Avv. Vincenzina Maio



DANNO TANATOLOGICO E DANNO BIOLOGICO IURE HEREDITATIS: UNA DISTINZIONE ANCORA ATTUALE?

DANNO TANATOLOGICO E DANNO BIOLOGICO IURE HEREDITATIS: UNA DISTINZIONE ANCORA ATTUALE?
 
Autore: Vincenzina Maio, avvocato cassazionista
 
 
Si trae spunto dalla recente sentenza n. 870 del 17.1.2008 con cui la terza sezione civile della Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi della risarcibilità, iure hereditatis, del danno biologico, per esprimere alcune riflessioni su di una problematica molto viva nella discussione giuridica forense.
Il problema del danno non patrimoniale da uccisione è assai risalente, ma si riaccende nell'era del danno biologico. Esso trova interesse presso le giurisdizioni di merito fin dalla nascita di questa nuova voce di danno e giunge al vaglio della Corte Costituzionale.
Quest'ultima, nella complessa sentenza 372/1994 affronta sia il profilo delle pretese degli eredi per il pregiudizio patito dal de cuius, sia quello delle istanze dei prossimi congiunti per il pregiudizio sofferto iure proprio a causa della morte del parente, ma con riferimento ad un solo tipo danno: quello biologico.
I principi affermati nella decisione della Consulta conducono ad una concezione restrittiva del risarcimento.
Circa il profilo iure ereditario, ossia il danno subito dal soggetto poi deceduto per essere quindi oggetto di trasmissione ereditaria, la Corte afferma che il risarcimento del danno biologico patito dal defunto sussiste solo quando la morte non sia istantanea e si possa riscontrare «un apprezzabile lasso di tempo tra la lesione e la morte» al quale riferire lo stesso danno.
Argomentano i giudici che «L'ostacolo a riconoscere[in caso di morte che non consegua dopo un apprezzabile lasso di tempo] ai congiunti un diritto di risarcimento in qualità di eredi non proviene dunque [...] dal carattere patrimoniale dei danni risarcibili ai sensi dell'art. 2043 c.c., bensì da un limite strutturale della responsabilità civile: limite afferente sia all'oggetto del risarcimento, che non può consistere se non in una perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva, sia alla liquidazione del danno, che non può riferirsi se non a perdite.
A questo limite soggiace anche la tutela risarcitoria del diritto alla salute, con la peculiarità che essa deve essere ammessa, per precetto costituzionale, indipendentemente dalla dimostrazione di perdite patrimoniali, oggetto del risarcimento essendo la diminuzione o la privazione di valori della persona inerenti al bene protetto».
Il ragionamento della Consulta, che finisce per eliminare in nuce le pretese connesse ad un danno biologico da uccisione reclamabile iure ereditario, può essere così sintetizzato: a) la salute e la vita sono beni diversi e, perciò, non è possibile applicare alla lesione della vita l'impianto teorico su cui si fonda il riconoscimento del danno biologico; b) il risarcimento può conseguire solo ad una perdita [protratta nel tempo] che deve essere provata nella sua entità.
Risulta opportuno, nella valutazione delle conclusioni della Corte e, più in generale,nell'esame della questione de quo, rimeditare la funzione del risarcimento del danno, come disegnato dalla clausola generale di cui all'art.2043 .c.c., che viene unanimemente riconosciuta nella reintegrazione del patrimonio della vittima, decurtato dall'altrui illecito.
Orbene, si è osservato in dottrina ( ampiamente, CENDON P., Persona e danno, Giuffrè, 2005), è evidente che se si sostiene la risarcibilità ex se della lesione al diritto alla vita (e non meramente della iniziale lesione alla integrità fisica da cui scaturisce la morte), la funzione ristoratrice e satisfattoria, tipica del risarcimento del danno, verrebbe del tutto meno. Il risarcimento del danno alla vita in sé intanto può ammettersi, in quanto con esso si possa soddisfare l'ucciso (ovviamente solo per equivalente) del bene di cui è stato privato: il fine del ristoro potrebbe essere effettivamente raggiunto solo ove si individui almeno un istante (anche qui logico e non meramente temporale), in cui il soggetto leso possa «godere» del risarcimento.
Ma ciò, nel caso del risarcimento da uccisione, non è possibile, perché si dovrebbero far coincidere troppi momenti: quello dell'illecito, quello del danno alla vita e quello della soddisfazione dell'ucciso mediante il risarcimento monetario, compensazione che nei suoi riguardi sarebbe poi, con tutta evidenza, null'altro che una mera finzione.
