Cass. Civ. Sez. III, 09.05.2000, n. 5913



Sentenza

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. Manfredo GROSSI - Presidente - Dott. Paolo VITTORIA - Consigliere -

 

Dott. Luigi Francesco DI NANNI - Consigliere - Dott. Antonio SEGRETO - Rel. Consigliere - Dott. Alfonso AMATUCCI - Consigliere -

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA
sul ricorso proposto da:

 

C. R., elettivamente domiciliato in ROMA VIA CELIMONTANA 38, presso lo studio dell'avvocato PANARITI BENITO, difeso dall'avvocato SILVANO MORDENTI con studio in 20131 MILANO VIA LEONCAVALLO 45, giusta delega in atti;

- ricorrente -

contro
F. F.;
- intimata--
e sul 2^ ricorso n^ 011255/98 proposto da:

 

F. F. o F., elettivamente domiciliata in ROMA PZZA RE DI ROMA 57, presso lo studio dell'avvocato DOMENICO CAPPUCCI, che la difende anche disgiuntamente all'avvocato PIETRO TAMBURRINI, giusta delega in atti;

- controricorrente e ricorrente incidentale -

contro
C. R.;
- intimato -

 

-

avverso la sentenza n. 2146/97 della Corte d'Appello di MILANO, emessa il 27/05/97 e depositata il 04/07/97 (R.G. 1299/93);

 

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/01/00 dal Consigliere Dott. Antonio SEGRETO;

 

udito l'Avvocato Benito PANARITI (per delega Avv. S. MORDENTI); udito l'Avvocato Pietro TAMBURRINI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Dario CAFIERO che ha concluso per l'inammissibilità o il rigetto del ricorso principale e l'assorbimento di quello incidentale.

 

Svolgimento del processo

 

Con citazione notificata il 27 settembre 1989, F. F. conveniva davanti al Tribunale di Milano rispettivamente R. V., R. C.e la S.r.l. Centro Odontoiatrico Polispecialistico COP, chiedendone la

condanna solidale al risarcimento dei danni subiti per inadeguate cure al proprio apparato dentario fornite dapprima dal V. (applicazioni di protesi di ortodonzia, consulenza, manutenzione di apparecchi, estrazione di tre denti) e poi anche da C. (applicazione di protesi ortodontica fissa, estrazione di un conoide) e da ultimo presso la COP, senza diagnosticare la grave forma di paradontite, che era stata seriamente aggravata dalle predette cure.

 

 

Si costituivano i convenuti, che resistevano alla domanda.
In particolare il C. eccepiva di non aver trattato direttamente con la F., avendo trattato solo con i medici ed, in ogni caso, eccepiva la prescrizione.
Con sentenza depositata il 5 novembre 1992, il Tribunale di Milano respingeva la domanda nei confronti del C. e della COP e condannava il V. solo alla restituzione della somma avuta dalla F..
Avverso detta sentenza proponeva appello la F.. Resistevano gli appellati.
La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 27 maggio 1997, condannava i convenuti in solido al pagamento nei confronti della F. della somma di L. 34.100.000 per danni patrimoniali ed alla persona, nonché V. e C. anche per il danno morale, liquidato in L. 4 milioni, nonché alle spese processuali del doppio grado.
Riteneva la Corte di Appello che il V. ed il C., che non erano odontoiatri, (in particolare il C.i era un odontotecnico) avevano effettuato interventi sull'apparato dentario della F., che erano riservati ai medici o agli odontoiatri; che, in particolare, quanto al C., ciò era provato dalle sue stesse affermazioni, rese nel corso dell'interrogatorio formale, nonché della deposizione di due testi; che, come emergeva dalle sue consulenze tecniche d'ufficio, per effetto del trattamento imperito, imprudente e negligente (mancata diagnosi di una paradontite, mancata applicazione di apparecchiature di contenzione per permettere ai denti mobilizzati di consolidarsi, mancata interruzione della cura ai primi accenni di mobilità dentaria) del V. e del C., la F. ebbe conseguenze dannose costituite sostanzialmente nell'aggravarsi del processo patologico già in atto, con anticipazione ed accelerazione dell'espulsione dei denti; che detto comportamento del C. integrava un fatto illecito.

