Cass. Civ. Sez. III, 28.03.1994, n. 2988



Sentenza

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

 


Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Giovanni E. LONGO Presidente
" Ugo DE ALOYSIO Consigliere
" Vito GIUSTINIANI "
" Gaetano NICASTRO Rel. "
" Michele VARRONE "
ha pronunciato la seguente

SENTENZA
sul ricorso proposto
da

 

S.P.A. LA NATIONALE ASSICURAZIONI, in persona del suo legale rapp.te p.t., Sig Gianfranco Poggi, elett.te dom. in Roma, via Carlo Poma n. 4, presso lo studio dell'avv. Emilio Conte, che la rapp. e difende, per procura a margine del ricorso.

Ricorrente

contro
P. V. - P. D.
Intimati Visto il ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Lecce del 22.6-14.9.1989, n. 438/89 (R.G. n. 381/87).

 

Udito il cons. relatore dott. Gaetano Nicastro, nella pubblica udienza del 4.10.1993; Udito, per la ricorrente, l'avv. E. Conte, il quale ha chiesto l'accoglimento del ricorso;

Sentito il P.M., in persona del Sost. Proc. Gen. dott. R. Viale, il quale ha concluso per l'accoglimento del quarto e quinto motivo del ricorso ed il rigetto degli altri.

Svolgimento del processo

Con atto di citazione del 20.2.1984 P. V. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Taranto, P. D. e la s.p.a. La Nationale Assicurazioni chiedendone la condanna al pagamento della somma di L. 60.000.000 a titolo risarcimento dei danni subiti a seguito della morte di B. P., col quale assumeva di aver convissuto more uxorio. Allo scopo esponeva che il B. era deceduto a seguito di un incidente stradale verificatosi il 30.4.1977, del quale, nel procedimento penale instauratosi, con sentenza del Tribunale di Taranto del 29.6.1979, confermata dalla Corte di Appello di Lecce il 13.6.1980, il P. era stato riconosciuto unico responsabile ed era stato condannato al risarcimento del danno, da liquidarsi in separata sede.

 

Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale, con sentenza del 9.12.1986, accoglieva parzialmente la domanda, liquidando L. 20.100.000 a titolo di danno patrimoniale e L. 5.100.000 per danno morale; dedotta quindi la provvisionale già corrisposta, rivalutata con il coefficiente 2,5888 (ammontante, con la rivalutazione, a L. 5.200.000), condannava i convenuti, in solido, al pagamento dell'ulteriore somma di L. 20.000.000, oltre interessi dal fatto ed al rimborso delle spese processuali.

La sentenza veniva confermata dalla Corte di Appello di Lecce con quella ora impugnata, del 27.6-14.9.1989, con la quale veniva respinto tanto l'appello principale della società assicuratrice che quello incidentale della P..

 

 

Con riferimento alle questioni pregiudiziali e preliminari poste con l'appello principale, relative alla improponibilità della domanda - in quanto non preceduta dalla richiesta di cui all'art. 22 della l. 24.12.1969, n. 990 - , alla inopponibilità del giudicato penale alla società assicuratrice ed alla prescrizione, la Corte rilevava che la compagnia assicuratrice aveva provveduto a corrispondere la provvisionale concessa dal giudice ed al pagamento delle spese ospedaliere senza esprimere riserve di alcun genere, "come sarebbe stato suo onere fare qualora avesse inteso disconoscere l'efficacia del giudicato penale nei suoi confronti, far valere la mancata osservanza delle formalità di cui all'art. 22 l. 24.12.1969, n. 990, eccepire la prescrizione". Con la costituzione di parte civile nel processo penale la danneggiata avrebbe operato, inoltre, l'interruzione della prescrizione nei confronti del responsabile, interruzione che aveva effetto anche nei confronti dei coobbligati in solido; a seguito della pronuncia della sentenza penale e della condanna al risarcimento non sarebbe applicabile, inoltre, la prescrizione biennale, di cui all'art. 2947 c.c., bensì quella decennale prevista dal successivo art. 2953 c.c.: il diverso termine di prescrizione varrebbe anche nei confronti del responsabile civile rimasto estraneo al giudizio penale.
Nel merito - e per quanto qui interessa - la Corte riteneva inoltre: a) che l'appellata aveva provato la sua qualità di convivente della vittima con l'esibizione dell'atto di notorietà redatto presso il Comune di Tursi il 21.6.1979: le spettava, quindi, il risarcimento del danno conseguente alla morte del B., col quale costituiva una famiglia di fatto, "esplicatasi in una comunanza di vita e di interessi per cui certamente la P. riceveva sostegno, assistenza e mantenimento da parte del convivente, dalla cui morte è stata privata", ed alla quale l'ordinamento giuridico non può non riconoscere tutela; b) che l'appellante non aveva fornito la prova che il massimale - nei limiti del quale assumeva essere tenuta - fosse di L. 15.000.000; in ogni caso, la somma eccedente sarebbe ugualmente dovuta a titolo di svalutazione monetaria ed interessi per l'ingiustificato ritardo, determinato dall'ingiusta resistenza in giudizio.

