Cass. Civ. Sez. III, 19.05.1999, n. 4852



Sentenza

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

 

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. Manfredo GROSSI Presidente Dott. Vittorio DUVA Consigliere

 

 

Dott. Ernesto LUPO Consigliere
Dott. Vincenzo SALLUZZO Consigliere
Dott. Antonio SEGRETO Rel. Consigliere

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA
sul ricorso proposto da:

 

GENERALI ASSIC SPA, in persona dei suoi legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA CICERONE 49, presso lo studio dell'avvocato ANTONIO BERNARDINI, che la difende, giusta delega in atti;

 

ricorrente
contro

 

M. M. R., elettivamente domiciliata in ROMA VLE MAZZINI 88, presso lo studio dell'avvocato GIORGIO BARBERIS, che la difende, giusta delega in atti;

 

controricorrente
nonché contro

 

P. M. G. e L. A. entrambi in proprio e quali esercenti la potestà sulla minore L. V., elettivamente domiciliati in ROMA VLE DEGLI AMMIRAGLI 14, presso lo studio dell'avvocato RAFFAELE CARDILLI, che li difende, giusta delega in atti;

 

controricorrenti
nonché contro

 

RAS SPA, corrente in Milano, in persona dei suoi legali rappresentanti, elettivamente domiciliata in ROMA VIA PANAMA 88, presso lo studio dell'avvocato GIORGIO SPADAFORA, che la difende, giusta delega in atti;

 

controricorrente
nonché contro

 

V. S. SRL, C.M., A. E., C. U.;

 

intimati
e sul 2° ricorso n~ 10274/98 proposto da:

 

A. E., elettivamente domiciliata in ROMA VIA DI PORTA PINCIANA 6, presso lo studio dell'avvocato BARONE CARLO MARIA, che la difende, giusta delega in atti;

 

controricorrente e ricorrente incidentale

contro

 

GENERALI ASSIC SPA, in persona dei suoi legali rappresentanti, elettivamente domiciliata in ROMA VIA CICERONE 49, presso lo studio dell'avvocato ANTONIO BERNARDINI, che la difende, giusta delega in atti;

 

controricorrente al ricorso incidentale
nonché contro

 

P. G. M. e L. A. entrambi in proprio e quali esercenti la potestà sulla minore L. V., elettivamente domiciliati in ROMA VLE DEGLI AMMIRAGLI 14, presso lo studio dell'avvocato RAFFAELE CARDILLI, che li difende, giusta delega in atti;

controricorrenti al ricorso incidentale

nonché contro

 

RAS SPA, VILLA S. SRL, C. M., M. M. R., C. U.;

intimati

e sul 3° ricorso n~ 12212/98 proposto da:

 

V. S. SRL, con sede in Roma, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA CADLOLO 118, presso lo studio dell'avvocato NICOLÒ LIPARI, che la difende anche disgiuntamente all'avvocato VINCENZO CUFFARO, giusta delega in atti;

controricorrente e ricorrente incidentale

contro

 

P. M. G. e L. A. entrambi in proprio e quali esercenti la potestà sulla minore L. V., elettivamente domiciliati in ROMA VLE DEGLI AMMIRAGLI 14, presso lo studio dell'avvocato RAFFAELE CARDILLI, che li difende, giusta delega in atti;

controricorrenti e ricorrenti incidentali

nonché contro

 

A. E., GENERALI ASSIC SPA, P. G. M. IN PR NQ ESERCENTE, L. A. IN PR NQ ESERCENTE POT, L. V., M. M. R., C. U., RAS SPA;

intimati

avverso la sentenza n. 593/98 della Corte d'Appello di ROMA, emessa il 19/12/97 e depositata il 03/03/98 (R.G. 647/96);

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/02/99 dal Consigliere Dott. Antonio SEGRETO;

udito l'Avvocato Antonio BERNARDINI; udito l'Avvocato Nicolò LIPARI;

udito l'Avvocato Carlo Maria BARONE; udito l'Avvocato Raffaele CARDILLI; udito l'Avvocato Giorgio BARBERIS; udito l'Avvocato Giorgio SPADAFORA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Libertino Alberto RUSSO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

 

 

Con atto di citazione notificato l'11.12.1991 M. G. P. ed A. L., in proprio e nella qualità di esercenti la patria potestà sulla figlia minore V., premesso che nell'anno 1988 essa P., in stato di gravidanza

era assistita dalla ginecologa E. A.; che il 26.12.1988 era stata ricoverata presso la casa di cura Villa S., ove nasceva la figlia V., con l'assistenza della predetta ginecologa - ostetrica; che la neonata, ricoverata sino al 28.1.1989 era stata poi dimessa con la diagnosi di "grave sofferenza perinatale con danno cerebrale", riconducibile, ad avviso degli attori, ad errori dei sanitari ed a carenza di attrezzature e dei servizi sanitari forniti dalla casa di cura, convenivano davanti al tribunale di Roma la s.r.l. Villa S. ed i sanitari E. A., M. R. M., A. M. C. ed U. C. per sentire dichiarare la responsabilità delle parti convenute in ordine ai fatti lamentati ed alle conseguenze dannose derivate agli attori in proprio e nella qualità, con condanna degli stessi convenuti al risarcimento dei danni.

 

 

La s.r.l. Villa S. chiamava in garanzia la s.p.a. Generali Assicurazioni, mentre la A.chiamava in garanzia la s.p.a. RAS.
Il Tribunale di Roma, con sentenza depositata il 18.5.1995 condannava la convenuta A. al pagamento in favore degli attori, in proprio e nella qualità, della somma di L. 1.183.716.540, oltre interessi legali, nonché a rimborsare agli attori le spese processuali pari a L. 12.600.000; rigettava la domanda proposta dagli attori nei confronti di Villa S., M., C. e C.; rigettava la domanda proposta da A. nei confronti della RAS, mentre dichiarava assorbita la domanda proposta da Villa Salaria nei confronti di generali Assicurazioni.
Proponevano appello gli attori P. e L., in proprio e nella qualità; proponevano appello incidentale E. A..

La Corte di appello di Roma, con sentenza depositata il 18.5.1998, condannava E. A. e la s.r.l. Villa Salaria in solido al pagamento agli attori P. e L., in proprio e nella qualità di legali rappresentanti della figlia minore V., della complessiva somma di L. 2.385.216.540, oltre gli interessi legali, nonché al rimborso delle spese di primo grado liquidate in L. 52.600.000 e di quelle di secondo grado; condannava la Assicurazioni Generali a rimborsare alla s.r.l. Villa Salaria ogni somma da pagarsi in esecuzione della sentenza. Rigettava l'appello incidentale della A. e confermava la sentenza del tribunale nei confronti di M., C., C. e la s.p.a. RAS.

Riteneva la corte di appello che il grave danno cerebrale da cui era affetta la minore V., tetraparetica, e comportante un danno biologico pari al 100%, era da ascriversi ad asfissia perinatale.
Ciò era dovuto ad un travaglio eccessivamente lungo (circa 11 ore) della partoriente P. per una ipotonia uterina secondaria insorta durante la fase di massima attività del periodo dilatante.
Tale situazione avrebbe dovuto essere affrontata dalla ostetrica dr.ssa A. che assisteva la partoriente con una perfusione ossidocica almeno tre ore prima di quanto venne posta in essere.
Inoltre la perfusione fu posta in essere quando il feto era già stressato, per cui era opportuno invece di insistere nel parto per via naturale, praticare il parto cesareo.
Riteneva la corte di appello che la responsabilità della dr.ssa A. andava valutata a norma dell'art. 1176, c2° c.c. e non a norma dell'art. 2236 c.c., in quanto il rimprovero da muoversi alla stessa era proprio quello di aver portato la partoriente in una complicanza finale, nella quale fu necessario applicare la "ventosa" (vacuum extractor), che durante l'uso si ruppe, mentre il lungo periodo di travaglio postulava il taglio cesareo, prima che il feto impegnasse profondamente il canale del parto, tenuto conto che la bassa statura della partoriente (m. 1.50) primipara sconsigliava il parto per via naturale, e che l'uso della ventosa comportava un ulteriore ritardo per reperire altra ginecologa (dr.ssa Maturi ed un anestesista (dr. C.).
Quanto alla responsabilità della Villa S. s.r.l., riteneva la corte di merito, premesso che la prestazione cui essa era tenuta comprendeva l'apprestamento degli strumenti sanitari e di assistenza medica, che essa si fondava sull'inefficienza della ventosa, la cui maniglia si era rotta durante l'uso e, soprattutto, sull'inefficienza dell'assistenza postnatale, in quanto, se il feto fosse stato sottoposto a rianimazione adeguata, vi erano buone possibilità di recupero, mentre il feto non fu intubato per rottura dello strumento e solo dopo tre ore fu trasferito in una struttura pubblica.
Quanto alla liquidazione dei danni in favore della minore V. L., la sentenza impugnata, riformando la sentenza di primo grado, liquidava a titolo di danno biologico alla minore la somma di L. 1.150.000.000, applicando la tabella del valore dei punti di invalidità adottata dal Tribunale di

Milano a soggetto di anni 0 con il 100% di invalidità, nonché liquidava il danno morale in L. 400 milioni; confermava la liquidazione del danno emergente costituito dalla spesa di assistenza alla minore a decorrere dal 26° anno di vita, pari a L. 263.880.540 e la liquidazione del danno patrimoniale da invalidità permanente, pari a L. 148.836.000.