 

 

Riteneva la Corte che il diritto al risarcimento non era prescritto, poiché la prescrizione decorreva solo dalla data in cui il danno si era manifestato, e cioè nel 1983, con la caduta del primo dente, e che era intervenuta l'interruzione di detta prescrizione, con la lettera della F. del 1986.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il C..
Resiste con controricorso la F., che ha anche presentato ricorso incidentale condizionato e memoria.

 

Motivi della decisione

1.1. Anzitutto vanno riuniti i ricorsi.

 

Preliminarmente ritiene questa Corte che è infondata l'eccezione, sollevata dalla resistente di inammissibilità del ricorso ex art. 366, n. 4, c.p.c., in quanto non reca la specifica indicazione delle singole censure mosse alla sentenza impugnata e delle norme che si assumono violate.
1.2. Osserva in proposito questa Corte che l'indicazione, ai sensi dell'art. 366, n. 4, c.p.c., delle norme che si assumono violate, non si pone come requisito autonomo ed imprescindibile ai fini dell'ammissibilità del ricorso per Cassazione, ma come elemento richiesto al fine di chiarire il contenuto delle censure formulate ed identificare i limiti dell'impugnazione, sicché la mancata o erronea indicazione delle disposizioni di legge non comporta l'inammissibilità del gravame ove gli argomenti addotti dal ricorrente, valutati nel loro complesso, consentano di individuare le norme o i principi di diritto che si assumano violati e rendano possibile la delimitazione del quid disputandum (Cass., 28 settembre 1994, n. 7886).
Nella fattispecie, per quanto il ricorrente non indichi le norme violate, dal complesso del ricorso si intende chiaramente che lo stesso muove alla sentenza impugnata due censure: la prima attiene al vizio di motivazione dell'impugnata sentenza, quanto all'individuazione della sua responsabilità, sia

sotto il profilo della condotta che del nesso causale tra la stessa ed il danno subito dalla ricorrente, nonché sotto il profilo della violazione dei principi, che regolano detto nesso causale.

 

 

Con la seconda censura il ricorrente lamenta la violazione dei principi espressi dall'art. 2947 c.c., in tema di decorrenza della prescrizione.
Ne consegue che, emergendo con chiarezza quali siano le censure mosse alla sentenza impugnata, l'eccezione di inammissibilità del ricorso è infondata.
2. Il ricorrente lamenta che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto la sua responsabilità nella produzione del danno subito dalla ricorrente, in quanto la stessa attrice aveva dichiarato al Tribunale che aveva avuto rapporti solo con il V. ed aveva negato che il C. avesse commesso alcun illecito nei suoi confronti. Assume il ricorrente che egli si limitò ad eseguire una protesi su commissione del sig. V. ed a dare consulenze a quest'ultimo su come applicare detta protesi, senza mai effettuare interventi nella bocca della F..
Ritiene, quindi, il ricorrente che la sentenza impugnata ha violato i principi in tema di nesso causale tra la suddetta sua condotta e l'evento dannoso patito dalla F..
3.1. La censura è infondata e va rigettata.
Osserva questa Corte che la ricostruzione fattuale rientra nei compiti di accertamento e di valutazione del giudice di merito ed è incensurabile in Cassazione, se adeguatamente motivata.
A tal fine va rilevato che è devoluta al giudice del merito l'individuazione delle fonti del proprio convincimento, e pertanto anche la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, la scelta, fra le risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia, privilegiando in via logica taluni mezzi di prova e disattendendone altri, in ragione del loro diverso spessore probatorio, con l'unico limite della adeguata e congrua motivazione del criterio adottato; conseguentemente, ai fini di una corretta decisione, il giudice non è tenuto a valutare analiticamente tutte le risultanze processuali, né a confutare singolarmente le argomentazioni prospettate dalle parti, essendo invece sufficiente che egli, dopo averle vagliate nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il suo convincimento e l'iter seguito nella valutazione degli stessi e per le proprie conclusioni, implicitamente disattendendo quelli logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass., 6 settembre 1995, n. 9384).