 

Ricorre per cassazione La Nationale, avanzando sei motivi di censura. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo la società ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 27 c.p.c. 1930, come interpretato dalla sentenza della Corte Cost.le 27.6.1973, n. 99, in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c..

 

La Corte di merito, ritenendo ad essa opponibile il giudicato penale, non avrebbe tenuto conto che l'art. 27 c.p.c. 1930 era stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui estendeva l'autorità del giudicato al responsabile civile rimasto estraneo al giudizio penale perché non posto in condizione di parteciparvi.
Nella specie la P. si era costituita parte civile nei confronti del solo P. senza chiamarla in giudizio, omettendo così di porla in condizione di difendersi. Nel giudizio civile avrebbe quindi dovuto fornire la prova di tutte le sue asserzioni ed in particolare delle modalità del fatto, dell'esistenza della convivenza e della perdita di prestazioni economiche.
E' noto che con sentenza del 27 giugno 1973, n. 99, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 27 c.p.p. 1930 nella parte in cui disponeva che la pronuncia del giudice penale avesse autorità di giudicato nel giudizio civile od amministrativo, quanto alla sussistenza del fatto, alla sua illiceità ed alla responsabilità del condannato o di colui al quale fosse stato concesso il perdono giudiziale, anche nei confronti del responsabile civile rimasto estraneo al giudizio penale perché non posto in condizione di parteciparvi.
La sentenza impugnata non disconosce, in realtà, il principio che si desume dall'intervento della Corte, circa i limiti soggettivi di efficacia della sentenza penale, ma si fonda, piuttosto, sulla

accettazione del giudicato penale, attraverso il pagamento della provvisionale e delle spese ospedaliere, tesi che non risulta censurata ed idonea (nella sua oggettività) a sostenere la decisione. Il motivo riassunto non incide su tale tesi, sicché dev'essere rigettato.

 

 

2.- Il secondo motivo, relativo ad una asserita violazione e falsa applicazione degli art.i 1306, 1310, 2943 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., contiene due distinte censure.
Con una prima censura la ricorrente sostiene che, se è pur vero, come ritenuto dalla Corte di merito, che l'interruzione della prescrizione ha effetto anche nei confronti dei coobbligati, a norma dell'art. 1310 c.c., non si verificherebbe tuttavia, nei loro confronti, l'effetto permanente di cui all'art. 2943 cc. 2-3 c.c..
Con una seconda censura si afferma che, omettendo di provvedere alla chiamata dell'assicuratore nel giudizio penale, la P. avrebbe dimostrato di trasferire in quella sede solo l'ordinaria azione aquiliana ex art. 2054 c.c. e non anche l'azione di cui alla l. n. 990/1969: poiché, per l'art. 1306 c.c., la sentenza pronunciata tra il creditore ed uno dei condebitori in solido non ha effetto contro gli altri debitori, quella in esame non può avere effetto nei suoi confronti, sicché non potrebbe esserle opposto il diverso termine di prescrizione relativo all'actio iudicati, di cui all'art. 2953 c.c..

