Cass. Civ. Sez. III, 11.11.1986, n. 6607



Sentenza


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

 

 

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

 

 

Dott. Giuseppe SCRIBANO Presidente
" Giovanni MATTIELLO Rel. Consigliere 
" Aldo SCHERMI " 
" Giuseppe TROPEA " 
" Antonio IANNOTTA "

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA
sul ricorso proposto
da
Ric. n. 8143-84

 

S. T. - res. in Roma, Via Duccio di Boninsegna n. 22 - elett. dom. in Roma, P.le Clodio n. 12 presso lo studio dell'avv. Daniele Feliziani, rapp. e difeso dall'avv. Roberto Manfredi, per delega a margine del ricorso

 

Ricorrente
Contro

 

SA. M. - elett. dom. in Roma, P.le Belle Arti n. 6, presso lo studio dell'avv. Mario Sinagra che la rapp. e difende, per delega a margine del controricorso

 

Controricorrente
Contro

 

L. B. - Ospedale Civile S. G. B. di Zagarolo e per esso il Comune di Zagarolo

 

Intimati Visto il ricorso averso la sentenza della Corte di Appello di Roma del 2.12.83-20.2.84 (R.G. 1718-81);
Udito il Cons. Rel. dott. G. Mattiello nella pubblica udienza dell'11.6.1986; Sentito l'avv. M. Sinagra;
Sentito il P.M. in persona del Sost. Proc. Gen. dott. D. Benanti, che ha concluso per il rigetto del ric. n. 8143-84 e per l'accoglimento del ric. n. 9129-84.

 

 

