Cass. Civ. Sez. III, 25.02.1997, n. 1704



Sentenza

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE


Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Franco BILE Presidente
Gaetano NICASTRO Consigliere
Roberto PREDEN Rel. "
Antonio LIMONGELLI "
Alfonso AMATUCCI "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto
da

P. S., P. D., P. C., elettivamente domiciliati in ROMA VIALE DELLE MILIZIE 34, presso lo studio dell'avvocato ROSARIA GULOTTA, difesi anche disgiuntamente dagli avvocati ENZO LIGUORI e MICHELE LIGUORI, giusta delega in atti;

Ricorrente
Contro

S. SOC IN LCA, elettivamente domiciliato in ROMA V.LE G. CESARE 6, presso SEDE S. SOC, difesa dall'avvocato GIOVANNI BRIZZI con studio in NAPOLI VIA ARCO MIRELLI 32, giusta delega in atti;

Controricorrente
nonché contro

GENERALI ASSIC SOC, S. C., S. A.;

Intimati

avverso la sentenza n. 2468/93 della Corte d'Appello di NAPOLI, emessa il 14/10/93 e depositata il 23/10/93 (R.G. 154/91);

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/10/96 dal Relatore consigliere Dott. Roberto PREDEN;

 

udito l'Avvocato Dott. Giovanni BRIZZI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Vincenzo NARDI che ha concluso per l'accoglimento del ricorso p.q.r.

 

Svolgimento del processo

 

Con atto notificato in data 8.9.87, D. P. e S. P., quest'ultimo in proprio e quale legale rappresentante della figlia minore C., convenivano davanti al Tribunale di Napoli A. S. e C. S., rispettivamente proprietaria e conducente dell'auto Ford Fiesta FI960556, e la S.p.a. S., quale assicuratore, per

sentirli condannare in solido al risarcimento dei danni conseguenti all'incidente stradale avvenuto il 12.8.84, a seguito del quale era deceduta, il 17.9.84, D. N., madre del primo e moglie del secondo. La S.p.a. San. veniva posta in liquidazione coatta amministrativa ed il giudizio veniva riassunto nei confronti del Commissario liquidatore e della S.p.a. Assicurazioni Generali, quale impresa designata. Il tribunale, con sentenza del 20.1.90, dichiarava l'esclusiva responsabilità del S.e condannava la S.p.a. Assicurazioni Generali al pagamento, in favore degli attori, della somma di L. 75.000.000, corrispondente al massimale, oltre interessi; condannava altresì in solido la S.ed il S.al pagamento della ulteriore somma di L. 59.521.235, oltre interessi.

 

 

Proponevano appello i P., chiedendo, tra l'altro, in riforma dell'impugnata sentenza:
a) la condanna solidale della S. e dal S. con l'assicuratore sino alla concorrenza del massimale (1° motivo); 
b) il risarcimento del danno biologico sofferto dalla congiunta D. N. nel periodo intercorrente tra il sinistro e (12.8.84) e la morte (17.9.84), ad essi spettante quali eredi (4° motivo); 
c) Il risarcimento del danno morale sofferto dalla congiunta nel periodo intercorso tra il sinistro ed il decesso, ad essi spettante quali eredi (5° motivo); 
d) la riliquidazione, in misura più congrua, del danno patrimoniale da essi sofferto a causa della perdita della congiunta (7° motivo); 
e) il risarcimento del danno biologico subito dalla predetta a causa della morte, ad essi spettante quali eredi (8° motivo);

 

 

f) la declaratoria di responsabilità dell'assicuratore oltre il limite del massimale, per colpevole ritardo nel pagamento dell'indennizzo (10° motivo). 
La Corte d'appello di Napoli, con sentenza del 23.10.93, accoglieva il gravame limitatamente al punto sub a). 
Ricorrono per cassazione i P., sulla base di cinque motivi, ai quali resiste con controricorso la S.p.a. San. in l.c.a.. Non hanno svolto difese la S.p.a. 
Assicurazioni Generali, la S. ed il S.

 

Motivi della decisione

1.1. Con il primo motivo - denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 32 Cost. e 2043 c.c., e difetto di motivazione - i ricorrenti si dolgono al rigetto del quarto ed ottavo motivo di appello, concernenti, rispettivamente, il risarcimento del danno biologico subito dalla propria congiunta D. N. nel periodo compreso tra il sinistro, avvenuto il 12.8.84, nel quale aveva riportato lesioni, e la morte, verificatasi il 17.9.84, ed il risarcimento del danno biologico sofferto dalla medesima a causa della morte, entrambi azionati iure hereditario.