 

La prima tesi è destituita di fondamento, avendo questa Corte avuto già modo di precisare che "l'azione giudiziale e la pendenza del relativo processo determinano l'interruzione permanente della prescrizione nei confronti dei condebitori in solido, ancorché siano rimasti estranei al giudizio" (Cass. 24.3.1979, n. 1709; Cass. 25.1.1978, n. 333; Cass. 11.11.1974, n. 3341, etc.). Il problema prescinde, ovviamente, dall'opponibilità del giudicato al coobbligato rimasto estraneo al processo penale, circostanza che può consentirgli di porre in discussione, nel successivo giudizio civile, i presupposti della sua responsabilità solidale, ai sensi dell'art. 27 c.p.c. nel testo risultante a seguito della citata sentenza della Corte Costituzionale 27.6.1973, n. 99 (Cass. 4.6.1977, n. 2290). Può ripetersi comunque, anche in questa sede, e per entrambe le censure, quanto si è avuto modo di dire, esaminando il primo motivo, in ordine al fondamento della decisione, che non rimane inciso dalle stesse. Anche in ordine al problema della prescrizione la Corte di merito ha rilevato che la società assicuratrice aveva corrisposto la provvisionale e pagato le spese ospedaliere senza opporre alcuna riserva. Se è vero che ha inteso aggiungere che nella specie doveva trovare comunque applicazione la prescrizione propria all'actio iudicati, trattasi di argomento ulteriore, svolto ad abundantiam, che non snatura l'argomentazione principale.

 

Non è superfluo precisare che, facendo riferimento agli intervenuti pagamenti, la Corte ha inteso implicitamente richiamare l'istituto della rinuncia alla prescrizione, che, come è noto, può essere espressa o tacita e risultare, in tal caso, da un fatto incompatibile con la volontà di valersene (art. 2937 c. 3° c.c.), quale sicuramente il pagamento effettuato dopo che la prescrizione si sia verificata. 3.- Ugualmente infondato il terzo motivo, con il quale si denuncia, in relazione all'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell'art. 22 l. 24.12.1969, n. 990, nonché omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, in ordine alla proponibilità della domanda, in quanto non preceduta dalla richiesta di risarcimento rivolta all'assicuratore e dal decorso del relativo spatium deliberandi.
Il ricorrente sottolinea, anche sotto tale profilo, che la Paino aveva esercitato, nel giudizio penale, solo l'azione ordinaria ex art. 2054 c.c., lasciandone fuori l'assicuratore, sicché non poteva prescindere, prima di esercitare l'azione diretta nei suoi confronti, dal richiedergli il risarcimento, a norma dell'art. 22 l. 24.12.1969, n. 990: trattasi di una condizione di proponibilità dell'azione la cui mancanza è rilevabile di ufficio, mentre non è assolutamente previsto un onere dell'assicuratore di farla valere.
Anche qui - come si è rilevato nella parte relativa allo "svolgimento del processo" - la Corte di merito ha fatto riferimento ad una accettazione o rinuncia implicita, attraverso gli eseguiti pagamenti, tesi non censurata.
Questa Corte ha già avuto modo di chiarire che "la disposizione di cui all'art. 22 l. 24.12.1969, n. 990, sull'assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, che subordina l'esercizio dell'azione al risarcimento del danno al

decorso di sessanta giorni dalla richiesta di risarcimento rivolta, mediante lettera raccomandata, all'assicuratore, è stata posta dal legislatore per l'evidente scopo di consentire allo stesso assicuratore di valutare l'opportunità di pervenire ad un accordo con il danneggiato, onde evitare premature domande giudiziali, con il conseguente dispendio di ulteriori somme ed il necessario intervento dell'autorità giudiziaria", precisandosi che "tale scopo, però, è egualmente soddisfatto da atti equipollenti, come quando sia intercorsa corrispondenza tra le parti e siano state condotte trattative di liquidazione del danno e risulti, comunque, rispettato il termine di sessanta giorni prima dell'esercizio dell'azione" (Cass. 5.5.1980, n. 2941; Cass. 16.1.1982, n. 277, etc.); e ugualmente allorché l'assicuratore abbia corrisposto una provvisionale, dimostrando con ciò stesso di essere a conoscenza della richiesta e di averne valutato la fondatezza.