Svolgimento del processo Con atto di citazione notificato il 6 ed il 7 novembre 1978 i coniugi M. Sa. e S. L. convenivano davanti al Tribunale di Roma il dott. T. S. e l'Ospedale di Zagarolo. Esponevano: che il 13 febbraio 1974 M. Sa. era stata sottoposta, presso l'Ospedale di Zagarolo, a cistoscopia, eseguita dal dott. T. S., il quale, avendo praticato malamente le manovre di tale esame, aveva determinato una soluzione di continuo della parete vescicale; che, sottoposta la Sa. il 1° aprile 1974 ad un secondo intervento, i sanitari del medesimo Ospedale avevano parlato di "fistola vescico cutanea" e di "necrosi completa della mucosa vescicale"; che il 14 maggio 1974 la Sa., dimessa dall'Ospedale di Zagarolo, era stata ricoverata in quello di Tivoli, dove le era stata sostituita la vescica, ormai completamente sclerotizzata, con una "neovescica" ricavata da una parte del colon; che nell'ottobre 1974 la Sa. era stata ricoverata presso il Policlinico "Gemelli" di Roma, dove aveva subito l'asportazione dell'utero per far posto alla "neovescica", rimanendovi degente fino al 31 dicembre 1974; che erano poi seguiti altri ricoveri nell'aprile e nel settembre 1975; che i coniugi L. Sa., promosso giudizio risarcitorio nei confronti del dott. S. e dell'Ospedale di Zagarolo, nell'estate del 1976 avevano accettato in via transattiva un risarcimento di L. 7.500.000 offerta dalla S.p.a. le Assicurazioni d'Italia; che alla fine dello stesso anno le condizioni della Sa. si erano notevolmente aggravate a causa di frequenti infezioni alle vie urinarie e di compromissione della funzione renale; che, sporta denuncia per lesioni gravissime nei confronti del dott. S., in sede di perizia medico-legale disposta dal Pretore di Tivoli era stato accertato che il medico aveva determinato la necrosi della vescica per la introduzione di un liquido caustico nel corso della citoscopia eseguita il 13 febbraio 1974; che il reato si era estinto per amnistia. Concludevano la Sa. chiedendo il risarcimento dei danni derivanti dall'insorto aggravamento ed il L. chiedendo il rimborso delle spese di natura medica ed assistenziale sostenute per la moglie nonché, iure proprio, il risarcimento dei danni per non aver avuto e per non poter avere rapporti sessuali con la moglie. Il dott. S., costituitosi, contestava la fondatezza delle proposte domande. Veniva disposta ed eseguita una consulenza tecnica e veniva ammessa ed espletata una prova testimoniale dedotta dagli attori. Si costituiva l'Ospedale di Zagarolo, il quale chiedeva il rigetto delle proposte domande nonché di essere autorizzato a chiamare in causa la S.p.a. Le Assicurazioni d'Italia per essere garantito. Il Tribunale di Roma, con sentenza 9 marzo 1981, disattesa la richiesta dell'Ospedale di Zagarolo di essere autorizzato a chiamare in causa la S.p.a. Le Assicurazioni d'Italia, così decideva: a) condannava il dott. T. S. e l'Ospedale Civile "S. Giovanni Battista" di Zagarolo al pagamento, in solido, in favore di M. Sa., a titolo di risarcimento dei danni verificatisi in epoca successiva all'atto di transazione del 28 luglio 1976, della somma di L. 34.995.000, oltre gli interessi; c) condannava il dott. S. e l'Ospedale Civile di Zagarolo, in solido, a rimborsare a M. Sa. le spese del giudizio; d) dichiarava interamente compensate le spese del giudizio tra S. L., da una parte, ed il dott. T. S. e l'Ospedale Civile di Zagarolo, dall'altra. Il S. proponeva appello notificando il relativo atto, oltre che alle parti originarie, anche alla U.S.L. di Palestrina, alla Regione Lazio ed al Ministero del tesoro. La Sa. ed il L. proponevano appello incidentale. Disposta ed eseguita l'integrazione del contraddittorio nei confronti del Comune di Zagarolo, tale ente, costituitosi, proponeva appello incidentale. Disposta ed eseguita l'integrazione del contraddittorio nei confronti del Comune di Zagarolo, tale ente, costituitosi, proponeva appello incidentale. La Corte di Appello di Roma così decideva con sentenza 20 febbraio 1984: a) rigettava l'appello principale del dott. S. e le domande di garanzia da questi proposte nei confronti del Ministero del Tesoro, della Regione Lazio e dell'U.S.L. di Palestrina; b) rigettava gli appelli incidentali; c) confermava l'impugnata pronuncia rivalutando, all'epoca della decisione, l'importo liquidato in primo grado in favore della Sa. a L. 47.243.250, oltre gli interessi