 

 

3.2. Nella fattispecie la sentenza impugnata ha ritenuto che il C., tecnico dentista, ha provveduto a fare interventi nella bocca della F., che, invece, potevano essere compiuti solo da un medico o da un odontoiatra.
La prova di detti interventi il giudice di appello l'ha tratta dall'interrogatorio formale del C. (che dichiarava "dopo l'ultimo intervento sulla bocca non ho più visto la signora..."), nonché dalle deposizioni dei testi P. e T..
Ne consegue che le censure in merito del ricorrente si risolvono in una diversa ricostruzione dei fatti, fondata su una diversa lettura delle risultanze processuali, inammissibile in questa sede di legittimità.
4.1. Quanto alla censura di mancanza del nesso causale tra l'attività del C. ed i danni subiti dalla Frangipane, sia materiali che biologici, ritiene questa Corte che essa sia egualmente infondata.
Infatti, a parte la dibattuta questione se la norma di cui all'art. 1223 c.c. regoli il nesso di causalità giuridica, mentre il nesso di causalità materiale sia regolato esclusivamente dai principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., con conseguente distinzione tra causalità di fatto (contenuta nella struttura dell'illecito ed avente come referenti le predette norme penali) e causalità giuridica (contenuta nella struttura della valutazione del danno, di cui agli artt. 2056-1223 c.c.), sta di fatto che per giurisprudenza pacifica il criterio in base al quale sono risarcibili i danni conseguiti dal fatto illecito (o dall'inadempimento in tema di responsabilità contrattuale), deve intendersi, ai fini della sussistenza del nesso di causalità, in modo da comprendere nel risarcimento i danni indiretti e mediati, che si presentino come effetto normale, secondo il principio della c.d. regolarità causale (Cass., 6 marzo 1997, n. 2009; Cass., 10 novembre 1993, n. 11087; Cass., 11 gennaio 1989, n. 65; Cass., 18 luglio 1987, n. 6325; Cass., 20 maggio 1986, n. 3353; Cass., 16 giugno 1984, n. 3609).

Pertanto un evento dannoso è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cd. teoria della condicio sine qua non): ma nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento causante non appaiono del tutte inverosimili (cd. teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, la quale in realtà, come è stato esattamente osservato, oltre che una teoria causale, è anche una teoria dell'imputazione del danno).

 

 

4.2. Ribadito, quindi, che ai fini del sorgere dell'obbligazione di risarcimento, il nesso di causalità fra fatto illecito ed evento, può essere anche indiretto e mediato (Cass., n. 65/1989, cit.), la sentenza impugnata correttamente ha ritenuto, sulla base delle risultanze delle due consulenze tecniche d'ufficio, che per effetto del trattamento imperito, imprudente e negligente (mancata diagnosi di una paradontite, mancata applicazione di apparecchiature di contenzione per permettere ai denti mobilizzati di consolidarsi, mancata interruzione della cura ai primi accenni di mobilità dentaria) del V. e del C., che non erano neppure legittimati all'esercizio della professione odontoiatrica, l'attrice ebbe conseguenze dannose costituite sostanzialmente nell'aggravarsi del processo patologico già in atto, con anticipazione ed accelerazione dell'espulsione dei denti.
5. Il ricorrente lamenta, altresì, che la sentenza impugnata ha ritenuto che la prescrizione del diritto al risarcimento del danno decorresse dalla data in cui F. si rese conto dell'esito negativo delle cure ortodontiche ricevute e cioè dal 1983, mentre detta prescrizione doveva decorrere, a norma dell'art. 2947 c.c., dalla data del fatto assunto illecito e cioè dal 1980, con l'effetto che nella fattispecie sarebbe maturata la prescrizione, ritenuta, invece, interrotta dalla sentenza impugnata in conseguenza della costituzione in mora, avvenuta con lettera del 1986.