 

 

4.- Da accogliere appaiono, viceversa, il quarto e, in parte, il quinto motivo, che, fondati entrambi sulla violazione o falsa applicazione di norme di diritto sostanziale ( art. 360 n. 3 c.p.c.), è opportuno esaminare congiuntamente, anche se l'esame del secondo si presenta logicamente pregiudiziale rispetto a quello del precedente.
Col quinto motivo si denuncia, in particolare, la violazione e falsa applicazione degli artt.i 2697 e 2727 c.c..
Secondo la ricorrente la Paino non avrebbe fornito la prova della convivenza, la quale non può essere dedotta né dalle risultanze del giudizio penale, la cui sentenza è irrilevante per l'assicuratore, ai sensi dell'art. 1306 c.c., né dall'atto di notorietà, che non può costituire fonte di prova giudiziale.
Ai fini di una convivenza more uxorio non sarebbe sufficiente, comunque, la semplice coabitazione, essendo viceversa necessaria la presenza di una situazione caratterizzata da un legame affettivo paragonabile, soprattutto in presenza di figli, a quello di una famiglia. L'esistenza di un tale vincolo non risulterebbe nemmeno attraverso presunzioni, non potendo essere considerato grave, preciso e "concordante" l'unico, insufficiente indizio costituito dall'atto notorio.
Non sarebbero risarcibili, pertanto, nemmeno i danni morali. Il quarto motivo attiene alla violazione e falsa applicazione degli art.i 1223 e 2043 c.c..
Se il problema della risarcibilità dei danni morali al convivente "é ancora aperto", sarebbe da escludere il risarcimento di un preteso danno patrimoniale, che compete soltanto, ex art. 1223 c.c., "a chi subisce una perdita economica o prevede con certezza un mancato guadagno futuro". Tanto il Tribunale che la Corte di merito avrebbero ravvisato il danno della perdita di una semplice aspettativa ad un futuro mantenimento o almeno a prestazioni di carattere alimentare. Il danno materiale derivante dalla morte si concretizzerebbe, inoltre, nella lesione di diritti economici, sicché sarebbe da escludere per il convivente more uxorio, i cui rapporti economici con la vittima costituirebbero solo l'assolvimento di un'obbligazione puramente naturale.
Il diritto non può più ignorare l'esistenza e la (ancora relativa) diffusione della cd. a famiglia di fatto, derivante dalla convivenza di due soggetti di sesso diverso al di fuori del matrimonio (civile o con effetti civili). Appare ovvio come non sia sufficiente, perché si possa parlare di famiglia di fatto, la semplice coabitazione, dovendosi far riferimento ad una relazione interpersonale, con carattere di tendenziale stabilità, di natura affettiva e parafamiliare che, come nell'ambito di una qualsiasi famiglia, si esplichi in una comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza morale e materiale. Anche il nuovo regolamento anagrafico, approvato con d.p.r. 30 maggio 1989, n. 223, esplicitando il concetto di "famiglia", di cui all'art. 1 della l. 24 dicembre 1954, sia pure "agli effetti anagrafici", considera tale "un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune" (nessun apporto proviene viceversa, ai nostri fini, dalla motivazione della nota sentenza della Corte Cost.le n. 404/1988). Il carattere stesso della famiglia di fatto, che prescinde da un particolare crisma giuridico (e ne è anzi aliena), pone, in difetto di particolari, specifiche registrazioni, il problema della prova della sua esistenza, che può essere data con ogni mezzo previsto dalla legge, e, normalmente, attraverso testimoni: il relativo onere incombe, a norma dell'art. 2697 c.c., su chi nell'esistenza di un tale rapporto fonda un proprio diritto.

E' stato precisato che non costituisce mezzo legale di prova, salvi i casi eccezionali previsti dalla legge, l'atto notorio, sul quale la Corte di merito ha fondato la decisione impugnata. Il suo valore come atto pubblico, facente fede, in quanto tale, fino a querela di falso, è infatti circoscritto all'attestazione, da parte del pubblico ufficiale, di aver ricevuto le dichiarazioni in esso contenute, previa identificazione dei loro autori (Cass. 3.5.1976, n. 1572). Il contenuto delle dichiarazioni, assimilabili agli scritti provenienti da terzi estranei, ha un valore meramente indiziario, che spetta al giudice di merito valutare ed eventualmente utilizzare, nell'ambito del suo potere discrezionale, inserendolo in tutto il contesto processuale (Cass. 17.1.1981, n. 396). Nell'esercizio del suo potere il giudice di merito deve dare atto, peraltro, dei motivi per i quali abbia ritenuto attendibili i fatti risultanti dall'atto notorio. Solo in tali limiti, ed in assenza di vizi logici, la sua valutazione rimarrà insindacabile in questa sede.