 

Affermano che la corte d'appello avrebbe erroneamente negato la risarcibilità del danno biologico, nella suindicata duplice configurazione, a favore degli eredi. 
1.2. Il motivo è solo in parte fondato. 
Al fine di rigettare il quarto ed ottavo motivo, congiuntamente esaminati, ha ritenuto la corte d'appello che, nel caso di lesioni seguite istantaneamente o dopo breve tempo da morte, la parte offesa non acquista gradatamente il diritto al risarcimento per il danno alla salute, per il danno patrimoniale e per il danno morale, ma soltanto i diritti connessi alla fattispecie illecita compiuta, sicché, completandosi la detta fattispecie illecita con la morte, la parte offesa non acquista alcun diritto al risarcimento, in quanto più non esiste come soggetto di diritto, e non può quindi trasferirlo agli eredi.
Ha altresì rilevato che, nel caso in esame, non è configurabile, nei confronti del soggetto deceduto, un danno biologico, inteso come lesione del diritto alla salute, poiché questo postula l'esistenza in vita del soggetto.
In realtà, ha infine osservato, nel caso di illecito produttivo di morte il bene leso è costituito dalla vita, la cui perdita non è peraltro risarcibile, mancando il soggetto al quale il diritto al risarcimento dovrebbe far capo, per poi essere trasferito agli eredi.

1.3. La decisione impugnata risulta errata nella parte in cui ha negato in radice la configurabilità del danno biologico sofferto dalla defunta D. N. nel periodo di tempo (circa trenta giorni) intercorso tra il momento delle subite lesioni e quello della morte a quelle conseguente.

 

 

Per consolidato orientamento di questa S.C., in tema di risarcimento dei danni alla persona va riconosciuta la risarcibilità, ai sensi dell'art. 2043 c.c., del danno alla salute, o danno biologico, inteso come menomazione arrecata all'integrità fisico-psichica della persona in sé e per sé considerata, incidente sul valore umano in ogni sua concreta dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali afferente al soggetto nell'ambiente in cui la vita si esplica, ed aventi rilevanza non solo economica, ma anche spirituale, sociale culturale ed estetica (v. tra le tante: sent. n. 4225/95; n. 9170/94; n. 8787/94; n. 5660/94; n. 10153/93; n. 357/93).
Si è altresì precisato che il riconoscimento del danno biologico deve essere correlato al danno specifico della sfera non patrimoniale di estrinsecazione dei valori personali eliminati o ridotti, e valutato, quando sia impossibile o eccessivamente onerosa per il debitore la reintegrazione in forma specifica ( art. 2058, comma 2, c.c.) nella forma congeniale all'interesse non patrimoniale leso (ad esempio, con la ricostituzione di un requisito somatico), in una prospettiva compensativa, per equivalente, del predetto pregiudizio non patrimoniale (sent. n. 2008/93). E, di norma, al risarcimento si provvede appunto mediante la liquidazione di una somma di denaro, equitativamente determinata dai giudici di merito con riferimento a vari parametri.

 

 

Dalla lesione del diritto personalissimo alla salute scaturisce quindi un diritto di credito avente ad oggetto il risarcimento del danno biologico, che, in quanto compreso nel patrimonio del soggetto leso, può essere trasferito ai suoi eredi.
Ora, nell'ipotesi in cui la lesione della integrità psico- fisica sia di gravità tale da determinare la morte del soggetto offeso, la questione che si pone è proprio quella di stabilire se un diritto al risarcimento del danno biologico, scaturito dalla lesione del diritto alla salute, sia o meno entrato nel patrimonio del soggetto leso, e sia conseguentemente azionabile iure hereditario il relativo credito.
Al riguardo la giurisprudenza di questa S.C. è orientata nel senso di ritenere che occorre distinguere tra diritto alla salute e diritto alla vita; che il danno biologico, nei termini suindicati, si correla alla lesione del primo dei due diritti; che, conseguentemente, è sotto il profilo della autonoma configurabilità della perdita del bene salute che va condotta l'indagine nel caso di lesioni con esito mortale; l'indagine che, secondo un criterio eminentemente empirico, si risolve nell'accertamento, a cura del giudice di merito, se sia ravvisabile un apprezzabile intervallo temporale tra lesioni e decesso.
E da tale indirizzo non v'é ragione di discostarsi. La distinzione tra vita e salute, e, conseguentemente, tra diritto alla vita e diritto alla salute, non appare invero contestabile, ed è stata del resto autorevolmente ribadita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 372/94, sul rilievo che "sebbene connesse, la seconda essendo una qualità della prima, vita e salute sono beni giuridici diversi, oggetto di diritti distinti, sicché la lesione dell'integrità fisica con esito letale non può considerarsi una semplice sottoipotesi di lesione alla salute in senso proprio".
Nel caso di lesioni mortali, quindi, non può negarsi autonoma considerazione alle lesioni rispetto alla morte, poiché trattasi di eventi che incidono su beni giuridici diversi, quali sono l'integrità psico-fisica e la vita, e ledono quindi diritti diversi, quali sono il diritto alla salute ed il diritto alla vita.
Tale autonoma considerazione non può tuttavia condurre al riconoscimento della risarcibilità iure hereditario del danno biologico in ogni caso di lesioni mortali, e quindi anche nell'ipotesi di morte istantanea. Non vale infatti osservare che la morte, per quanto sia rapida, non può essere contemporanea alla lesione che l'ha causata, atteso che il rapporto di causa ed effetto che lega lesioni e morte postula la successione cronologica (anche di un solo istante) dei due eventi, sicché anche nell'ipotesi ora considerata, sarebbe possibile isolare concettualmente il momento della lesione all'integrità psico-fisica rispetto al momento della soppressione della vita.