legali; d) condannava il dott. S. ed il Comune di Zagarolo, in solido, a rimborsare alla Sa. le spese del giudizio di secondo grado; e) dichiarava interamente compensate fra le altre parti le spese del medesimo giudizio. La Corte di Roma considerava che il consulente tecnico di ufficio nominato in sede civile aveva puntualizzato, con convincenti argomentazioni logiche e scientifiche immuni da ogni critica, che la sopravvenuta calcolosi urinaria - rigorosamente ricollegabile con nesso di causalità al fatto lesivo originario - non era prevedibile alla data dell'accordo transattivo (28 luglio 1976) per la mancata manifestazione a quell'epoca di concreti elementi obiettivi idonei a farla ritenere prevedibile e possibile. Pertanto, escludeva, che l'intervenuta transazione fosse di ostacolo all'esperita azione per l'aggravamento del danno. 
La Corte riteneva dimostrata la responsabilità del dott. S.. Era stato accertato in sede di consulenza tecnica di ufficio - osservava - che la fistola vescico cutanea, presentata dalla Sa. nel maggio del 1974, dipendeva da azione caustica esercitata sulla mucosa vescicale dal liquido disinfettante (Desogen) introdotto in vescica nel corso dell'esame citoscopico effettuato il 13 febbraio 1974 dal dott. S.. Questo dato obiettivo era stato riscontrato anche a mezzo della perizia medico-legale espletata in sede penale; erano state concordi le conclusioni dei due accertamenti, nei quali si poneva in evidenza che il sanitario aveva certamente omesso di verificare, con la dovuta accortezza, l'eventuale persistenza del liquido disinfettante nello strumento adoperato. In questo suo comportamento - dovuto a totale carenza delle comuni ed elementari regole di diligenza professionale - era indubbiamente ravvisabile una grave colpa del medico. Di fronte a tali emergenze apparivano irrilevanti le argomentazioni del dott. S. secondo cui la responsabilità dell'accaduto sarebbe stata da ascrivere al personale paramedico, l'evento lesivo sarebbe scaturito da altri fattori ed il liquido "Desogen" non avrebbe potuto causare il danno lamentato. Il personale paramedico ha semplicemente compiti preparatori degli strumenti e delle apparecchiature sanitarie: spetta a che ne fa uso accertarsi della loro idoneità ad essere adoperati senza produrre danni ai pazienti. L'eventuale presenza di altri fattori che avessero potuto determinare l'evento lesivo non era affatto risultata; e che fosse stato il Desogen a produrlo era ricavabile sia dalla consulenza tecnica espletata in sede civile che da quella disposta in sede penale. Pertanto, era superfluo ogni ulteriore accertamento peritale, come richiesta dal dott. S., e tanto più la prova tossicologica del Desogen, essendo ben note la composizione le caratteristiche e gli usi del prodotto. 
La Corte riteneva infondata la domanda di risarcimento danni preposta dal L. iure proprio, per il pregiudizio subito a causa della perdita della possibilità di avere rapporti sessuali con la moglie. Osservava che quel che lamentava il L. non era un effetto normale del fatto illecito subito dalla moglie: era una mera conseguenza riflessa a lui derivata che non gli forniva titolo per avanzare una pretesa risarcitoria in proprio, giacché, trattandosi pur sempre di un danno di natura non patrimoniale, l'eventuale risarcimento sarebbe spettato esclusivamente al soggetto passivo che aveva subito il fatto illecito. 
Avverso questa sentenza il dott. S. ha proposto ricorso per cassazione basato su un motivo, al quale la S. resiste con controricorso. 
Anche il L. ha proposto ricorso per cassazione, basato su un motivo. 
Gli altri intimati non si sono costituiti. 
Motivi della decisione 
Deve essere ordinata la riunione dei due ricorsi, proposti avverso la stessa sentenza (art. 335 c.p.c.).
Con l'unico motivo del suo ricorso il dott. S. lamenta che la Corte di Roma: a) non abbia accolto la richiesta di consulenza tecnica di ufficio tendente ad accertare la composizione chimica, la tossicità e quindi la idoneità del Desogen a provocare la lesione lamentata, omettendo di esaminare la documentazione depositata in atti; b) con insufficiente motivazione, a causa degli errori contenuti nella consulenza tecnica di ufficio, abbia attribuito alla Sa. una invalidità successiva alla transazione. Il motivo è infondato. Con congrua motivazione, esente da vizi logici e da errori di diritto, la Corte di Roma ha sorretto il suo convincimento, insindacabile in questa sede di legittimità, che le ulteriori affezioni alle vie urinarie, sopravvenute alla Sa., andavano rapportate, in relazione causale diretta, all'operato del dott. S., il quale aveva effettuato, sulla medesima Sa., l'esame citoscopico con uno strumento in cui era rimasto del liquido disinfettante (Desogen) che aveva esercitato un'azione caustica sulla mucosa vescicale, provocando quelle ulteriori successive affezioni manifestatesi dopo la stipulazione della transazione del 1976 e che a quella data non erano prevedibili. 
