputabile all'autore").

Infine, può solo farsi cenno all'enorme problema del come risarcire i danni riflessi od indiretti: ad esempio, il danno morale da morte di un congiunto va risarcito di più o di meno rispetto a quello subito da chi debba vivere il resto della vita al fianco di un macroleso? Ed il danno esistenziale, come può essere, se non valutato economicamente (ciò che per sua natura è impossibile), per lo meno tradotto in futuro in tabelle analoghe a quelle adottate nei vari tribunali sul danno biologico?

Si vuol terminare queste riflessioni, che non possono avere l'ambizione di risolvere i problemi in campo, ma che vogliono perlomeno metterne in luce alcuni, con le parole del prof. Francesco Gazzoni, ordinario di Istituzioni di diritto privato nell'Università La Sapienza di Roma, il quale ha messo in luce le contraddizioni ed i paradossi a cui si espongono i recenti sviluppi giurisprudenziali in un gustoso ed allegorico scritto dal titolo: "Alla ricerca della felicità perduta (psicofavola fantagiuridica sullo psicodanno psicoesistenziale)", scritto da cui sono stati estratti i seguenti brani. Egli asserisce, ad un certo punto, che se si fosse attratto "il danno alla salute all'interno dell'art. 2059, si sarebbe poi potuta giustificare la mutilazione di questa norma nella parte in cui poneva un limite.

Di qui, attraverso il danno alla salute psichica, si sarebbe potuto tentare di affrancare dal limite anche il danno morale e a quel punto il gioco sarebbe stato fatto. Svincolato dal reato, il pretium doloris avrebbe infatti riguardato qualsivoglia possibile fattispecie, sicché il danno morale, da danno conseguenza che era nel sistema codicistico, sarebbe potuto divenire danno evento, sol che si fosse inventato un diritto leso, analogo a quello biologico psichico.

E così anche il creditore avrebbe potuto pretendere il risarcimento per il dolore provato a seguito dell'inadempimento, avvalendosi del concorso delle responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale. ...

Il danno biologico psichico poteva essere, dunque, il cavallo di Troia con il quale espugnare la cittadella del danno non patrimoniale. L'occasione per introdurre l'ardita costruzione legnosa (del cavallo si intende) fu proprio quando si decise di sfruttare al meglio la simpatia che suscitavano i superstiti di chi fosse stato ucciso. Il problema era quello di stabilire se essi avessero diritto al risarcimento del danno biologico non solo jure successionis, ma anche jure proprio.

Nel primo caso, in verità, se il diritto era stato acquisito al patrimonio del morto, evidentemente sarebbe poi passato in quello degli eredi, familiari o estranei che fossero stati.

Ma quando poteva dirsi avvenuta l'acquisizione?

La risposta dei Decisionisti supremi [evidente riferimento alla Cassazione] fu agghiacciante e cinica: non era sufficiente morire, anzi se si moriva all'istante nessun diritto poteva dirsi nato, perché il danno alla salute era danno alla vita che continuava, sicché il leso doveva campare e soffrire quel tanto che fosse stato ritenuto sufficiente (un giorno? più giorni? comunque non sei ore, affermava un Decisionista supremo, collezionista di orologi [anche se ora la Cassazione 4783 del 2001 pare aver aperto uno spiraglio al risarcimento di detti danni laddove la vittima sia rimasta in vita 4 ore]), per dire che la vita era continuata, anche se magari in coma. Questa tesi causò una vera e propria mutazione genetica nei potenziali eredi delle vittime.

Essi, se un tempo auguravano al loro "caro" la morte più rapida possibile, per intascarne il patrimonio, ora cambiarono atteggiamento. Le chiese si riempirono di potenziali eredi di persone lese, i quali offrivano due candele al santo preferito: la prima per pregarlo di non far morire rapidamente il leso, ma anzi di prolungargli la vita il più a lungo possibile, ferma restando, ovviamente, la morte; la seconda per pregarlo di farlo soffrire come una bestia.

Infatti più l'agonia fosse stata lunga e dolorosa, più il risarcimento a disposizione degli eredi sarebbe stato alto.

Il problema del diritto dei superstiti a pretendere un risarcimento per il danno subito in proprio, evidentemente di tipo psichico, non ebbe invece un'altrettanto facile soluzione, perché, in primo luogo, non si capiva chi fossero i superstiti legittimati, non identificandosi essi con gli eredi.