L'assunto può essere condiviso sul piano della logica formale, ma non consente di sostenere che, nella detta ipotesi, sia anche sorto, in capo al soggetto colpito da lesione mortale ma ancora in vita (anche se per un solo istante), il diritto al risarcimento del danno all'integrità psico-fisica o danno biologico, con conseguente trasmissibilità iure successionis del relativo diritto di credito.

 

 

Non è infatti sufficiente invocare il principio secondo il quale il danno biologico è insito nella lesione all'integrità psico-fisica, quale danno-evento, ricompreso nel fatto illecito, come affermato dalla Corte costituzionale con la nota sentenza n. 184/86.
Occorre invero tenere conto della precisazione (restrittiva) compiuta dalla Corte costituzionale con la successiva sentenza n. 372/94, nel senso che, in forza della menzionata costruzione dogmatica, la prova della lesione integra di per sé prova dell'esistenza del c.d. danno biologico, ma non anche della sua entità ai fini risarcitori, necessitando al riguardo, secondo i principi propri del sistema vigente della responsabilità civile, l'ulteriore dimostrazione della consistenza del danno, da individuare, ai sensi dell'art. 1223 c.c., in una perdita o diminuzione di un valore (nel caso, di un valore personale) al quale il risarcimento deve essere commisurato.
E va altresì considerato che il diritto all'integrità psico-fisica ha come oggetto la fruizione del bene salute, per l'esplicazione piena ed ottimale delle attività realizzatrici della persona umana nel suo ambiente di vita, sicché una concreta perdita o riduzione di tali potenzialità può concretizzarsi soltanto nell'eventualità della prosecuzione della vita, in condizioni menomate, per un apprezzabile periodo di tempo successivamente alle lesioni.

 

 

Consegue che, in difetto di una apprezzabile protrazione della vita successivamente alle lesioni, pur risultando lesa l'integrità fisica del soggetto offeso, non è configurabile un danno biologico risarcibile, in assenza di una perdita delle potenziali utilità connesse al bene salute suscettiva di essere valutata in termini economici.
Conclusivamente, va affermato che il danno biologico, quale lesione al diritto alla salute, postula necessariamente la permanenza in vita del soggetto leso, in condizioni di menomata integrità psico-fisica, tali da non consentirgli la pena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana, sicché la configurabilità del detto danno e la trasmissibilità agli eredi del relativo diritto di credito risarcitorio devono escludersi quando la morte segua l'evento lesivo a distanza di tempo talmente ravvicinata da rendere inapprezzabile l'incisione del bene salute (in tal senso: sent. n. 4991/96; n. 10628/95).
Per converso, va affermato che, qualora intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse è configurabile, nei confronti del danneggiato, con riferimento al detto periodo intermedio di permanenza in vita, un danno biologico, da liquidarsi in relazione alla effettiva menomazione della integrità psico-fisica da lui patita sino al momento del decesso, e il diritto del danneggiato a conseguire il risarcimento è trasmissibile agli eredi, che potranno agire in giudizio nei confronti dell'autore dell'illecito iure hereditatis (in tal senso: sent. n. 4991/96; n. 10271/95; n. 2450/95; n. 11169/94).
Nella specie non veniva in considerazione un'ipotesi di morte immediatamente successiva alle lesioni, atteso che il decesso si era verificato dopo circa trenta giorni dalla data del sinistro nel quale la N. aveva riportato le lesioni. Il giudice del merito, negando in radice la sussistenza del danno biologico, non ha quindi prestato osservanza al principio suenunciato.
La sentenza va pertanto cassata sul punto con rinvio ad altro giudice, affinché valuti, nell'esercizio dei poteri riservati al giudice di merito, se il periodo di permanenza in vita della N. sia stato di consistenza apprezzabile nei sensi suindicati.
1.4. La decisione impugnata resiste invece alle censure nella parte in cui ha negato la sussistenza, per gli eredi, del diritto a richiedere il risarcimento del danno biologico subito dalla congiunta a causa della perdita della vita, quale danno ulteriore rispetto al danno biologico da lesioni.
Ha rilevato la corte d'appello che, non determinando la morte lesione del diritto alla salute della vittima, bensì del diverso diritto alla vita, non era configurabile danno biologico in senso proprio, né era risarcibile iure successionis la lesione del diritto alla vita della vittima, poiché questa, a causa