La relazione causale diretta tra le affezioni successivamente manifestatesi e l'operato del dott. S., l'azione caustica del Desogen e la non prevedibilità di quelle affezioni alla data della transazione sono state accertate dalla Corte di Roma in base alla relazione del consulente tecnico nominato in sede civile e, in ordine ai primi due punti, alla relazione del perito nominato in sede penale, le quali relazioni, sui due punti comuni, erano pervenute a conclusioni conformi; per cui giustamente, ed insindacabilmente, la Corte di Roma, avendo ritenuto logicamente motivati e convincenti i dati tecnici così acquisiti in causa, non ha accolto la richiesta, avanzata dal dott. S., di una nuova consulenza tecnica. Con l'unico motivo del suo ricorso il L., denunciando erronea applicazione degli artt. 2059 e 2043 c.c., e dell'art. 185, secondo comma, c.p., lamenta che erroneamente la Corte di Roma gli abbia negato il risarcimento dei danni da lui subiti in proprio per l'impossibilità di avere rapporti sessuali con la moglie, in conseguenza delle affezioni alla sfera genito urinaria a costei causate dall'operato del dott. S., per il motivo che il pregiudizio lamentato sarebbe non già un effetto normale del fatto illecito subito dalla moglie, bensì una mera conseguenza riflessa a lui derivata. Il ricorrente sostiene che il danno alla vita sessuale rientra nello schema del "danno alla vita di relazione", che è voce del "danno patrimoniale". Definitivo il danno alla vita di relazione come il complesso dei pregiudizi alla capacità sociale della persona, cioé derivanti alla persona in conseguenza della diminuzione di attitudine a rapporti sociali, debbono porsi in primo luogo fra tali rapporti quelli familiari ed in particolare le relazioni fisiche e sentimentali intercorrenti fra i coniugi. Pertanto, nella specie, la domanda di risarcimento proposta dal L., concernendo il danno alla vita di relazione di questi, e specialmente il pregiudizio alla sua vita sessuale nell'ambito del matrimonio, rientra nel concetto di danno patrimoniale, e comunque è fuori dello schema del danno morale, nel quale, invece, è stato erroneamente inquadrato dalla sentenza impugnata. Sostiene, poi, il ricorrente che comunque, essendo stato il lamentato danno cagionato da reato di lesione colpose, anche a voler ritenere che il danno alla vita sessuale non appartenga alla vita di relazione e sia danno morale, soccorrerebbe il secondo comma dell'art. 185 c.p., il quale prescrive l'obbligo del risarcimento dei danni morali se questi sono cagionati da reato. Per cui è irrilevante, nella specie, la distinzione fra danno morale e danno patrimoniale, cui fa espresso riferimento la sentenza impugnata. Infine, il ricorrente sostiene che l'illecito che determina l'impossibilità di taluno di avere una vita sessuale colpisce in modo immediato e diretto il coniuge dello stesso; e sostiene che, quanto meno, nella specie ricorre un danno mediato e indiretto, pur esso risarcibile, in quanto rientra nell'ordine normale e nella regolarità conseguenziale cui il fatto illecito ha dato inizio. Il motivo è fondato per le ragioni che verranno qui di seguito esposte. L'errore in cui è incorsa la Corte di Roma - nel ritenere che, procurata dal dott. S. alla Sa., per omissione della dovuta diligenza nell'eseguita citoscopia, una grave affezione alle vie genito urinarie, impediva per la medesima Sa., moglie del L., dell'attività sessuale, l'impossibilità per il marito di avere, a causa di ciò, rapporti sessuali con la moglie fosse non già un effetto normale del fatto illecito subito dalla moglie, bensì una mera conseguenza riflessa a lui derivata, non costituente, in quanto tale, un danno risarcibile - sta nel non aver considerato il complesso delle reciproche situazioni soggettive dei coniugi nell'ambito