Stante l' impossibilità di rendere effettiva la funzione risarcitoria in senso stretto, la dottrina, propensa ad allargare le maglie del risarcimento al caso del danno tanatologico in questione, è costretta ad attribuire ben altra finalità al risarcimento del danno da morte.
Tale impostazione afferma, infatti, che, nel caso di uccisione, la funzione del risarcimento del danno alla vita assolve anche a compiti sanzionatori nei confronti dell'illecito e del suo autore.
Sarebbe dunque compatibile con il sistema italiano una forma di risarcimento del danno da morte (ex art. 2043 c.c., eventualmente connesso con l'art. 2 Cost.) che abbia pure la funzione di pena privata, come d'altronde già accade in tema di risarcimento del danno morale suggettivo puro ex artt. 2059 c.c. e 185 c.p..
Negli anni successivi a Corte cost. 372/1994, la Cassazione è stata più volte chiamata al vaglio della questione del danno biologico da uccisione.
Giunta a tempi più recenti, la Suprema Corte, conformandosi ad un lontano precedente del 1925, ha osservato che la lesione dell'integrità fisica con esito letale, intervenuto immediatamente o a breve distanza di tempo dall'evento lesivo, non è configurabile quale danno biologico, dal momento che la morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, ma incide sul diverso bene giuridico della vita, la cui perdita, per il definitivo venir meno del soggetto, non può tradursi nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento, trasferibile agli eredi. (Cassazione, sez. III, 23 febbraio 2004, n. 3549)
Secondo la Cassazione a tale impostazione non può obiettarsi l'inammissibilità di un vuoto di tutela civile del diritto alla vita (peraltro protetto con lo strumento della sanzione penale), attesa la funzione non sanzionatoria ma di reintegrazione e riparazione assolta dal risarcimento del danno, e la conseguente impossibilità che, con riguardo alla lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del suo titolare e da questi fruibile solo in natura, esso operi quando tale persona abbia cessato di esistere.
Se si considera poi che il soggetto che perde la vita non è in grado di acquistare un diritto risarcitorio, perché fin quando è in vita non vi è perdita e quando è morto, da una parte, non è titolare di alcun diritto e dall'altra non è in grado di acquistarne, il riconoscimento del diritto al risarcimento ereditariamente trasmissibile finirebbe per assegnare alla tutela dell'art. 2043 c.c. un'anomala funzione solo sanzionatrice (o di pena privata).
Le conclusioni esposte trovano seguito in altri e più recenti arresti del Marzo 2007 (Cassazione, sez.III, 22 marzo 2007, n.6946, dove si legge che «il danno biologico consequenziale alla lesione mortale, come lesione della integrità fisica, riguarda un lasso di tempo troppo breve quantificabile, ancorché si debba ammettere che il relativo credito sia stato potenzialmente conseguito dalla parte lesa mentre era in vita. Deve esserne esclusa la risarcibilità, come danno reale, trasmissibile iure hereditatis».
Le osservazioni della massima assise della giustizia civile hanno incontrato l' ostilità di buona parte della dottrina.
Ecco i principali i rilievi critici che questa ha mosso dalla tesi della Corte di Cassazione.
In primo luogo, in riferimento alla distinzione tra diritto alla salute e diritto alla vita, l'asserita diversità ontologica è stata ritenuta affatto condivisibile, in base all'osservazione che, essendo essi null'altro che aspetti del più generale diritto all'incolumità personale, ogni lesione del diritto alla vita postula una previa violazione dell'integrità psicofisica della vittima.
Il diritto alla salute si pone in posizione gradatamente inferiore rispetto al diritto alla vita, il quale, a fortiori, parteciperà della tutela costituzionale di cui il primo gode e che ha valenza tanto nei rapporti di diritto pubblico, tanto in quelli regolati dal diritto privato.
Si osserva, inoltre, che l'opposta tesi porta all'aberrante conseguenza di ammettere il risarcimento del danno biologico per chi subisce una lesione alla propria integrità psico-fisica e di negarlo, invece, per chi abbia subito una lesione tale da portarlo a morte immediata, affermandosi così il principio per cui è meglio, perché economicamente più conveniente, uccidere piuttosto che ferire.
Infine, la ricostruzione giurisprudenziale che subordina il passaggio jure successionis del danno biologico al quale sia conseguito il decesso, in favore degli eredi, al decorso del tempo si fonda essenzialmente su due capisaldi, anch'essi non esenti da spunti critici: da un canto, la possibilità di qualificare il danno come biologico per il solo fatto che la morte sopravvenga a distanza di un rilevante lasso temporale dal momento della realizzazione dell'evento - lesione; dall'altro, sempre per effetto del decorso del tempo, la consolidazione nella sfera giuridico - patrimoniale della vittima che ha patito la lesione del diritto ad ottenere il risarcimento del danno derivato dalla lesione medesima, di cui la stessa vittima ha avuto concreta percezione, diritto già acquisito in tale sfera che - per effetto del decesso - si trasmette mortis causa agli eredi.