della morte, non aveva potuto acquistare (perché non più esistente come soggetto di diritto) il diritto al risarcimento.

 

 

E tali conclusioni meritano adesione.
Come già rilevato, nel ribadire la distinzione tra vita e salute, e, conseguentemente, tra diritto alla vita e diritto alla salute, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 372/94, ha posto in rilievo che "la lesione dell'integrità fisica con esito letale non può considerarsi una semplice sottoipotesi di lesione alla salute".
Alla luce del richiamato principio, la morte non costituisce quindi - come ritengono i ricorrenti - la massima lesione possibile della salute, bensì il sacrificio del diverso bene giuridico della vita. Consegue che impropriamente si invoca, nel caso di morte, la figura del danno biologico, creata con riferimento al diritto alla salute.
La questione della risarcibilità iure successionis della lesione del diritto alla vita di un congiunto va quindi risolta alla stregua del vigente sistema di responsabilità civile, secondo cui l'oggetto del risarcimento non può consistere se non in una perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva (v., in tal senso, Corte Cost. sent. n. 372/94).
Ed allora, se il danno si sostanzia nelle conseguenze pregiudizievoli di un fatto illecito, va negata la risarcibilità iure successionis della lesione del diritto alla vita di un congiunto, poiché la morte impedisce che la lesione si rifletta in una perdita a carico della persona offesa, ormai non più in vita, sicché non sorge nel patrimonio dell'offeso un diritto al risarcimento per la perdita della vita, trasferibile agli eredi.

 

 

Né vale opporre che in tal modo la lesione del fondamentale diritto alla vita rimane sfornita di tutela privatistica, sicché risulta più conveniente, sotto l'aspetto economico, uccidere una persona, piuttosto che arrecarle una lesione permanente, così capovolgendo, tuttavia, il basilare principio della proporzionalità della sanzione.
Ed infatti, nel vigente ordinamento il risarcimento non riveste natura di sanzione, né ha carattere di assoluta generalità, bensì svolge la specifica funzione di reintegrazione e riparazione di effettivi pregiudizi conseguenti a fatti illeciti, sicché può operare solo ove sussistano tali presupposti, e cioé non oltre i limiti strutturali che segnano l'ambito del sistema della responsabilità civile.
Il risarcimento, in definitiva, mira a ricostruire, in forma specifica o per equivalente, la consistenza del patrimonio (inteso in senso lato, comprensivo quindi anche dei diritti della persona) del soggetto vittima dell'illecito, e nel caso di morte tale ricostituzione non è possibile: non in forma specifica, come è evidente, ma neppure per equivalente, per mancanza del soggetto che dell'utilità sostitutiva del bene perduto possa giovarsi.
La non risarcibilità della privazione della vita si correla quindi alla peculiare essenza del diritto alla vita, che ha ad oggetto un bene del quale solo il titolare può godere, e può godere soltanto in natura, non essendo concepibile un godimento per equivalente.
Ma ciò non implica un difetto di tutela, poiché alla tutela del diritto alla vita l'ordinamento provvede con strumenti diversi, ed in particolare mediante la previsione di sanzioni penali.
E, d'altra parte, sotto il profilo risarcitorio, i prossimi congiunti della vittima non risultano sforniti di adeguata tutela, poiché la morte del familiare consente ad essi di invocare iure proprio sia il risarcimento del danno "patrimoniale", consistente nella perdita delle utilità economiche che il defunto assicurava e che avrebbe presumibilmente continuato a fornire anche in futuro, secondo i noti principi acquisiti in materia, sia il risarcimento del danno "morale" (non patrimoniale) conseguente alla morte del congiunto, nei limiti fissati dal vigente ordinamento ( art. 2059 c.c.), sia, secondo un recente indirizzo, il risarcimento del danno "biologico", consiste nella lesione dell'integrità fisica o psichica subita dai congiunti per effetto della morte del proprio familiare (in proposito la Corte costituzionale, con la sentenza n. 372/94, ha ritenuto operante non il modello risarcitorio dell'art. 2043 c.c., ma quello dell'art. 2059 c.c.; la decisione non ha tuttavia riscosso unanimi consensi in dottrina).
2.1. Con il secondo motivo - denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto ( artt. 1226, 2043, 2059 c.c., 185 c.p., 3 Cost.) e difetto di motivazione - i ricorrenti addebitano alla corte