Quanto al danno subito dagli attori genitori, la sentenza di appello liquidava, in riforma della sentenza di primo grado, L. 100 milioni per ciascun genitore a titolo di danno morale ed aumentava da L. 51 milioni a L. 72 milioni il danno per spese documentate da questi sostenute fino alla sentenza di primo grado, mentre confermava la liquidazione pari a L. 150 milioni del danno per assistenza e cura delle figlia minore fino al 26° anno di età. Le predette somme venivano liquidate con riferimento alla data della decisione e sulle stesse era disposta la corresponsione degli interessi legali dalla data del fatto, con la sola esclusione delle somme relative alle spese future.

Inoltre la sentenza impugnata aumentava a L. 52 milioni le spese processuali sostenute dagli attori per il primo grado e poste a carico in solido della A. e di Villa Salaria.
Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione la s.p.a. Assicurazioni Generali. Resistevano con controricorso P. M. G. e L. A., in proprio e quale legale rappresentante della figlia minore L. V., M.i M. R., la s.p.a. RAS, nonché E. A. e la s.r.l. Villa S.; queste ultime due presentavano anche ricorsi incidentali.
L'Assicurazioni Generali resisteva con controricorso al ricorso incidentale della A.. Hanno presentato memorie: A., Villa S. s.r.l., L. e P..

 Motivi della decisione

1. Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi.

Sempre preliminarmente va dichiarata l'inammissibilità del controricorso e della memoria di L. (*) e P., poiché la procura a resistere al ricorso per Cassazione è stata rilasciata in calce al ricorso loro notificato.

Infatti la procura a resistere al ricorso per cassazione, rilasciata in calce o a margine della copia del ricorso notificato e solo genericamente richiamata nell'epigrafe del controricorso (ma nello stesso non trascritta) rende quest'ultimo inammissibile, per difetto di prova del rilascio in epoca anteriore o coeva alla sua notificazione, e pur restando valida ai fini della costituzione in giudizio del resistente e della partecipazione del difensore alla discussione (costituendo pur sempre una procura speciale), non consente la presentazione di memorie ex art. 378 c.p.c. (Cass. 25.11.1996, n. 10441).
Inoltre va rigettata l'eccezione sollevata da P. e L. nella discussione orale di nullità ed inammissibilità del ricorso principale per essere lo stesso stato notificato in proprio e non anche quali legali rappresentanti della figlia minore.
A parte il rilievo che ciò non dà luogo a nullità o inammissibilità del ricorso, ma eventualmente ad una necessità di integrazione del contraddittorio, poiché detti resistenti si sono costituiti in questo giudizio di legittimità non solo in proprio, ma anche quali legali rappresentanti della figlia minore, il rapporto processuale è stato regolarizzato, per effetto di detta costituzione, tra gli effettivi contraddittori legittimi (vedasi Cass. 15.7.1985, n. 4147).
2.1. Per necessità di trattazione, va anzitutto esaminato il primo motivo del ricorso incidentale di E. A., con cui la stessa lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 61, 62, 112, 191, 194, 345, 356, c.p.c. in relazione all'art. 360. N. 3 e 5 c.p.c., nonché il vizio di motivazione su punti decisivi della controversia.
Assume la ricorrente che erroneamente non sia stata accolta la sua richiesta di rinnovazione della consulenza tecnica d'ufficio e non sia stata motivato detto mancato accoglimento, nonostante le censure mosse a detta consulenza, anche sulla base della consulenza di parte. 2.2. Osserva questa corte che in linea di principio comunemente si osserva che rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione dell'opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative di quelle già espletate, di sentire a chiarimenti il consulente di ufficio ovvero di disporre addirittura la rinnovazione della consulenza, e l'esercizio di tale potere (così come il mancato esercizio) non è censurabile in sede di legittimità (Cass. 10.6.1998, n. 5777). Tuttavia, qualora con i motivi di appello vengano formulati specifici rilievi tecnici alla sentenza di primo grado, nella parte in cui si è uniformata alla consulenza espletata in quel grado, e si sollecita una più approfondita indagine tecnica, il giudice è tenuto a motivare la sua scelta negativa (Cass. 6.5.1998, n. 4577).

Ritiene questa Corte che detto orientamento necessiti di alcune precisazioni.

I risultati dell'indagine tecnica, che il giudice commette al consulente, quando ritiene necessario avvalersene, hanno la normale funzione di integrare le conoscenze necessarie all'esercizio di valutazione delle prove.
La giurisprudenza di questa Corte enuncia perciò costantemente il principio per cui la consulenza tecnica non è normalmente un mezzo di prova, ma uno strumento di valutazione dei dati già acquisiti al processo attraverso le prove che le parti hanno l'onere di fornire.
Vi sono però situazioni in cui, rispetto agli elementi di fatto che concorrono a costituire le ragioni della domanda, il momento logico dell'acquisizione dei dati storici al processo si presenta compenetrato con quello valutativo, nel senso che i dati storici non possono essere rilevati in modo significativo se non con l'ausilio di particolari competenze tecniche.
In questi casi la necessità per il giudice di farsi assistere dal consulente tecnico si estende all'acclaramento dei fatti.
Qui la parte cui spetta l'onere di provare ha l'onere di domandare al giudice che faccia uso del potere di nominare consulenti tecnici e, come in ogni caso in cui il giudice abbia un potere e venga sollecitato ad un suo esercizio, il modo in cui decide di utilizzarlo non si sottrae al sindacato, il quale può essere esercitato in sede di legittimità, secondo un modulo congruente allo schema della norma che il giudice avrebbe dovuto applicare.

Sennonché, senza entrare nella vexata quaetio se in questo caso la consulenza costituisca mezzo di prova (in questo senso Cass. 4.3.1995, n. 2514; Cass. 22.1.1985, n. 250), va in ogni caso rilevato che essa, in relazione al momento valutativo sotto il profilo tecnico dei fatti, per quanto acquisiti con l'ausilio di cognizioni tecniche, non costituisce mezzo di prova, proprio perché attiene non all'acquisizione di un dato storico, ma alla valutazione dello stesso.

Da ciò consegue che, allorché si richiede la rinnovazione di una consulenza tecnica in grado di appello, non perché si contestino i dati tecnico - storici, acquisiti dai consulenti di primo grado, ma perché si censurano le valutazioni degli stessi da parte dei consulenti, fatte proprie dal giudice di primo grado, da una parte non si versa nell'ipotesi di richiesta di "mezzo di prova", con i conseguenti limiti di cui all'art. 345 c.p.c. (in parte esistenti anche nella precedente formulazione) e dall'altra non sorge per il giudice un obbligo di motivare il diniego, ma solo un obbligo di rispondere alle censure tecnico - valutative fatte dalla parte impugnante alle valutazioni di eguale natura della sentenza impugnata (anche se facendo proprie le conclusioni del consulente).
Se il giudice di appello ritiene di essere in grado di rispondere a dette censure, senza la necessità di rinnovare la consulenza tecnica, l'omesso espresso diniego della richiesta di rinnovazione non si risolve - come ritenuto dalla ricorrente incidentale - in un'omissione di pronunzia ai sensi dell'art. 112 c.p.c. (che, peraltro, non può mai investire la mancata ammissione di un mezzo di prova, ma solo una domanda, Cass. 11.3.1995, n. 2859), ma va solo valutata l'eventuale esistenza del vizio motivazionale, ove sussistente nei termini rilevanti in sede di sindacato di legittimità, in relazione alle risposte fornite dalla sentenza alle censure tecniche effettuate nei confronti della sentenza impugnata.
2.3. Nella fattispecie la sentenza impugnata, pur non disponendo la rinnovazione della consulenza tecnica d'ufficio, ha risposto alle censure mosse dall'appellante A. alla valutazione degli eventi effettuata dal primo giudice, pure facendosi carico delle censure alle conclusioni dei c.t.u., mosse dai consulenti di parte (pag. 24 e 25 sentenza).
La questione se detta motivazione sia corretta o meno, nei termini rilevanti in sede di legittimità, non attiene più alla mancata rinnovazione della consulenza di ufficio, bensì alla congruenza della motivazione della sentenza nella ricostruzione dei fatti e, quindi, delle responsabilità, a fronte delle censure mosse, ma ciò costituisce oggetto dei successivi motivi di ricorso.