All'esito di tale confronto dottrinale e giurisprudenziale, occorre dare menzione di un interessante arresto giurisprudenziale (Cassazione, sez.III, 1 Dicembre 2003 n.18305, ) che, contrariamente alla prevalente posizione pretoria, ha accordato il ristoro patrimoniale alla vittima di un sinistro che ha trascorso gli ultimi momenti di vita in stato comatoso e quindi senza poter apprezzare quella sofferenza che, stante alla precedente prospettazione, giustificherebbe l'insorgere di una pretesa risarcitoria. Sulla stessa lunghezza d'onda Cassazione civile , sez. III, 12 luglio 2006 , n. 15760, occupandosi con un ampio obiter del tema, ha messo in risalto la centralità del danno biologico del defunto, in relazione alla morte non immediata, ormai riconosciuto da consolidata giurisprudenza, come trasmissibile iure hereditatis, e dello stesso danno da morte come perdita della integrità e delle speranze di vita biologica, in relazione alla lesione del diritto inviolabile della vita, tutelato dall'art. 2 Cost. (espressamente Corte Costituzionale sentenza del 6 maggio 1985 n. 132) ed ora anche dall'art. 11-62 Costituzione europea, nel senso di diritto ad esistere, come chiaramente desumibile dalla lettera e dallo spirito della norma europea.
"La dottrina italiana ed europea che riconoscono la tutela civile del diritto fondamentale della vita, premono per il riconoscimento della lesione come momento costitutivo di un diritto di credito che entra istantaneamente come corrispettivo del danno ingiusto al momento della lesione mortale, senza che rilevi la distinzione tra evento di morte mediata o immediata.
La certezza della morte, secondo le leggi nazionali ed europee è a prova scientifica, ed attiene alla distruzione delle cellule cerebrali e viene verificata attraverso tecniche raffinate che verificano la cessazione della attività elettrica di tali cellule.
La morte cerebrale non è mai immediata, con due eccezioni: la decapitazione o lo spappolamento del cervello. In questo quadro anche il danno da morte, come danno ingiusto da illecito, è trasferibile mortis causa, facendo parte del credito del defunto verso il danneggiante ed i suoi solidali".
La problematica , conclude la Cassazione, va affrontata, tenendo nella debita considerazione la Costituzione europea ed il principio di prevalenza della fonte costituzionale europea (art. 1-6) che integra e completa la fonte italiana sul diritto alla vita (art. 2 Cost. e art. 3 Cost. comma 2, tra di loro correlati, essendo la vita la condizione esistenziale della espansione della persona umana). Si inserisce nel solco interpretativo testè descritto anche la sentenza n. 870/2008.
Qui la Corte di Cassazione è chiamata ad occuparsi del gravame interposto dai genitori di un giovane ragazzo deceduto a distanza di tre giorni dal sinistro stradale avverso la sentenza della Corte di Appello che aveva confermato il diniego al risarcimento del danno biologico iure hereditatis, sulla considerazione che la sopravvivenza di tre giorni non fosse sufficiente ad integrare quell'apprezzabile lasso di tempo richiesto per l'accoglimento della domanda.
La Corte accoglie il ricorso, cassando la sentenza impugnata, distinguendo il caso in cui la morte segua immediatamente o quasi alle lesioni da quello in cui tra le lesioni e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo.
Nel primo caso, ribadisce la inconfigurabilità del danno biologico in quanto la morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, incidendo sul diverso bene giuridico della vita; nel secondo caso, viceversa, la ammette, essendovi un'effettiva compromissione dell'integrità psico - fisica del soggetto che si protrae per la durata della vita, e ne riconosce la trasmissibilità agli eredi.
In relazione alla durata della sopravvivenza, i giudici di legittimità precisano che non risulta stabilito, in linea generale, quale durata debba avere la sopravvivenza perché possa essere ritenuta apprezzabile ai fini del risarcimento del danno biologico, ma è del tutto evidente che non può escludersi in via di principio che sia apprezzabile una sopravvivenza che si protrae per tre giorni.
In conclusione di questa breve dissertazione, è possibile ritenere che, seppur lentamente, il trend dell'interpretazione di legittimità, superando l'ormai obsoleto distinguo, condurrà all'allocazione del danno da morte nel genus del danno esistenziale, di cui rappresenterà la visione dinamica, ovvero l'azzeramento definitivo di quelle fonti di godimento nelle quali si concentra il piacere del vivere ed il senso dell'esistenza .