della e strutturanti la organizzazione familiare, riconosciute e tutelate, anche a livello costituzionale, dall'ordinamento giuridico statale, nonché la loro rilevanza esterna, rispetto ai terzi. La famiglia è riconosciuta, dal primo comma dell'art. 29 cost., come "società naturale fondata sul matrimonio". "Società naturale, di cui necessario elemento genetico è il negozio matrimoniale, che è, appunto perché società vincolante i soggetti che vi partecipano, organizzazione intersoggettiva, strutturata, quale rapporto di coniugio, da uguali diritti e doveri reciproci di ciascuno dei coniugi, soggettivamente diretti l'uno verso l'altro. E quale "società naturale", come definita dalla citata norma costituzionale, è una "formazione sociale", nella quale, a norma dell'art. 2 cost., si esplica, nell'aspetto della vita familiare, la personalità di ciascuno dei coniugi, estrinsecandosi in "diritti inviolabili", costituzionalmente riconosciuti e garantiti non soltanto nei rapporti fra i coniugi, ma anche di fronte ai terzi. Rilevanza dei diritti "inviolabili" familiari, di cui sono titolari reciprocamente i coniugi nell'organizzazione familiare quale "società naturale", anche di fronte ai terzi che discende dalla norma dell'art. 2 Cost. - poiché il riconoscimento e la garanzia, ivi disposti, dei "diritti inviolabili" dei coniugi nella "formazione sociale" familiare, quali svolgimento, estrinsecazione della personalità in quella "formazione sociale", non sono limitati ai rapporti reciproci tra i coniugi, ma si espandono nei confronti dei terzi, tenuti a rispettare la "formazione sociale" familiare e a non pregiudicare, con loto atti lesivi, i "diritti inviolabili" di ciascuno dei coniugi che la strutturano - e che è espressamente sancita dallo art. 8, primo comma, della "Convenzione europea per salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali", ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955 n. 848, ove si dispone che "toute personne a droit au respect de sa vie privee et familiale", facendosi riferimento anche ai diritti familiari, cioé ai reciproci diritti di ciascuno dei coniugi nell'organizzazione familiare, che i terzi sono tenuti a rispettare. Essenza del matrimonio è la "comunione materiale e spirituale tra i coniugi", come risulta, a contrariis, dagli artt. 1 e 2 della legge 1° dicembre 1970 n. 898, che prevedono, rispettivamente, lo scioglimento del matrimonio civile e la cessazione degli effetti civili del matrimonio religioso quando sia accertato dal giudice che quella "comunione materiale e spirituale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita". "Comunione materiale e spirituale" che si articola nelle quattro categorie generali di reciproci diritti doveri dei coniugi elencate nell'art. 143 c.c.: diritti doveri reciproci "alla fedeltà, all'assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell'interesse della famiglia e alla coabitazione"; alcuni dei quali si specificano in più particolareggiati diritti doveri reciproci, i cui contenuti rientrano nell'ambito della categoria generale. Diritti doveri reciproci dei coniugi, nelle quattro categorie generali elencate nell'art. 143 c.c., nei quali si articola la "comunione materiale e spirituale tra i coniugi", e specificantisi in più particolareggianti diritti doveri reciproci, che, strutturando la "società naturale" originata fra i coniugi dal negozio matrimoniale, hanno per contenuto, tutelandoli giuridicamente, anche nei riguardi dei terzi, manifestazioni, modi di essere della personalità di ciascun coniuge nell'ambito familiare, e perciò sono diritti doveri reciproci inerenti alla persona di ciascun coniuge. (Il diritto-dovere reciproco al mantenimento, specificazione del diritto-dovere reciproco all'assistenza materiale, pur avendo contenuto economico, è anch'esso inerente alla persona di ciascun coniuge, garantendo a questi il presupposto essenziale, quale condizione indispensabile, per lo svolgimento della propria personalità). La "comunione materiale" tra i coniugi comprende in sé la reciproca attività sessuale che ciascuno dei coniugi può esercitare e deve consentire all'altro coniuge di esercitare: elemento naturale ed essenziale del rapporto di coniugio, che, insieme agli altri elementi materiali e spirituali, costituisce l'istituto matrimoniale (si ricorsi la definizione che del matrimonio diede Modestino: "Nunptiae sunt