 

 

E' opportuno precisare, inoltre, che non va confusa con l'atto notorio la dichiarazione sostitutiva prevista dall'art. 4 della l. 4.1.1968, n. 15, che costituisce una mera dichiarazione dell'interessato, di cui il pubblico ufficiale si limita ad autenticare la sottoscrizione, priva di qualsiasi efficacia probatoria in ordine al contenuto della dichiarazione.
Occorre sottolineare, altresì, che valore soltanto di indizio, anche se di notevole spessore, hanno ugualmente, nella specie, le mere risultanze anagrafiche. Le registrazioni anagrafiche derivano, infatti, dalle dichiarazioni dei singoli componenti (art. 2 della legge e 6 del regolamento), salva la facoltà di controllo e di accertamenti da parte del Comune, a norma dell'art. 4 c. 2° della legge; soprattutto, questa facoltà di controllo difficilmente può estendersi, oltre che alla residenza ed alla coabitazione, all'esistenza di quei "vincoli affettivi", sia pure in senso lato, che trasformano la semplice coabitazione in famiglia anagrafica, e, soprattutto, alla loro natura.

 

 

La prova dell'esistenza di una famiglia di fatto non è da sola sufficiente, inoltre, a fondare una pretesa di risarcimento quale quella azionata nell'attuale giudizio, a seguito della morte del convivente.
Tanto l'art. 2043 c.c. che l'art. 1059 c.c., attribuiscono il diritto al risarcimento a chiunque abbia sofferto un danno a causa dell'altrui fatto ingiusto, sempre che sussista un rapporto diretto fra il danno ed il fatto lesivo. L'ampiezza della formula legislativa consente di ricomprendere nell'ambito dell'obbligazione risarcitoria sia il danno subito dal soggetto verso cui è stato diretto il fatto ingiusto, sia quello che abbiano risentito, in modo ugualmente immediato e diretto, sotto forma di deminutio patrimoni o di danno morale, eventuali altri soggetti, per i rapporti che li legano a quello immediatamente e direttamente leso, siano tali rapporti di natura familiare o parafamiliare.
Non può esservi dubbio che anche la perdita del convivente more uxorio determina nell'altro una particolare sofferenza, un patema analogo a quello che si ingenera nell'ambito della famiglia, anche se, nei singoli casi, con minore o maggiore intensità, che si suole sussumere nell'ambito del danno non patrimoniale, risarcibile nei limiti previsti dagli art.i 2059 c.c. e 185 c.p..
Una diversa considerazione ed un discorso più approfondito impone, invece, il danno patrimoniale, la cui esistenza non discende, ipso iure, dalla morte del convivente (come dalla morte del coniuge), e che non può farsi coincidere con la sopravvenuta mancanza di elargizioni meramente episodiche o graziose, né con una mera ed eventuale aspettativa.
E' opportuno rilevare che anche nell'ambito della famiglia entrambi i coniugi sono ormai tenuti a contribuire ai bisogni in relazione alle proprie sostanze ed alla propria capacità di lavoro, professionale o casalingo ( art. 143 c.c.). La morte del coniuge non comporta necessariamente un danno patrimoniale, se non nei limiti in cui venga meno il suo contributo al soddisfacimento dei bisogni del coniuge superstite (o dei figli).
Il medesimo ragionamento vale, ovviamente, nell'ambito della famiglia di fatto, o della convivenza more uxorio, in cui spetta al convivente che afferma di aver subito un danno patrimoniale in dipendenza della morte dell'altro, dare la prova del contributo patrimoniale e personale apportatole in vita, con carattere di stabilita, dal convivente e che è venuto a mancare in conseguenza della sua morte.

Tale indagine manca del tutto nella sentenza impugnata, che va, pertanto, cassata, anche sotto tale profilo.

 

 

Rimane, pertanto, assorbito il sesto motivo, col quale si denuncia la violazione e falsa applicazione della l. 24.12.1969, n. 990, e della tab. A allegata, in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., con riferimento all'onere della prova del massimale di polizza.
Al giudice di rinvio stimasi demandare anche la statuizione sulle spese del giudizio di cassazione.

 

 

P.Q.M.

 

Accoglie, per quanto di ragione, il quarto ed il quinto motivo di ricorso; dichiara assorbito il sesto e rigetta gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Corte di Appello di Lecce.

 

Così deciso il 19 novembre 1993, nella Camera di Consiglio.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 28 MARZO 1994