Appena veniva uccisa una persona, si assisteva, così ad una geremiade di lamentazioni da parte di chiunque l'avesse avvicinata in vita: cameriere, amanti, amici, compagni di partito, di giochi e di congreghe varie, fidanzate, fornitori di cibarie di cui 1'uccisa fosse stato affezionato cliente. Tutti, insomma, ma proprio tutti, assumevano di vivere la morte del soggetto come un trauma insuperabile o quanto meno come una vicenda stressante.

I funerali, un tempo frequentati di malavoglia da chi non ne poteva fare a meno, divennero di colpo il palcoscenico ove la più varia umanità manifestava, recitando, il proprio sconvolgente dolore, con una gara a chi piangeva di più o sapeva trovare le parole più strappacuore e commoventi per ricordare il morto.

I fiorai, specializzati in corone mortuarie, si arricchirono improvvisamente, per l'incredibile aumento, della domanda, al pari dei giornali quotidiani, la cui pagina di necrologi, un tempo, limitata a più o meno poche inserzioni, con le quali si annunciava (a chi?) di partecipare al dolore dei familiari del morto, si allargò a dismisura, con una modificazione profonda dei testi, che ora manifestavano lo smisurato dolore dell'inserzionista per la scomparsa, mediante veri e propri piccoli saggi stilistici, che iniziavano con un «Ciao» rivolto all'ucciso, allo scopo di sottolineare il rapporto di stretta confidenza. La partecipazione al dolore dei familiari scomparve o fu messa in ombra, altro non essendo essi se non potenziali, anzi sicuri concorrenti sul piano risarcitorio.

I più informati sapevano che negli ordinamenti giuridici di common law si tendeva a risarcire il danno, oltre che a parenti e fidanzati emotivamente turbati, anche a chi si fosse trovato ad assistere ad un incidente impressionante e avesse subito uno shock nervoso, specie se avesse poi soccorso le vittime. Dunque costoro passavano le loro notti nei pressi degli incroci più pericolosi della città, sperando di essere testimoni di scontri mortali, tanto più redditizi se, per un colpo di fortuna, vi fossero stati cadaveri sbudellati in mezzo alla strada, teste e braccia mozze.

I più fortunati potevano vantare uno schizzo di sangue sul proprio vestito o addirittura, vertice inarrivabile della sorte benigna, sul proprio volto. Di giorno essi non riuscivano ovviamente a lavorare per il sonno accumulato, ma in realtà il loro vero lavoro era diventato quello notturno.

Questo del c.d. danno da rimbalzo era diventato un vero pericolo, se si considera che, trattandosi di danno psichico, esso era alquanto sfuggente e di certo permetteva simulazioni e recite che il danno fisico, nella sua evidenza, non permetteva.

Peraltro i Decisionisti [ovvero i giudici] riservarono la loro attenzione alla sola uccisione di un familiare. Essi, improvvisamente scopertisi fedeli alle tradizioni del focolare, concentrato della sana e condivisa ipocrisia italica dei sepolcri imbiancati, risarcivano il danno a tutto spiano, solo discutendo se fossero legittimati i figli e il coniuge, tutti i parenti o piuttosto quelli conviventi con l'ucciso.

In tal modo i Decisionisti non consideravano che la convivenza era stata in ogni epoca inversamente proporzionale agli affetti, nel senso che quelli veri, tenaci e proiettati nel tempo pretendevano di necessità la lontananza, sicché la vicinanza fosse un fatto eventuale, ricercato ma non ottenuto e quindi, in quanto tale, desiderato. La storia di Tristano e Isotta, specie nella versione di Thomas, era lì ad attestarlo.

A rigor di logica di vita vissuta, dunque, una presunzione di shock e di afflizione, quale esito dell'uccisione di qualcuno, poteva ipotizzarsi, almeno di regola, solo per coloro i quali, con costui, non avessero convissuto o, se la convivenza fosse stata in atto al momento della morte, essa si fosse protratta, fino a quel momento, per un breve periodo (qualche mese? un anno?) ...".

In conclusione, al di là delle volutamente ironiche e provocatorie parole del prof. Gazzoni,appare evidente che l'adozione delle tabelle riduce certamente gli spazi di incertezza, ma non elimina la necessità di un intervento se non del legislatore, perlomeno della Cassazione a Sezioni Unite, in modo che sia, se non chiaro, meno nebuloso di quanto appaia oggi, in questa materia, stabilire chi abbia diritto al risarcimento di che cosa.

dott. Luciano Cavallone