coniunctio maris et feminae, consortium omnis vitae, divini et humani iuris comunicatio"). Ed il diritto-dovere reciproco dei coniugi alla "coabitazione", elencato quale categoria generale nell'art. 143 c.c., intesa la coabitazione come convivenza, comunione di vita tra i coniugi, si specifica nel diritto-dovere reciproco di costoro ai rapporti sessuali tra loro. E', questo, un diritto (oltre che un dovere) reciproco: il diritto di un coniuge ai rapporti sessuali coesiste ed è astrattamente e necessariamente collegato con l'uguale diritto dell'altro coniuge. I due diritti reciproci, dell'uno e dell'altro coniuge, coesistono parallelamente, condizionati l'uno all'altro. Se sopravviene in un coniuge l'impossibilità di rapporti sessuali, si da venir meno il relativo suo diritto, viene a cessare, per impossibilità di esercizio, il reciproco diritto, di uguale contenuto, dell'altro coniuge. Ed allora, stante la coesistenza parallela dei due uguali e reciproci diritti, dell'uno e dell'altro coniuge, ai rapporti sessuali tra loro, stante il loro reciproco condizionamento, essendo l'esistenza dell'un diritto condizione per l'esistenza dell'altro diritto uguale e reciproco, il fatto del terzo che lede, sopprimendolo, il diritto di uno dei coniugi, cagionando a questi l'impossibilità del rapporto sessuale, è anche lesivo, contemporaneamente e direttamente dell'uguale reciproco diritto dell'altro coniuge, necessariamente sopprimendolo: il fatto del terzo e la soppressione del diritto dell'altro coniuge sono in relazione causale immediata e diretta. Nella specie, pertanto, - contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di Roma - l'operato negligente del dott. S., che, nell'esercizio della sua attività professionale medica, pregiudicò l'integrità fisica della Sa. , rendendole impossibili i rapporti sessuali, onde la conseguente responsabilità professionale verso la paziente, fu anche, direttamente ed immediatamente, lesiva del diritto del L. ai rapporti sessuali con la moglie, diritto inerente alla sua persona, quale modo di essere della sua personalità nell'ambito della famiglia, onde la conseguente responsabilità aquiliana nei suoi confronti. Si pone ora il problema se la lesione di quel diritto inerente alla persona del L. comporti un danno risarcibile e come vada qualificato tale danno. La Corte di Roma ha ritenuto trattasi di un danno di natura non patrimoniale (non risarcibile in quanto mera conseguenza riflessa derivata al L.). La difesa del ricorrente L., invece, partendo dal presupposto della dicotomia danno patrimoniale (art. 2043-2056 c.c. in relazione all'art. 1223 c.c.) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c. in relazione all'art. 185 c.p.), includente, tale dicotomia, ogni tipo di danno, sostiene trattarsi di danno patrimoniale, nel cui ambito rientrerebbe quale (ritenuto) danno alla vita di relazione, e solo in via subordinata lo qualifica come danno non patrimoniale, risarcibile perché il fatto illecito del dott. S. costituisce reato. Per la soluzione del problema, deve tenersi conto del risultato sui sono pervenute la giurisprudenza della Corte Costituzionale e la giurisprudenza di questa Corte di Cassazione circa la risarcibilità, e la natura, del cosiddetto "danno biologico", quale evento lesivo, per il fatto doloso o colposo di un terzo, del diritto dell'individuo alla salute, riconosciuto e tutelato dall'art. 32, primo coma, cost.: perché al diritto dell'individuo alla salute deve essere equiparato, come si vedrà, quanto al tipo di tutela accordata dall'ordinamento giuridico, il diritto reciproco in esame di ciascun coniuge che sia leso, sopprimendolo, dal fatto colposo o doloso del terzo produttivo nell'altro coniuge dell'impossibilità di avere rapporti sessuali. La Corte Costituzionale si è occupata per la prima volta del problema attinente al danno biologico con la sentenza 26 luglio 1979 n. 88, risolvendo, nel senso della non fondatezza, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2043 c.c., in riferimento agli artt. 3, 24 e 32 cost., in quanto non comprenderebbe il danno alla salute, autonomamente considerato rispetto alle conseguenze economiche del fatto lesivo e del danno morale puro. Premesso che gli art. 2059 c.c. e 185 c.p., nel loro combinato disposto, espressamente stabiliscono che, ove un reato sia commesso, il colpevole è tenuto anche al risarcimento dei danni