 

 

6.1. Ritiene questa Corte che la censura è infondata.
È vero che l'art. 2947, comma 1, c.c. statuisce che "il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito, si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato", per cui esaminando atomisticamente detta norma sembrerebbe che il dies a quo della prescrizione decorre dalla data del fatto.
Sennonché detta norma (che stabilisce la prescrizione del diritto al risarcimento del danno aquiliano) va letta nel sistema in cui si pone e cioè va coordinata con le norme cardini della responsabilità aquiliana ( art. 2043 c.c.) e della decorrenza della prescrizione in generale (art. 2935 c.c.).
L'art. 2043 c.c. statuisce che "qualunque fatto, doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno".
In altri termini, come è assolutamente pacifico, il diritto al risarcimento del danno sorge non per effetto della sola esistenza del fatto illecito, e quindi della condotta (commissiva o omissiva) dell'agente, ma per l'effetto del danno che questa condotta ha causato.
6.2. Nel danno patrimoniale tipico, previsto dall'art. 2043 c.c., vi sono, quindi, più componenti: il "comportamento", ovvero l'atto in sé riconducibile alla volontà dell'agente, "l'evento naturalistico" legato da un nesso causale al comportamento, e "le conseguenze dannose patrimoniali", in senso proprio, a loro volta connesse con l'evento.
Sono proprio queste conseguenze dannose che vanno risarcite a norma dell'art. 2043 c.c. Pertanto nella struttura della responsabilità civile, quale delineata dall'art. 2043 c.c., non c'è
risarcimento se non c'è perdita e, perché ci sia perdita, occorre che essa sia conseguenza di una lesione giuridica soggettiva (Corte Cost. 27 ottobre 1994, n. 372).
6.3. Lo stesso danno biologico, che è ritenuto non un danno-conseguenza, ma un danno-evento, inteso come lesione del bene salute, costituzionalmente garantito (Corte Cost. 14 luglio 1986, n. 184), ed a cui si applica solo per analogia iuris l'art. 2043 c.c., in quanto si prescinde dalla perdita (conseguenza) di tipo patrimoniale, richiede pur sempre che vi sia l'evento della menomazione della salute (C. Cost. 22 giugno 1990, n. 307).

Ne consegue che se non vi è danno patrimoniale (= perdita patrimoniale conseguenza della lesione di una posizione giuridica) o biologico (menomazione del bene salute) non vi è diritto al risarcimento, per il solo fatto che sia stato compiuto un fatto illecito.

 

 

6.4. Senza entrare nel merito della questione dibattuta in dottrina se la prescrizione attenga all'azione o al diritto, che può essere fatto valere con l'azione, va osservato che l'art. 2935 c.c. statuisce che "la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere". Ne consegue che: se non c'è (ancora) il danno, non c'è (ancora) il diritto al risarcimento e, consequenzialmente non decorre alcuna prescrizione, anche se l'agente abbia già compiuto il fatto illecito.
Pertanto, allorché la norma di cui all'art. 2947 c.c. statuisce che il termine prescrizionale di anni cinque decorre dalla data del fatto, essa va intesa nel senso che detta prescrizione decorre dalla data del danno, per il necessario coordinamento con gli artt. 2043 e 2935 c.c., salve le specificazioni che si effettueranno in seguito.
Solo in questa maniera si evita l'assurdo per cui se tra il fatto ed il danno intercorre un periodo superiore ai cinque anni, il danneggiato in effetti sarebbe privo di tutela, in quanto, prima del danno non avrebbe diritto a risarcimento, proprio per l'assenza del danno, nonostante il fatto illecito, e dopo l'insorgenza del danno, egli si troverebbe con il diritto al risarcimento già estinto per prescrizione.