d'appello di aver erroneamente negato il diritto, ad essi spettante iure hereditario, al risarcimento dei danni morali patiti a causa delle lesioni dalla loro congiunta, fino al momento della morte, sul rilievo che il tribunale aveva loro liquidato il danno morale iure proprio, e che le due voci di danno non erano cumulabili.

 

 

2.2. La censura è fondata.
Erroneamente la corte d'appello ravvisa una indebita duplicazione di risarcimento qualora gli eredi azionino iure successionis, nei limiti della propria quota, il diritto di credito sorto in capo al defunto per il risarcimento del danno morale dal predetto sofferto in vita per le lesioni subite, e richiedano altresì iure proprio, non già quali eredi, ma quali prossimi congiunti del soggetto deceduto, il risarcimento del danno morale da ciascuno di essi sofferto a causa del turbamento provocato dalla morte del proprio congiunto.
Si tratta di situazioni nettamente differenziate. Ed infatti oggettivamente diverso è il danno che viene in considerazione nelle due ipotesi e diversi sono i soggetti che lo subiscono: nel primo caso, v'é unico danno subito dal soggetto offeso a causa delle lesioni patite; nel secondo, è ravvisabile (se più sono i congiunti) una pluralità di danni, di possibile diversa graduazione secondo l'intensità del legame, subiti dai congiunti in conseguenza della morte del familiare.
E diverso è anche il titolo della pretesa, dovendosi nel primo caso far valere la qualità di erede, onde azionare un diritto già entrato a far parte del patrimonio del defunto (in tal senso: sent.

 

 

n. 9177/94; n. 1003/91; n. 75/83; n. 2034/55), laddove nel secondo è dato agire nella qualità di congiunto, ancorché non erede, per far valere un diritto proprio (in tal senso: sent. n. 3116/83; n. 75/83).
Ed è opportuno notare che ai fini della configurabilità del danno morale subito dal soggetto successivamente defunto non rileva la non punibilità del reato di lesioni, rimasto assorbito nel reato di omicidio in forza del principio di specialità ( art. 15 c.p.). Questa S.C. ha invero avuto modo di statuire che il detto principio vale solo ai fini sanzionatori penali, e non può essere quindi applicato al campo civilistico, in cui, per il principio che prevede l'integrale ristoro del danno, debbono essere risarcite tutte le conseguenze dannose del fatto illecito (sent. n. 8177/94). E va altresì ricordato che, per giurisprudenza costante, al fine del risarcimento del danno morale è sufficiente che il fatto illecito possa astrattamente configurarsi come lesione penalmente rilevante, indipendentemente dalla sua punibilità in concreto (sent. n. 11198/90; n. 3664/85; n. 6651/82, relative all'ipotesi del reato commesso da persona non imputabile).
L'impugnata sentenza va pertanto cassata sul punto, con rinvio ad altro giudice, che si atterrà al seguente principio di diritto: "Il risarcimento del danno non patrimoniale compete iure successionis ai prossimi congiunti della persona deceduta, che abbiano agito in qualità di eredi e nei limiti della relativa quota, onde ottenere la ripartizione dei danni sofferti in vita dal defunto e così a far valere il diritto al risarcimento già entrato a far parte del patrimonio del defunto, e la proposizione di domanda risarcitoria al suindicato titolo non è preclusa dalla presentazione di altra domanda volta a conseguire, nella qualità dei prossimi congiunti del defunto, il risarcimento dei danni morali a ciascuno di essi spettante iure proprio a causa della morte del congiunto".
3.1. Con il terzo motivo - denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto ( artt. 1223, 1284, 2043, 2056, 2058 c.c., art. 4, comma 3, l. n. 39/77 (NDR: D.L. 23.12.1976 n. 857 art. 4), art. 2, comma 2, l. n. 140/85, art. 1, comma 1, l. n. 353/90, r.d. n. 1043/22) e difetto di motivazione - i ricorrenti censurano la liquidazione del danno patrimoniale futuro ad essi causato dalla perdita della rispettiva madre e moglie, effettuata dalla corte d'appello sulla base del triplo della pensione sociale. 
Sostengono, in particolare, che la corte d'appello doveva avere riguardo all'importo della pensione sociale all'epoca della decisione, laddove aveva considerato un minor importo e non aveva tenuto conto dell'aumento previsto dall'art. 2, comma 2, l. n. 140/85; deducono, inoltre, che sarebbe stata applicata una percentuale eccessiva (del 10%) di scarto tra vita fisica e vita lavorativa. 
3.2. Il motivo non è fondato. 