Ne consegue che il primo motivo di ricorso della A. va rigettato.

 3.1. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente incidentale A. lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 62, 115, 132, 191, 194 c.p.c. 1176, 1218, 1223, 2043, 2236 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., nonché il vizio motivazionale dell'impugnata sentenza. 

Nella fattispecie, infatti, a parere della ricorrente incidentale A., non si trattava di un intervento di routine, ma essendo intervenuto all'improvviso, nel corso di un parto che si presentava assolutamente normale, un arresto della fase espulsiva del feto, allorché questo aveva già raggiunto una posizione in cui non poteva praticarsi il parto cesareo, l'unica attività possibile era l'applicazione della ventosa; che la durata del travaglio non è un elemento per l'indicazione del taglio cesareo, che la somministrazione degli ossitonici è necessaria solo in presenza di sofferenze fetali, che nella fattispecie mancavano; che, conseguentemente, il danno subito dalla neonata era da ascriversi esclusivamente alla difettosità della ventosa ed alle disfunzioni organizzative nella sezione di rianimazione neonatale, ascrivibili esclusivamente alla casa di cura. 
A parere della ricorrente, quindi, la fattispecie non sarebbe regolata dall'art. 1176 c.c., ma dall'art. 2236 cc., vertendosi in caso di particolare difficoltà, con conseguente responsabilità solo per dolo o colpa grave, nella specie mancante, che, in ogni caso, anche vertendosi in ipotesi di cui all'art. 1176 c.c., la responsabilità del medico sussiste solo se questi non ha usato la diligenza dovuta, che, invece, nella fattispecie è stata adottata, mentre mancherebbe una prova contraria.

 3.2. Con il terzo motivo di ricorso, la ricorrente incidentale A. lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1176, 1223, 2043, 2055, 2236 c.c., 112, 115, 116 c.p.c., in relazione agli artt. 40 e 41 c.p. ed all'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., nonché l'omessa motivazione su punti decisivi della controversia. Assume la ricorrente che la mancanza di una ventosa idonea e l'inefficienza dell'assistenza e rianimazione post - natale costituiscono le sole cause dei danni subiti dalla neonata, essendo dotate di causalità efficiente, mentre la scelta di non adottare il parto cesareo, costituisce una semplice occasione. 

3.3. Con il primo motivo del ricorso, la ricorrente incidentale, Villa Salaria, lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 1223 c.c. e dei principi in tema di causalità giuridica; omissione, insufficienza e contraddittorietà della motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.. La censura risulta specularmente opposta a quella mossa dalla ricorrente incidentale A., sostenendosi che, avendo la sentenza impugnata rilevato che la responsabilità della A. consisteva nel non aver adottato il parto cesareo né la perfusione ossidocica, questo comportamento era causa esclusiva del danno ed era privo di rilevanza ogni discorso sulle cause del non funzionamento della ventosa o del reparto di assistenza neonatale.

 3.4. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente principale s.p.a. Assicurazioni Generali lamenta la contraddittorietà, insufficienza e la carena di motivazione, in quanto, poiché è pacifico che il danno cerebrale è stato causato alla neonata V. dalla sofferenza fetale, imputabile alla A., è contraddittorio attribuire alla casa di cura Villa Salaria, assicurata, la concorrente responsabilità del fatto dannoso, tenuto conto che il comportamento negligente della A. era motivo unico o assorbente del danno subito dalla neonata. Il danno, quando si fece ricorso alla ventosa, si era già realizzato e qualsiasi terapia di rianimazione non avrebbe esito positivo. 

4.1. I suddetti motivi, essendo strettamente connessi, vanno trattati congiuntamente. 
La soluzione della questione passa attraverso l'esame sintetico dei veri nodi della responsabilità del medico e cioé il grado della colpa e la ripartizione dell'onere probatorio. 
Si è sottolineato che sotto il profilo sistematico le norme sulla diligenza ( art. 1176 c.c.) sono previste per tutti i tipi di obbligazioni e non autorizzano ad individuare materie distinte, per cui il concetto di colpa è unitario. 
Dottrina e giurisprudenza tendono, quindi, a ritenere che detto concetto sia quello previsto dall'art. 1176 c.c., che impone di valutare la colpa con riguardo alla natura dell'attività esercitata. 
Pertanto la responsabilità del medico per i danni causati al paziente postula la violazione dei doveri inerenti al suo svolgimento, tra i quali quello della diligenza, che va a sua volta valutato con riguardo alla natura dell'attività e che in rapporto alla professione di medico chirurgo implica scrupolosa attenzione ed adeguata preparazione professionale (Cass. 12.8.1995, n. 8845).

 Infatti il medico - chirurgo nell'adempimento delle obbligazioni inerenti alla propria attività professionale è tenuto ad una diligenza che non è solo quella del buon padre di famiglia, come richiesto dall'art. 1176, c. 1°, ma è quella specifica del debitore qualificato, come indicato dall'art. 1176, c. 2°, la quale comporta il rispetto di tutte le regole e gli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica.

Il richiamo alla diligenza ha, in questi casi, la funzione di ricondurre la responsabilità alla violazione di obblighi specifici derivanti da regole disciplinari precise. In altri termini sta a significare applicazione di regole tecniche all'esecuzione dell'obbligo, e quindi diventa un criterio oggettivo e generale e non soggettivo.
Ciò comporta, come è stato rilevato dalla dottrina, che la diligenza assume nella fattispecie un duplice significato: parametro di imputazione del mancato adempimento e criterio di determinazione del contenuto dell'obbligazione.
4.2. Nella diligenza è quindi compresa anche la perizia da intendersi come conoscenza ed attuazione delle regole tecniche proprie di una determinata arte e professione.
Comunemente si dice che trattasi di una diligentia in abstracto, ma ciò solo per escludere che trattisi di diligentia quam in suis, e cioé la diligenza che normalmente adotta quel determinato debitore. Per il resto il grado di diligenza, per quanto in termini astratti ed oggettivi, deve essere apprezzato in relazione alle circostanze concrete e tra queste, quanto alla responsabilità professionale del medico, rientrano anche le dotazioni della struttura ospedaliera in cui lo stesso opera.

 In relazione a dette strutture tecniche va valutata la diligenza e quindi la perizia che al medico devono richiedersi, delle quali è anche espressione la scelta di effettuare in sede solo gli interventi che possono essere ivi eseguiti, disponendo per il resto il trasferimento del paziente in altra sede, ove ciò sia tecnicamente possibile e non esponga il paziente stesso a più gravi inconvenienti.

5. A norma dell'art. 2236 c.c., applicabile anche ai medici, qualora la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera risponde dei danni solo in caso di dolo o colpa grave. 
Va altresì rilevato che la limitazione di responsabilità professionale del medico - chirurgo ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell'art. 2236 c.c., attiene esclusivamente alla perizia, per la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, con esclusione dell'imprudenza e della negligenza. 
Infatti, anche nei casi di speciale difficoltà, tale limitazione non sussiste con riferimento ai danni causati per negligenza o imprudenza, dei quali il medico risponde in ogni caso (Cass. 18.11.1997, n. 11440; Corte Cost. 22.11.1973, n. 166). 
Pertanto il professionista risponde anche per colpa lieve quando per omissione di diligenza ed inadeguata preparazione provochi un danno nell'esecuzione di un intervento operatorio o di una terapia medica. 
In altri termini la limitazione della responsabilità del medico alle sole ipotesi di dolo o colpa grave si applica unicamente ai casi che trascendono la preparazione media (Cass. 11.4.1995, n. 4152), ovvero perché la particolare complessità discende dal fatto che il caso non è stato ancora studiato a sufficienza, o non è stato ancora dibattuto con riferimento ai metodi da adottare (Cass. 12.8.1995, n. 8845). 
6. Quanto alla ripartizione dell'onere probatorio, la giurisprudenza considera unitariamente, a tali fini, l'attività sanitaria come prestazione di mezzi, senza più farsi carico della natura della responsabilità del medico. Essa ritiene che incombe al professionista, che invoca il più ristretto grado di colpa di cui all'art. 2236 c.c., provare che la prestazione implicava la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, mentre incombe al paziente danneggiato provare quali siano state le modalità di esecuzione ritenute inidonee (Cass. 4.2.1998, n. 1127; Cass. 3.12.1974, n. 3957).