non patrimoniali, ha osservato che l'espressione danno non patrimoniale, adottata dal legislatore, è ampia e generica, tale da riferirsi a qualsiasi pregiudizio che si contrapponga, in via negativa, a quello patrimoniale, caratterizzato dalla economicità dell'interesse leso; onde la illazione che l'ambito di applicazione dei citati articoli si estende fino a ricomprendere ogni danno non suscettibile direttamente di valutazione economica, compreso quello alla salute. Ha poi affermato che il bene a questa inerente è tutelato dall'art. 32 cost. non solo come interesse della collettività, ma anche e soprattutto come diritto fondamentale dell'individuo, sicché si figura come un diritto primario ed assoluto, pienamente operante anche nei rapporti tra privati: esso è da ricomprendere tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla costituzione; e non sembra dubbia la esistenza dell'illecito, con conseguente obbligo di riparazione, in caso di violazione del diritto stesso. Da tale qualificazione - ha rilevato - deriva che la indennizzabilità non può essere limitata alle conseguenze della violazione incidenti sull'attitudine a produrre reddito, ma deve comprendere anche gli effetti della lesione del diritto, considerato come posizione soggettiva autonoma, indipendentemente da ogni altra circostanza e conseguenza. Il problema è stato poi esaminato, per la prima volta, da questa Corte di Cassazione con la sentenza 6 giugno 1981 n. 3675. In tale sentenza, questa Corte, ricordato che la possibilità di configurare una specifica tutela giurisdizionale di un vero e proprio diritto alla salute autonomamente considerato era stata affermata nella sua giurisprudenza, sia pure semplicemente in sede di regolamento di giurisdizione (sentenze, pronunciate dalle sezioni unite civili, 9 aprile 1973 n. 999 e 6 ottobre 1979 n. 5172), anche con esplicito riferimento al dettato costituzionale (art. 32) che riconosce la salute come diritto dell'individuo oltre che come interesse della collettività, e fatto riferimento alla sentenza 26 luglio 1979 n. 888 della Corte Costituzionale in ordine alla configurazione del bene alla salute come "diritto fondamentale dell'individuo", "diritto primario ed assoluto, pienamente operante nei rapporti fra i privati", riconoscendosi "la sussistenza dell'illecito, con conseguente obbligo della riparazione, in caso di violazione del diritto stesso", ha dato rilievo all'affermazione, contenuta, sulla base di tali premesse, nella citata sentenza della Corte Costituzionale, che l'indennizzabilità del pregiudizio a quel diritto non può essere limitata a quelle conseguenze della violazione che incidono sull'attitudine a produrre reddito, ma deve comprendere anche "gli effetti della lesione del diritto, considerato come posizione soggettiva autonoma", Prestando adesione a tali principi, ha affermato che "il c.d. danno biologico deve essere considerato risarcibile ancorché non incidente sulla capacità di produrre reddito, ed anzi indipendentemente da quest'ultimo, le cui menomazioni vanno indipendentemente risarcite"; rilevando che, in relazione alla fattispecie esaminata, non si poneva il problema della natura patrimoniale o non patrimoniale (né quello della relativa definizione) di tale danno, con riferimento alla limitazione posta dall'art. 2059 c.c. alla risarcibilità del danno non patrimoniale. Il problema della natura del danno biologico, patrimoniale o non patrimoniale o di altro tipo, è stato esaminato e risolto da questa Corte di Cassazione nelle successive sentenze, pronunciate in argomento, 6 aprile 1983 n. 2396, 14 aprile 1984 n. 2422 e 26 novembre 1984 n. 6134. Il diritto alla salute, riconosciuto e direttamente tutelato dall'art. 32 cost., - è stato precisato - è diritto, primario ed assoluto, alla integrità fisio-psichica della persona, le cui menomazioni incidono direttamente su quello che è il "valore uomo" nella sua concreta dimensione: valore che non è riconducibile alla sola attitudine a produrre ricchezza, ma è collegato alla somma delle funzioni naturali (le quali hanno rilevanza biologica, sociale, culturale ed estetica, in relazione alle varie articolazioni ambientali in cui la vita si esplica, e non solo economica) afferente al soggetto. Così precisate l'essenza del diritto alla salute e la diretta incidenza delle menomazioni ad esso arrecate dal fatto doloso o colposo del terzo, questa