Per la determinazione del reddito della N., i giudici di merito si sono avvalsi del criterio indicato dall'art. 4, comma 3, l. n. 39/77, facendo riferimento al triplo della pensione sociale.

 

 

Ora - diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti - dovendo il giudice, nel determinare il danno, far riferimento alla data del sinistro per individuare il reddito annuo del danneggiato (sent. n. 5832/93), nel caso in cui venga utilizzato il suindicato criterio, il giudice deve aver riguardo all'importo della pensione sociale alla data dell'evento dannoso, comprensivo delle maggiorazioni di legge sino a tale momento apportate, ed alla correlativa perdita del presunto reddito, per poi procedere alla rivalutazione fino alla data della liquidazione (sent. n. 4632/93).
La censura non coglie quindi nel segno. Né, d'altra parte, i ricorrenti lamentano specificamente l'omessa rivalutazione.
Quanto alla percentuale di scarto tra vita fisica e vita lavorativa, si tratta di apprezzamento di fatto congruamente motivato, che sfugge al sindacato di legittimità.
4.1. Con il quarto motivo - deducendo violazione e falsa applicazione di norme di diritto ( artt. 1175, 1176, 1218, 1223, 1224, 1226, 1337, 1366, 1375, 1460, 1905, 1917, 2043, 2697 c.c., 113 c.p.c., 18, 21 e 22 l. n. 990/69) e difetto di motivazione - i ricorrenti addebitano alla corte d'appello di aver erroneamente escluso la responsabilità oltre il limite del massimale della S.p.a. San. in l.c.a. e della S.p.a. Assicurazioni Generali quale impresa designata, per avere colposamente ritardato il pagamento dell'indennizzo.

 

 

4.2. Il motivo non è fondato. 
Ha ritenuto la corte d'appello che non era ravvisabile responsabilità dell'assicuratore, per colposo superamento dello spatium deliberandi previsto dall'art. 22 l. n. 990/69, poiché i P. non avevano offerto tutti gli elementi valutativi utili per la liquidazione dell'indennizzo, ma si erano limitati a formulare domande vaghe e generiche.
Si tratta di apprezzamento di fatto, sorretto da congrua motivazione, che si sottrae a censura in questa sede.
5.1. Con il quinto motivo - denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto ( artt. 1223, 1124, 1226, 2043, 2056, 2058 c.c., 112 c.p.c.) e difetto di motivazione - i ricorrenti si dolgono dell'omessa rivalutazione all'attualità da parte della corte d'appello delle somme riconosciute dalla sentenza di primo grado. 
5.2. Il motivo va dichiarato assorbito in conseguenza dell'accoglimento del primo e secondo motivo, concernenti entrambi la consistenza del risarcimento. 
6. In conclusione, vanno accolti il primo motivo, per quanto di ragione, ed il secondo; vanno rigettati il terzo ed il quarto e va dichiarato assorbito il quinto. 
L'impugnata sentenza va quindi cassata in relazione alle censure accolte e la causa rinviata ad altro giudice, che si atterrà ai principi di diritto rispettivamente enunciati. 
Il giudice di rinvio, che si designa in altra sezione della Corte d'appello di Napoli, provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.

 

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo, per quanto di ragione, ed il secondo; rigetta il terzo e quarto motivo; dichiara assorbito il quinto; cassa in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Corte d'appello di Napoli.

Così deciso in Roma il 29.10.96.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 25 FEBBRAIO 1997