 Invece incombe al paziente l'onere di provare che l'intervento era di facile o routinaria esecuzione ed in tal caso il professionista ha l'onere di provare, al fine di andare esente da responsabilità, che l'insuccesso dell'operazione non è dipeso da un difetto di diligenza propria (Cass. 30.5.1996, n. 5005; Cass. 18.11.1997, n. 11440; Cass. 11.4.1995, n. 4152).

 Nel caso di intervento di facile esecuzione, non si verifica un passaggio da obbligazione di mezzi in obbligazione di risultato, che sarebbe difficile dogmaticamente da giustificare a meno di negare la stessa distinzione tra i due tipi di obbligazioni (come pure fa gran parte della recente dottrina), ma opera il principio res ipsa loquitur, ampiamente applicato in materia negli ordinamenti anglosassoni (dove la responsabilità del medico è sempre di natura aquiliana), inteso come "quell'evidenza circostanziale che crea una deduzione di negligenza".

7. Nella fattispecie la sentenza impugnata, facendo corretta applicazione dei suddetti principi ha rilevato che la diligenza cui era tenuta la A. non era quella di cui all'art. 2236 c.c., non vertendosi in caso di particolare difficoltà, bensì quella di cui all'art. 1176 c., 2°, c.c.. 
Osserva, infatti, la sentenza impugnata con motivazione immune da censure in questa sede di legittimità, che, anche a condividere le conclusioni dei c.t. di parte, secondo cui la complicanza finale, intervenuta allorché il feto era impegnato nel canale del parto, imponeva una scelta tecnica di particolare difficoltà, il rimprovero da muovere alla ginecologa era proprio quello di aver condotto la partoriente a tale complicanza finale, a tal punto, cioé da rendere obbligata la scelta dell'applicazione della ventosa, mentre il lungo protrarsi del travaglio, di circa 11 ore, comportava che fosse praticato il parto cesareo, prima che la situazione divenisse irreversibile.

 Inoltre la scelta della ventosa comportava un ulteriore ritardo di circa un'ora per avere la presenza di altra ginecologa e dell'anestesista. 

Ulteriore elemento di colpa viene, con congrua motivazione, individuato dalla sentenza impugnata nell'indugio nel disporre le perfusioni ossitociche per aumentare l'entità delle contrazioni uterine, in una situazione di dilatazione anomala, mentre queste furono effettuate solo alle ore 16,30 e cioé dopo ore 9,30 di travaglio. 
Quanto alla responsabilità della casa di cura Villa Salaria, la stessa è stata individuata dalla sentenza impugnata, sulla base delle conclusioni dei c.t.u. nell'inefficienza della ventosa (la cui maniglia si distaccò durante l'uso) e nella mancata idonea assistenza postnatale, non essendo stata effettuata l'intubazione, per mancanza di uno dei pezzi di raccordo, né terapie di rianimazione adeguate ed essendo stato effettuato il trasferimento presso una struttura pubblica solo dopo tre ore, mentre una terapia di rianimazione adeguata avrebbe dato buone probabilità di recupero secondo la valutazione del giudice di merito fondata sulle conclusioni dei c.t.u.. 
Trattasi di ricostruzione delle modalità dei fatti e di valutazione degli stessi che rientrano nei compiti del giudice di merito e che sono adeguatamente motivate. 
8. Quanto alle censure di segno opposto dei vari ricorrenti, relative alla violazione dell'art. 1223 c.c., in tema di nesso di causalità, ed al vizio motivazionale in merito, sostenendosi da una parte che il comportamento della A. era da solo causa efficiente dei danni in questione e dall'altra che detta causa esclusiva era da ricercarsi nelle inefficienze della casa di cura, ritiene questa Corte che dette censure sono infondate. 
Infatti, a parte la dibattuta questione se la norma di cui all'art. 1223 c.c. regoli il nesso di causalità giuridica, mentre il nesso di causalità materiale sia regolato esclusivamente dai principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., con conseguente distinzione tra causalità di fatto (contenuta nella struttura dell'illecito ed avente come referenti le predette norme penali) e causalità giuridica (contenuta nella struttura della valutazione del danno, di cui agli artt. 2056 - 1223 - c.c.), sta di fatto che per giurisprudenza pacifica il criterio in base al quale sono risarcibili i danni conseguiti dal fatto illecito (o dall'inadempimento in tema di responsabilità contrattuale), deve intendersi, ai fini della sussistenza del nesso di causalità, in modo da comprendere nel risarcimento anche i danni indiretti e mediati, che si presentino come effetto normale, secondo il principio della c.d. regolarità causale (Cass. 6.3.1997, n. 2009; Cass. 10.11.1993, n. 11087; Cass. 11.1.1989, n. 65; Cass. 18.7.1987, n. 6325; Cass. 20.5.1986, n. 3353; Cass. 16.6.1984, n. 3609). 
Tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un evento dannoso non si sarebbe verificato debbono considerarsi sue cause, abbiano essi agito in via diretta o prossima, od indiretta o remota, salvo il temperamento di cui al capoverso dell'art. 41 c.p., secondo cui la causa prossima sufficiente da sola a produrre l'evento esclude il nesso eziologico fra questo e le altre cause antecedenti, facendole scadere al rango di mere occasioni: pertanto per escludere che un determinato fatto abbia concorso a cagionare un danno, non basta affermare che il danno stesso avrebbe potuto verificarsi anche in assenza di quel fatto, ma occorre dimostrare, avendo riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, che il danno si sarebbe egualmente verificato senza quell'antecedente.

Affermato, quindi, che un evento dannoso è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cd. Teoria della condicio sine qua non), va, altresì, rilevato che non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento causante non appaiono del tutto inverosimili (cd.Teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, la quale in realtà, come è stato esattamente osservato, oltre che una teoria causale, è anche una teoria dell'imputazione del danno). 9. Nella fattispecie la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di detti principi, ritenendo che entrambi i comportamenti (della A. e della casa di cura) potessero essere cause efficienti dei danni prodotti.

La ritenuto sussistenza nel caso concreto di detto concorso di cause é una valutazione di merito che è incensurabile in questa sede di legittimità, essendo sostenuta da adeguata motivazione.

 Infatti non può ritenersi contraddittoria la motivazione dell'impugnata sentenza che ha ritenuto sussistenti il concorso di cause nella produzione dell'evento, dopo aver ritenuto che era colposo tanto il comportamento della A. che quello della casa di cura nei termini suddetti e che in mancanza di uno di essi l'evento dannoso non si sarebbe verificato.

In particolare non può ritenersi che le disfunzioni ascritte alla casa di cura costituiscano mere occasioni, poiché è tutt'altro che imprevedibile che l'ostetrico nel corso di un parto (per l'evolversi naturale dello stesso o per colpa propria, come ritenuto nella fattispecie) debba far ricorso prima allo strumento della ventosa e poi all'assistenza rianimatoria postnatale, per il recupero di situazioni di danno fisico - cerebrale, in cui possa trovarsi o essere stato posto (per difetto di diligenza del medico) il feto. La sentenza impugnata ha accertato in fatto che se fosse stato efficiente la strumentazione e la sezione di rianimazione e di assistenza neonatale vi sarebbero state buone possibilità di recupero del danno causato dalla mancata diligenza della A. nell'espletamento del parto.
10.1. Con un articolato quarto motivo di ricorso la ricorrente incidentale A. lamenta la violazione degli artt. 1223, 1224, 1226, 2056, 2059 c.c., 112 e 345 c.p.c., in relazione all'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c. nonché l'omessa ed insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia.
Anzitutto, con la prima parte del detto motivo di ricorso, la ricorrente lamenta che è stata condannata al pagamento degli interessi legali sulla somma liquidata all'attualità, mentre detti interessi erano dovuto con riguardo all'importo dovuto al momento dell'evento dannoso, via via rivalutato.
Con il secondo motivo la ricorrente principale (Assicurazioni Generali) nonché la ricorrente incidentale casa di cura Villa Salaria lamentano la violazione degli artt. 2056, 2057 e 1224 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c. per aver liquidato il danno biologico sulla base della tabella adottata dal Tribunale di Milano, già adeguata in base al tasso di inflazione, nella complessiva somma di L. 1.150.000.000 e calcolando su tale somma gli interessi legali, mentre detti interessi andavano calcolati con riferimento ai singoli momenti dell'incremento del capitale; la stessa censura è effettuata con riferimento alla liquidazione del danno morale della neonata ed al danno biologico dei genitori.
10.2. Essendo analoghi detti motivi vanno trattati congiuntamente. Essi sono inammissibili.
Infatti, il principio secondo cui nei debiti di valore gli interessi sulla cifra liquidata a titolo di risarcimento del danno non possono essere calcolati sulla somma rivalutata, ma vanno rapportati all'importo determinato con riguardo al momento di consumazione dell'illecito, via via rivalutato, alla stregua di indici annuali medi di svalutazione (Cass. S.U. 17.2.1995, n. 1712), va coordinato con il principio della devoluzione al giudice dell'impugnazione dell'eventuale violazione di tale sistema di calcolo da parte del giudice di primo grado e dell'inammissibilità di questioni nuove in cassazione.