 

 

6.5. In effetti la norma di cui all'art. 2947 c.c. non riveste carattere di specialità, e non ha quindi efficacia prevalente e derogatoria rispetto a quella di cui all'art. 2935 c.c.: le due disposizioni si collocano infatti su diversi piani di operatività giuridica, in quanto la prima attiene alla determinazione del termine prescrizionale applicabile a una delle tante specifiche ipotesi che il legislatore ha assoggettato a prescrizione più breve rispetto a quella ordinaria decennale, mentre l'altra disciplina la decorrenza della prescrizione con riferimento a qualsivoglia termine applicabile, escludendone il periodo durante il quale non sia possibile far valere il diritto, onde fra l'una e l'altra non può configurarsi un conflitto che possa essere risolto in termini di prevalente specialità.
7.1. Ricollegato quindi, il dies a quo della decorrenza della prescrizione, anche ai sensi dell'art. 2947 c.c., al momento in cui il diritto al risarcimento può essere esercitato, e cioè al momento in cui si è verificato il danno (patrimoniale o biologico nei sensi sopra detti), va specificato cosa si intenda per il "verificarsi del danno". Come è stato già osservato da questa Corte (Cass., 5 luglio 1989, n. 3206; Cass., 4 gennaio 1993, n. 13; Cass., 12 agosto 1995, n. 8845) la legge riconnette il sorgere di una responsabilità extracontrattuale ad una modificazione dannosa della realtà esteriore in rapporto di causalità con l'azione del danneggiante e che si renda causa, quale conseguenza immediata e diretta, di una diminuzione della sfera patrimoniale altrui o integri una menomazione del bene salute.
Non è quindi sufficiente una semplice oggettiva realizzazione del danno, ma è necessaria una sua esteriorizzazione, conoscibilità ed acquisto di rilevanza giuridica, momento questo cui l'ordinamento ricollega la nascita del diritto al risarcimento e quindi la facoltà di esercitare i poteri connessi.
Diverse, poi, possono essere le conseguenze del comportamento illecito, a seconda che questo perduri nel tempo o si esaurisca in un solo atto, con conseguenze che possono essere temporanee o permanenti.
In ogni caso è la manifestazione del danno che assume rilievo, e non solo la sua ontologica esistenza, iniziandosi soltanto con essa la lesione delle sfera giuridica altrui (Cass., n. 1716/1979; Cass., n. 1442/1983).
7.2. Va subito specificato che detto principio va coordinato con quello secondo cui la semplice ignoranza del proprio diritto non preclude il decorso della prescrizione né l'interrompe (Cass., 13 giugno 1975, n. 2406).
Conseguentemente non sarà la semplice ignoranza del danneggiato sull'esistenza di un danno da lui subito a precludere il decorso della prescrizione, in quanto gli stati di ignoranza soggettiva in cui versi il titolare del diritto costituiscono un mero impedimento di fatto.

Ciò che impedisce che inizi a decorrere la prescrizione è l'oggettiva impercepibilità e riconoscibilità all'esterno del danno e cioè l'oggettiva sua esteriorizzazione.

 

 

Conseguentemente, e per quello che qui interessa, l'art. 2947 c.c., coordinato con gli artt. 2043 e 2935 c.c., va interpretato nel senso che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito inizia a decorrere non dal momento in cui l'agente compie il fatto illecito o dal momento in cui il fatto del terzo determina ontologicamente il danno all'altrui diritto, ma dal momento in cui la produzione del danno si manifesta all'esterno, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile.
8. Nella fattispecie la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi, osservando, con valutazione in fatto, incensurabile in questa sede se non nei ristretti limiti del sindacato di legittimità sul vizio motivazionale, che solo a seguito della caduta del primo dente, nel 1983, fu possibile rendersi conto della negatività delle cure ortodontiche ricevute dalla F. da parte del C. e degli altri.
8. Il ricorso va, pertanto, rigettato.
Il rigetto del ricorso comporta l'assorbimento del ricorso incidentale condizionato, proposto dalla F..
Il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali sostenute dalla ricorrente e liquidate come in dispositivo.

 

 

P.Q.M.

 

Riunisce i ricorsi. Rigetta il ricorso principale, assorbito l'incidentale.

 

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese sostenute dalla ricorrente per questo giudizio di legittimità, liquidate in L. 325.500, oltre lire duemilionicinquecentomila per onorario.

Così deciso in Roma il 28 gennaio 2000.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IN DATA 9 MAGGIO 2000.