 Ne consegue che se il giudice di primo grado ha erroneamente condannato in tema di debiti di valore il convenuto al pagamento degli interessi legali sulla somma rivalutata nella sua interezza a decorrere dalla data del fatto generatore del debito e sul punto non sia stato proposto appello, la censura eventualmente proposta per la prima volta in sede di ricorso per cassazione è inammissibile. Infatti è giurisprudenza pacifica di questa Corte che i motivi del ricorso per Cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in Cassazione questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase del merito e non rilevabili di ufficio (Cass. 29.3.1996, n. 2905; Cass. 10.5.1995, n. 5106; Cass. 8.7.1994, n. 6428).

Nella fattispecie, infatti, come ha osservato la stessa sentenza impugnata, non è stata proposta dalle parti alcuna censura in sede di appello avverso detto sistema di cumulo tra rivalutazione ed interessi legali, come sopra statuito dal giudice di primo grado.
Né può ritenersi, come assume l'appellante principale, Assicurazioni Generali s.p.a., che essa, essendo totalmente vittoriosa in primo grado, non aveva alcun onere in sede di appello, in merito a detta statuizione.

 Infatti è vero che la parte totalmente vittoriosa in sede di appello non è tenuta a proporre appello incidentale avverso la sentenza impugnata dalla controparte, relativamente alle eccezioni disattese (essendo sul punto carente di interesse) ma ha l'onere di riproporre, ex art. 346 c.p.c., le questioni da lei proposte nel precedente grado di giudizio. Pertanto l'omessa riproposizione in appello di dette eccezioni preclude il ricorso per cassazione avverso detta sentenza che legittimamente non le ha prese in esame (Cass. 23.4.1986, n. 2882).

11.1. Sempre con il quarto motivo di ricorso la ricorrente incidentale A. lamentando la violazione degli artt. 1223, 1224, 1226, 2056, c.c., 112 e 345 c.p.c. censura l'impugnata sentenza per aver liquidato il danno biologico con applicazione delle "tabelle" di liquidazione a punto elaborate dal tribunale di Milano in luogo di quelle del tribunale di Roma, senza alcuna specifica motivazione; per aver inoltre valutato il punto nella misura di L. 11.500.000, mentre la danneggiata aveva richiesto la liquidazione nella misura di L. 10 milioni, ed inoltre il valore del punto, secondo dette tabelle era pari a L. 10.975.000.
11.2. La censura non può essere accolta.
Anzitutto non può essere condivisa la censura di ultrapetizione.
Infatti è stato già affermato da questa Corte che qualora l'attore, con l'atto introduttivo del giudizio, rivendichi per lo stesso titolo l'attribuzione di una somma determinata, ovvero dell'importo non quantificato, eventualmente maggiore che sarà accertato nel corso del giudizio, non incorre in ultrapetizione il giudice che condanna il convenuto al pagamento di una somma maggiore di quella risultante dalla formale quantificazione inizialmente operata dall'istante, ma acclarata come a quest'ultimo spettante in base alle emergenze acquisite nel corso del processo (Cass. 19.6.1995, n. 6927).
Un principio analogo va affermato in sede di appello.
Pertanto, avendo con l'atto di appello gli appellanti attori, richiesto la condanna al pagamento di una somma determinata (complessivamente L. 6.729.000.000) o della somma maggiore o minore da accertarsi, il solo fatto che il giudice di appello abbia ritenuto di liquidare il punto di invalidità nella misura di L. 11.500.000 non integra il vizio di ultrapetizione.
12.1. Infondata è anche la censura dell'appellante incidentale A., relativamente al sistema di individuazione del valore del punto di invalidità.
Osserva questa Corte che nell'evoluzione dei criteri relativi alla liquidazione del danno biologico si è affermato che detta liquidazione non può avvenire secondo i principi di cui all'art. 4 l. n. 37/1977,che si riferisce, nell'ambito dell'azione diretta contro l'assicuratore al pregiudizio patrimoniale conseguente alla menomazione della capacità di produzione del reddito personale, ed occorre far riferimento al criterio equitativo, di cui all'art. 2056 e 1223 c.c..

 Correttamente, pertanto, nella fattispecie la sentenza impugnata ha riformato la sentenza di primo grado su detta questione.

Nella necessità di rendere effettiva la valutazione equitativa del danno biologico, il giudice di merito deve considerare le circostanze del caso concreto, e specificamente, quali elementi di riferimento pertinenti, la gravità delle lesioni, gli eventuali postumi permanenti, l'età, l'attività espletata, le condizioni sociali e familiari del danneggiato.
Può anche ispirarsi a criteri predeterminati e standardizzati, purché ciò attui flessibilmente, definendo così una regola ponderale su misura per il caso specifico. È un criterio valido di liquidazione equitativa del anno alla salute quello che assume a parametro il valore medio del punto di invalidità, calcolato sulla media dei precedenti giudiziari; onde la decisione che ricorre a tale criterio non è di per sé censurabile in sede di legittimità, purché sia sorretta da congrua motivazione in ordine all'adeguamento del valore medio del punto alla peculiarità del caso.
Condizioni di corretta applicazione di tale criterio debbono essere il suo collegamento al danno specifico e la sua personalizzazione (Cass. 22.5.1998, n. 5134; Cass. 16.11.1998, n. 11532; Cass. 13.5.1995, n. 5271; Cass. 11.11.1996, n. 9835, Cass. 30.5.1996, n. 5005, Cass. 14.5.1997, n. 4236). Questi principi meritano alcune precisazioni, in quanto l'evoluzione dottrinale e giurisprudenziale in materia di liquidazione del danno biologico è giunta a questo sistema di liquidazione che si articola in due fasi: il giudice dapprima, accertata la percentuale nella quale la lesione incide sulla condizione psico - fisica del soggetto leso, determina un ammontare di base, ricavandolo da un calcolo svolto secondo le regole proprie del modello equitativo predeterminato che si è inteso adottare; in un secondo momento, il giudice prende in considerazione le circostanze del caso concreto in cui la lesione si è verificata e decide se e come adeguare ad essa, la somma in un primo momento individuata.

 Attiene sempre alla prima fase l'elaborazione di criteri tendenzialmente uniformi di generali criteri di riferimento, elaborati sulla base dell'esame di situazioni tipiche e privi di elementi peculiari in cui, partendo dall'esatta considerazione dell'esperienza e riflessione medico legale e giudiziaria ed osservando come ben diversa sia la compromissione che ogni punto aggiuntivo di invalidità comporta per l'integrità e l'efficienza psicofisica del soggetto, si è differenziato il valore del punto di invalidità in relazione alla riduzione della capacità psicofisica ed alla età del soggetto (le cosiddette "Tabelle"), abbandonando il criterio del valore fisso del punto di invalidità.

Rimane fermo però che l'utilizzabilità della "tabella" da parte del giudice trova fondamento pur sempre nel suo potere - dovere di procedere alla liquidazione con criterio equitativo ai sensi degli artt. 2056 e 1226 c.c., a cui è insito, anche lì dove si pongano come punti di partenza criteri predeterminati e standardizzati, la valutazione del caso concreto e specificamente, quali elementi di riferimento pertinenti, la gravità delle lesioni, gli eventuali postumi permanenti, l'età, l'attività espletata, le condizioni sociali e familiari del danneggiato.
In altri termini, anche l'adozione della cosiddetta "tabella" non esonera il giudice dalla dovuta personalizzazione dei valori dei punti al caso concreto, nonostante che la tabella sia costruita in genere con riferimento ai parametri dell'età e del grado di invalidità del soggetto leso, in quanto ciò attiene ad un'evoluzione e perfezionamento della prima fase operativa, e cioé l'individuazione di parametri il più possibile uniformi tra casi astrattamente simili, ma non incide sull'opera di personalizzazione del parametro al caso concreto (seconda fase).
Se ciò avvenisse, il fondamento della liquidazione sarebbe di fatto trasferito dal potere equitativo del giudice (esauritosi solo nella prima fase di scelta del criterio di "liquidazione a punto") ai rigidi parametri delle "tabelle", in assenza di base normativa.
L'adozione del valore del "punto", quale indicato nella tabella di riferimento, esime solo il giudice dal motivare sul perché al "punto" sia stato dato un certo valore di partenza (o astratto) nella liquidazione equitativa, ma non esaurisce la stessa, anche se all'esito della necessaria fase della "personalizzazione", il giudice può riscontrare che il valore indicato dalle tabelle relative ai punti di invalidità si attaglia perfettamente al caso concreto, secondo il suo equo apprezzamento.

 Anche in relazione alla fase di partenza del procedimento liquidatorio, poiché l'adozione delle tabelle costituisce già espressione del potere equitativo del giudice (ma non lo esaurisce), questi non è vincolato all'adozione della "tabella" adottata presso il suo ufficio giudiziario in luogo di un altra adottata presso altro ufficio.

Ovviamente però, poiché il fondamento della "tabella dei punti" di invalidità è costituito dalla media dei precedenti giudiziari in quell'ambito giudiziario (più o meno esteso) e la finalità è quella di uniformare il più possibile i criteri per la liquidazione del danno, se il giudice adotta le tabelle in uso presso la propria sede giudiziaria, è già in re ipsa la motivazione (nei termini suddetti) relativa a detta adozione della base di partenza del procedimento liquidatorio equitativo (prima fase).
Se invece il giudice adotta, come è certamente nel suo potere equitativo, le "tabelle" in uso presso altri uffici giudiziari, poiché ciò si discosta da quella che è la funzione tipica delle "tabelle" (fissare criteri tendenzialmente uniformi in una data sede giudiziaria, in mancanza di una "tabella" unica nazionale, pure propugnata negli studi di settore), deve motivare perché ritiene di iniziare il procedimento liquidatorio equitativo non dalla media dei valori e dei criteri risultanti presso la propria sede giudiziaria (espressi dalle "tabelle" di quella sede) ma dalla media dei valori e dei criteri di altra sede giudiziaria.

 12.2. Nella fattispecie la ricorrente incidentale A. nessun rilievo muove in merito al problema della "personalizzazione" del valore dei punti di invalidità, ma lamenta solo che sia stata adottata la "tabella" di Milano, in luogo di quella di Roma, senza alcuna motivazione.

Osserva questa Corte che non sussiste il lamentato vizio di mancanza di motivazione in merito, nei ristretti limiti in cui detto vizio è rilevabile in questa sede di legittimità.
Infatti la sentenza impugnata rileva che detta tabella è stata adottata "in numerose decisioni dei giudici di merito" e che la stessa "nella predeterminazione del valore del punto, tiene conto sia dell'età dell'infortunato sia della più che proporzionale incidenza del crescente grado di invalidità", dando quindi conto delle ragioni che hanno indotto all'adozione di questa tabella.
Quanto alla censura secondo cui la sentenza impugnata avrebbe elevato il valore del punto riportato da detta tabella, egualmente senza motivazione, va rilevato che la stessa sentenza si fa carico di aver provveduto ad un "adeguamento in base al tasso di inflazione reale".
13.1. Infondata è anche la censura contenuta nel predetto quarto motivo del ricorso della A., nella parte in cui censura per violazione di legge e vizio di motivazione la liquidazione del danno morale subito dalla minore L., rilevando che, anzitutto, non é indicato nemmeno astrattamente quale tipo di reato sarebbe configurabile nella specie, tenuto conto che il danno da reato è ipotizzabile solo nelle ipotesi previste dalla legge come reato, e che, in ogni caso, non è motivata la liquidazione in riferimento alle "tabelle" del danno biologico adottate dal Tribunale di Milano. 
13.2. L'art. 2059 c.c. stabilisce limiti assai rigidi al risarcimento del danno non patrimoniale (costituendo lo stesso una figura tipica e non atipica, come quella di cui all'art. 2043 c.c.), con il rinvio all'art. 185 c.p. che trovasi sotto il titolo delle "sanzioni civili", (salvi pochi altri casi marginali). 
Il secondo comma di detto art. 185 c.p. statuisce che: "Ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili debbono rispondere per il fatto di lui". 
Conseguentemente la risarcibilità del danno non patrimoniale presuppone che il fatto sia astrattamente qualificabile come reato e sia conseguentemente idoneo a ledere l'interesse tutelato dalla legge penale, anche se non si richiede che il fatto integri in concreto un reato punibile per il concorso di tutti gli elementi a tal fine rilevanti per la legge penale (Cass. S.U. 6.12.1982, n. 6651). Nella fattispecie il giudice di primo grado, che pure aveva riconosciuto alla minore il danno morale nella misura di L. 100 milioni, aveva ritenuto che il fatto rivestisse gli estremi del reato di lesioni colpose. 

Sul punto della qualificazione del fatto astrattamente qualificabile come reato di lesioni colpose, e quindi, sull'ipotizzabilità del reato ai fini del risarcimento del danno morale, nessuna doglianza aveva mosso in appello la A., per cui la questione attualmente prospettata è inammissibile (Cass. 29.3.1996, n. 2905; Cass. 10.5.1995, n. 5106; Cass. 8.7.1994, n. 6428).

 13.3. Egualmente infondata è la censura relativamente al criterio di liquidazione del danno morale, individuato nella sola applicazione dei valori del danno morale, indicati dalla tabella predisposta dal Tribunale di Milano.

Premesso che anche la liquidazione di detto danno è rimessa alla valutazione equitativa del giudice di merito, vale, infatti, anche in questo caso quanto già osservato in tema di liquidazione del danno biologico (12.2.).
14. Infondata è la censura della ricorrente A., relativamente alla dichiarazione di inammissibilità per genericità del suo motivo di appello avverso la liquidazione del danno patrimoniale della minore V. L., liquidato dal 1° giudice in L. 148.836.000.
A tal fine va osservato che, come emerge dalla sentenza impugnata, i primi giudici avevano determinato detto risarcimento con il sistema della capitalizzazione del triplo della pensione sociale, mentre l'appellante, pur senza contestare detto sistema di calcolo, si era limitato a censurare l'eccessività della somma liquidata, omettendo qualsiasi disamina del calcolo operato dal tribunale.
15.1. Con il quinto motivo di censura, anche esso articolato in più punti, la ricorrente incidentale A. lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1224, 1226, 2056, 2059 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 e 5 c.c., nonché il vizio di motivazione su punto decisivo dell'impugnata sentenza con riguardo ai danni liquidati ai genitori di V. L..

 Anzitutto, quanto al danno patrimoniale liquidato in favore di detti genitori nell'importo di L. 150 milioni, rileva la ricorrente che la sentenza impugnata non ha confutato il rilievo mosso in appello circa la necessità e l'opportunità di assorbimento del ristoro delle spese di assistenza nelle voci di danno di pertinenza della minore; che in ogni caso detta liquidazione equitativa è stata effettuata in assenza dei presupposti richiesti dall'art. 1226 c.c..

15.2. Il motivo è infondato e va rigettato.
Va osservato anzitutto che in merito alla liquidazione del danno patrimoniale la sentenza impugnata ha confermato la statuizione del primo giudice, il quale aveva valutato che le spese di cura ed assistenza della minore completamente invalida ricadevano sui genitori fino all'età di 25 anni, provvedendo poi, per la successiva vita, alla liquidazione di questi costi direttamente in favore della L. V..
Sotto questo profilo la sentenza impugnata non può ritenersi affetta da vizio motivazionale, in quanto essendo stato ritenuto che sussisteva un danno emergente per la L. V. a decorrere dal ventiseiesimo anno di vita, costituito dalle spese di assistenza, pari a L. tre milioni mensili (il punto peraltro non è stato oggetto di ricorso), coerentemente ha ritenuto che detto danno esistesse anche precedentemente al detto ventiseiesimo anno di vita della minore, anche se ad esso facevano fronte i genitori, senza che però potesse farsi rientrare nel dovere di assistenza e di cura gravante di per sé sui genitori, essendo questo caso ben al di là della regola.
Ritenuta, quindi, con motivazione immune da censura in questa sede di legittimità, l'esistenza dell'an del danno, trattandosi di danno futuro, ben poteva il giudice far ricorso alla liquidazione equitativa del quantum (Cass. 1.6.1993, n. 6109).
Infatti il giudice di merito ha facoltà di liquidare il danno in via equitativa, a norma dell'art. 1226 c.c., quando, essendo certo lo stesso, sia mancata la prova del dedotto ammontare dello stesso o per l'impossibilità per la parte di fornire sufficienti elementi (e ciò si verifica appunto anche nel caso di danno futuro) ovvero quando gli elementi di prova forniti non siano riconosciuti di sicura efficacia, stante la difficoltà di una precisa quantificazione (Cass. 26.1.1995, n. 957).
16.1. Infondata è la censura mossa dalla ricorrente incidentale A., avverso la liquidazione del danno morale in proprio in favore dei genitori della minore L. V., sia perché questo costituirebbe solo un danno indiretto, non risarcibile, sia perché attraverso questa vi si giungerebbe ad una dilatazione e duplicazione dei danni risarcibili.

16.2. Va, anzitutto, rilevato che per la giurisprudenza costante di questa Corte (fino ad epoca recente) i prossimi congiunti della persona offesa dal reato di lesioni personali, ancorché minore di età, non hanno diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali, mentre hanno diritto al risarcimento in caso di omicidio e quindi di decesso della vittima (Cass. 17.11.1997, n. 11396; Cass. 17.10.1992, n. 11414; Cass. 16.2.1988, n. 6854; Cass. 21.5.1976, n. 1845; Cass. 13.4.1973, n. 1056; Cass. 25.5.1972, n. 1658; Cass. 15.10.1971, n. 2915).

 La giurisprudenza di legittimità ha escluso il risarcimento del danno morale in siffatti ipotesi per il difetto di nesso causale ai sensi dell'art. 1223 c.c..

Si osserva che per il principio della risarcibilità del solo danno diretto ed immediato, stabilito dall'art. 1223 c.c., il risarcimento del danno non patrimoniale spetta soltanto a chi ha direttamente ed immediatamente subito la sofferenza, e cioé al soggetto leso e non anche ai prossimi congiunti, perché costoro, soffrendo per le sofferenze del proprio familiare, non sono colpiti in modo diretto ed immediato dalla condotta lesiva del terzo.
Nell'ipotesi di omicidio, invece, essendo venuta meno la persona colpita, i prossimi congiunti sono i soggetti che in primis subiscono la sofferenza, mentre altrettanto non può dirsi nel caso di lesioni ove vi è già un soggetto, cioé, il leso, il quale subendo la sofferenza in modo diretto ed immediato, beneficia del risarcimento del danno in esame.
Viene, altresì, osservato che un'eventuale risarcibilità di tale danno anche in favore dei prossimi congiunti del soggetto leso condurrebbe al risultato che il responsabile sarebbe tenuto ad una sola liquidazione nel caso di omicidio (a favore dei prossimi congiunti della vittima) ed a duplice liquidazione nel caso di lesioni (a favore del leso e dei prossimi congiunti).

 16.4. Ultimamente la Suprema Corte, rimeditando la questione, con sentenza 23.4.1998, n. 4186, ha ritenuto che anche ai prossimi congiunti, ed in particolare ai genitori, della vittima di lesioni colpose spetta il risarcimento del danno morale.

Ritiene questa Corte di dover condividere detto ultimo orientamento.
Non pare, infatti, che possa condividersi l'assunto secondo cui osterebbe a tale riconoscimento il fatto che tale danno, essendo in vita la vittima della lesione, sarebbe solo un danno costituente conseguenza mediata ed indiretta della lesione, e come tale non risarcibile a norma dell'art. 1223 c.c., richiamato dall'art. 2056 c.c..
Infatti, giusto quanto detto in tema di nesso di causalità ed in particolare sulla causalità adeguata o regolarità causale (sub 8.), ai fini del sorgere dell'obbligazione di risarcimento, il nesso di causalità fra fatto illecito ed evento, può essere anche indiretto e mediato (Cass. n. 65/1989, cit.), purché con le caratteristiche suddette. Pertanto non è sufficiente fare riferimento al disposto dell'art. 1223 c.c., per escludere il risarcimento del danno morale in favore dei congiunti del leso, poiché non vi è dubbio che lo stato di sofferenza dei congiunti, costituente il loro danno morale, trova causa efficiente, per quanto mediata, pur sempre nel fatto illecito del terzo nei confronti del soggetto leso. 16.5. Così rivisitato il nesso di causalità, la dottrina e la giurisprudenza hanno individuato la figura del cd. danno riflesso (anche sulla scia della giurisprudenza francese, dove si parla di danno da rimbalzo).
La giurisprudenza riconosce la risarcibilità dei cosiddetti danni riflessi, ossia delle lesioni di diritti, conseguenti al fatto illecito altrui, di cui siano portatori soggetti diversi dall'originario danneggiato, ma in significativo rapporto con lui (Cass. n. 60 del 1991).
Il principio applicato è sempre quello della regolarità causale, in quanto sono considerati risarcibili i danni che rientrano nel novero delle conseguenze normali ed ordinarie del fatto. Così è stato concesso il risarcimento del danno per la lesione del diritto del coniuge ai rapporti sessuali, in conseguenza di un fatto lesivo che abbia colpito l'altro coniuge, cagionandogli l'impossibilità di tali rapporti (Cass. 11/11/1986, n. 6607).
Con riguardo a fatto illecito che abbia colpito il congiunto senza causarne la morte, è stata ritenuta ammissibile la richiesta del risarcimento della lesione dei cd. diritti riflessi, di cui sono portatori soggetti diversi dalla vittima iniziale del fatto ingiusto, quando la lesione di tali diritti sia eziologicamente collegata con il fatto illecito.

Pertanto, in siffatta ipotesi, è stata riconosciuta la legittimazione dei prossimi congiunti ad agire nei confronti dell'autore del fatto per ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza delle lesioni patite dal congiunto e ciò anche con riferimento non solo al danno patrimoniale (danno - conseguenza), ma anche con riferimento allo stesso danno biologico (danno - evento, rientrante però pur sempre nell'ambito dell'art. 2043 c.c.) (Cass. 17.9.1996, n. 8305).

 Per quanto la problematica del danno riflesso (e quindi del diritto riflesso) sia stata sviluppata prevalentemente con riferimento alla fattispecie del risarcimento del danno patrimoniale di cui all'art. 2043 c.c., tuttavia non vi sono ostacoli sotto il profilo teorico a concepire anche un danno non patrimoniale riflesso (a parte il rilievo, tutt'altro che secondario, che risulterebbe estremamente arduo, oltre che iniquo, negare consistenza teorica ad un fatto che nella realtà è unanimemente riconosciuto esistente).

Ritenuto, quindi, che il danno morale dei congiunti della vittima di una lesione può rientrare nell'ambito dei danni riflessi, deve concludersi che non vi è un ostacolo alla sua risarcibilità per effetto della sua intima struttura.
16.6. Occorre ora esaminare se l'eventuale irrisarcibilità di detto danno discenda dalla struttura della norma che lo prevede e cioé dell'art. 2059 c.c..
Detta norma stabilisce limiti assai rigidi al risarcimento del danno non patrimoniale (costituendo lo stesso una figura tipica e non atipica, come quella di cui all'art. 2043 c.c.), con il rinvio all'art. 185 c.p. che trovasi sotto il titolo delle "sanzioni civili", (salvi pochi altri casi marginali), per cui autorevoli Studiosi ne hanno tratto la conseguenza che solo la persona offesa dal reato, e cioé il titolare del bene giuridico leso dallo stesso, può far valere la relativa pretesa.

 Il secondo comma di detto art. 185 c.p. statuisce che: "Ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili debbono rispondere per il fatto di lui".

Senza voler entrare nel merito della vexata quaestio se il danno risarcibile sia il danno criminale (cioé il danno causato dal lesione del bene protetto dalla norma) o il danno civile (che prescinde da qualsiasi legame con l'oggettività giuridica del reato), va tuttavia preso atto che il recente incontrastato orientamento della giurisprudenza penale (sia di legittimità che di merito) distingue tra persona offesa dal reato ( art. 90 c.p.p.), che é il titolare del bene giuridico protetto dalla norma, ed il danneggiato civile, che è il soggetto che dal reato ha ricevuto un danno, non necessariamente coincidente con la persona offesa, e che é legittimato a costituirsi parte civile ( art. 74 c.p.p.) (Cass. Pen. 19.12.1990, n. 16708; Cass. Pen. 3.3.1993, Del Salvio; Cass. Pen. 18.10.1995, Costioli).
Stante questa impostazione e riconosciuta, quindi, la legittimazione attiva a richiedere il risarcimento del danno patrimoniale ad ogni soggetto che abbia subito un siffatto pregiudizio dal reato, sia esso il soggetto passivo o non lo sia, non si può escludere detta legittimazione relativamente al danno non patrimoniale nei confronti del soggetto che l'abbia subito (e quindi come tale sia danneggiato), pur senza essere il soggetto passivo del reato.
Infatti né l'art. 185 c.p. né l'art. 74 c.p.p. stabiliscono una diversa legittimazione attiva per la richiesta di risarcimento nel caso in cui il danno sia patrimoniale o non patrimoniale, ma richiedono solo che il danno sia stato cagionato dal reato, riportando quindi tutta la questione esclusivamente nell'ambito del nesso causale tra reato e danno.
Né una restrizione di legittimazione attiva in favore della sola parte offesa dal reato emerge dall'art. 2059 c.c., che si pone sul punto come norma di mero rinvio.
D'altronde la fragilità della tesi che riconosce la legittimazione al risarcimento del danno solo in favore della persona offesa emerge dal fatto che detto orientamento poi per antica tradizione riconosce, in caso di morte della vittima per effetto del reato (e cioé di omicidio), la legittimazione a richiedere il risarcimento del danno anche non patrimoniale in favore dei congiunti, che certamente non sono la persona offesa dal reato di omicidio.
Ne consegue che dalla struttura della norma di cui all'art. 2059 c.c. (nonché dalle norme cui detto articolo rinvia) non emerge alcuna limitazione alla legittimazione attiva dei congiunti della vittima a richiedere il risarcimento del danno non patrimoniale. Essa si limita, con il rinvio all'art. 185 c.p.,. solo a tipicizzare i casi di risarcibilità del danno non patrimoniale.
Escluso, quindi, che per il dato normativo ( art. 2059 c.c.) consegua un difetto del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale dei congiunti della vittima del reato di lesione, occorre ora esaminare se ciò possa essere conseguenza della particolare natura o funzione di questo tipo di risarcimento, come pure sostenuto da alcuni Autori.
16.7. Come è noto sulla questione relativa alla natura del risarcimento del danno ex art. 2059 c.c. vi sono quattro orientamenti dottrinali (natura risarcitoria, satisfattiva, punitiva, satisfattiva - punitiva). Rileva questa Corte che qualunque natura si riconosca al risarcimento in questione, essa è perfettamente compatibile (se non addirittura rafforzativa) con quanto qui si sostiene. 
Infatti sia che si riconosca a detto "risarcimento" del danno non patrimoniale la natura risarcitoria sia che si riconosca quella satisfattiva, il referente rimane sempre il soggetto che ha subito il danno (per quanto in via riflessa), per cui si avranno tanti "risarcimenti" o "soddisfazioni" quanti sono i soggetti danneggiati. 
I sostenitori della natura punitiva (analoga a quella della punitives damages del diritto anglosassone) di detto risarcimento ritengono che la pretesa riparatoria del soggetto leso trovi fondamento nel diritto riconosciuto allo stesso di esercitare una reazione all'illecito subito, al fine di "punire" il danneggiante, per cui è del tutto evidente che solo a questi spetti l'esercizio dell'azione giudiziale.

 Se si ammettesse anche il diritto dei prossimi congiunti a chiedere il risarcimento del danno morale si violerebbe il principio del ne bis in idem, punendo più volte lo stesso soggetto per lo stesso fatto. Senonché, anche se per ipotesi si condividesse detta tesi, va rilevato che la funzione "punitiva" non attiene all'evento penale, per il quale vi è già la pena pubblica, ed in questo caso sì che si avrebbe la violazione del principio per cui uno stesso soggetto non può essere punito più volte per lo stesso fatto, ma attiene agli eventi civili, che il fatto di reato ha prodotto. 

Se il comportamento criminale dell'agente ha prodotto più danni morali, per quanto in via riflessa come sopra detto, ed in questo senso ha, in sede civile, offeso più soggetti, a ciascuno di questi spetterà esercitare l'asserita "funzione punitiva" in questione. 
Peraltro anche questa tesi della funzione di pena privata del risarcimento del danno ex art. 2059 c.c. (che fortemente sostiene che i prossimi congiunti del soggetto leso non possono richiedere il risarcimento del danno morale proprio per il principio dell'unicità della pena) riconosce, nel caso di danno morale subito dai congiunti della vittima di omicidio, a tutti i congiunti il diritto al risarcimento ex art. 2059, c.c., dando luogo, quindi, ad una pluralità di "pene private" comminate per uno stesso fatto. 
Se si segue la tesi compromissoria (satisfattiva - punitiva), valgono le osservazioni già fatte per ognuna delle due componenti. 
Ne consegue che, qualunque sia la natura del risarcimento del danno di cui all'art. 2059 c.c., da essa, lungi dall'emergere motivi che escludano il diritto al risarcimento del danno morale in favore dei congiunti della vittima del reato di lesione, risultano ulteriori elementi a sostegno della configurabilità di tale diritto. 
16.8. Nella fattispecie, la sentenza impugnata ha ritenuto provato in punto di fatto che per effetto delle malattia riportata dalla minore L. V. i genitori avevano subito il completo annullamento della loro vita di relazione e l'estremo perturbamento della loro vita psicologica. 
La sentenza impugnata ha consequenzialmente accertato non solo il danno riportato di genitori del soggetto leso, ma anche il nesso di causalità (per quanto in via mediata dal danno del loro congiunto) che lega detto danno al comportamento colpevole della A. e della Villa Salaria. 
Trattasi di una ricostruzione in fatto, di competenza del giudice di merito, la cui motivazione non è stata oggetto di censure. 
17. Inammissibile per genericità è anche la censura, formulata dalla A., di vizio motivazionale dell'impugnata sentenza per aver elevato il danno emergente in favore degli attori genitori per spese da questi sostenute anteriormente alla sentenza di primo grado, liquidate dal tribunale in L. 51  milioni (a seguito di rivalutazione della somma spesa), in L. 72 milioni, sul solo rilievo che trattasi di spese sufficientemente documentate, mentre, secondo la ricorrente, detta attribuzione è priva di qualunque supporto argomentativo e probatorio ed inoltre trattasi di spese non attestate da documentazione giustificativa intellegibile e soprattutto " non sorrette da elementi idonei a farne riconoscere la riferibilità all'evento dannoso dedotto in giudizio". Ribaditi i ristretti limiti in cui è rilevabile in sede di sindacato di legittimità il vizio motivazionale, va osservato che la sentenza impugnata ha fondato detta liquidazione delle spese su tutta la documentazione prodotta.

  Gravava sulla ricorrente incidentale, per sfuggire alla genericità del motivo di censura, specificare o la diversa minor somma complessiva, a cui dava luogo il totale delle singole spese contenute nei documenti giustificativi prodotti, ovvero quali fossero i documenti giustificativi inintellegibili ovvero quelli relativi a spese non riconducibili all'evento dannoso in questione 18.1. Con il sesto motivo di ricorso la ricorrente incidentale A. lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 91 c.p.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c. per aver, la sentenza impugnata, elevato senza motivazione le spese di giudizio di primo grado a più di 52 milioni di lire, di cui L. 36 milioni per onorari e per aver liquidato per il secondo grado la somma di L. 42 milioni, quest'ultima senza la specificazione delle singole partite.

18.2. Infondato è quest'ultimo rilievo, in quanto la sentenza a pag. 38 liquida in L. 42.400.000 le spese di secondo grado degli attori, "di cui L. 7 milioni per diritti, L. 30 milioni per onorari e L. 3.700.000 per le richieste spese generali". 
Quanto all'evidente errore di calcolo nella somma (pari a L. 40.700.000, in luogo di L. 42.400.000), va rilevato che da una parte la Corte di cassazione, per la sua natura di giudice di mera legittimità, non può correggere errori materiali della sentenza impugnata, sicché l'istanza di correzione della sentenza di appello deve essere proposta al giudice a quo, ai sensi dell'art. 287 c.p.c., anche dopo la presentazione del ricorso per Cassazione (Cass. 5.2.1994, n. 1191) e dall'altra che in ogni caso il giudice dell'impugnazione non può procedere alla correzione di errore materiale della sentenza impugnata d'ufficio e quindi senza istanza di parte (Cass. 11.5.1979, n. 2701). 
18.3. Per il resto la censura è inammissibile. 
Infatti, la parte che lamenti con ricorso per Cassazione l'onerosità della liquidazione delle spese processuali e la violazione delle tariffe deve specificare gli errori commessi dal giudice, precisando ciò che ritiene non dovuto o liquidato in eccesso. Pertanto è inammisibile il ricorso con il quale il ricorrente si limiti a dedurre il puro e semplice superamento della tariffa massima, avendo, invece, egli l'onere di specificare le voci per le quali vi sarebbe stato detto superamento, in modo da consentire il controllo di legittimità, senza necessità di ulteriori indagini (Cass. 13.4.1995, n. 4228; Cass. 5.4.1984, n. 2195).
19. In conclusione i ricorsi vanno rigettati.
Esistono giusti motivi per compensare per intero tra le parti le spese di questo giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.


Riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa le spese di questo giudizio di legittimità tra tutte le parti.

Così deciso in Roma, lì 25 febbraio 1999.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA, IL 19 MAG. 1999

(*) ndr: così nel testo.