Corte ha osservato che la strada più corretta, per la determinazione della natura del c.d. danno biologico, è quella che muove da una più attenta considerazione della portata precettiva dell'art. 2043 c.c., il quale, ponendo il principio della risarcibilità del "danno ingiusto", senza altra qualificazione (in particolare, senza riferimento specifico alla natura patrimoniale del danno, nel senso che riguardi necessariamente le menomazioni del complesso dei rapporti giuridici patrimoniale, di carattere reale od obbligatorio, che fanno capo al soggetto), stabilisce in via immediata la risarcibilità di quello che è il complessivo valore della persona, nella sua proiezione non solo economica ed oggettiva, ma anche soggettiva (biologica e sociale) nel senso evidenziato sopra. E si è rilevato ancora che, nel quadro del sistema normativo vigente (art. 2043 c.c., intesane in quel senso la portata precettiva) e della gerarchia dei valori giuridicamente tutelati, il danno si concretizza, innanzi tutto, nella lesione dei beni e dei diritti primari, in quanto inerenti alla persona umana (il diritto alla vita, all'integrità fisica, alla reputazione, alla libertà sessuale, alla riservatezza, ecc.). Sotto questo profilo, si è escluso che la risarcibilità del danno biologico incontri ostacoli nella formulazione dell'art. 2059 c.c., in forza del quale il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge. Si è concluso che la risarcibilità del danno deriva direttamente ed immediatamente dalla previsione dell'art. 2043 c.c., che, imponendo il risarcimento del "danno ingiusto", senza alcun'altra qualificazione, ha riguardo ad un genus, caratterizzato non dal contenuto del danno ma solo dall'ingiustizia di esso e del quale, pertanto, anche il danno biologico, quale precisato sopra, costituisce una species, al pari delle tradizionali categorie del danno patrimoniale, comprendente le menomazioni del complesso dei rapporti giuridici patrimoniali che fanno capo al soggetto, e del danno non patrimoniale, ristretto alla nozione classica delle sofferenze fisiche e morali conseguenti al torto subito e risarcibile nei limiti dell'art. 2059 c.c.
Il problema è stato, infine, riesaminato, di recente, dalla Corte Costituzionale, alla quale era stata demandata, in quanto ritenuta non manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2059 c.c., nella parte in cui prevede - si sosteneva nelle ordinanze di rinvio - la risarcibilità del danno patrimoniale derivante dalla lesione del diritto, costituzionalmente tutelato, alla salute soltanto in conseguenza di reato, sia per violazione dell'art. 32 cost. (mancata tutela negli altri casi del diritto alla salute) e sia per violazione dell'art. 3 cost. (tutela differenziata del diritto alla salute a seconda che le lesioni derivino da reato o da illecito civile), oltre che per violazione dell'art. 2 cost. (che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dello uomo, tra cui quelli all'integrità fisica e, in genere, alla salute) e dell'art. 24, primo comma, cost. (che riconoscere a tutti il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, fra i quali anche quelli "biologici"). La Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione con sentenza 30 giugno 1986 n. 184 (depositata in cancelleria il 14 luglio 1986). Ha escluso che il c.d. danno biologico sia risarcibile ai sensi dell'art. 2059 c.c. (in riferimento all'art. 185 c.p.c), interpretando tale norma nel senso che il suo ambito è limitato dal danno morale puro, concretantesi nella sofferenza fisica o psichica della persona offesa dal reato; ed ha osservato che, per poter distinguere il danno biologico dai danni morali subiettivi, come dai danni patrimoniali, occorre chiarire la struttura del fatto realizzativo della menomazione dell'integrità biopsichica del soggetto offeso. 
Analizzata, nella struttura dell'illecito extracontrattuale, la sequenza comportante illecito (doloso o colposo) - evento dannoso o pericoloso, sussistendo nesso di causalità fra l'uno e l'altro (il comportamento illecito è produttivo, in relazione causale, dell'evento), ed evento - conseguenze dannose, sussistendo tra l'uno e le altre un ulteriore nesso di causalità (le conseguenze dannose sono prodotte, in relazione causale diretta, dello evento, che, a sua volta, e in nesso causale diretto con il comportamento illecito), ha osservato che l'evento materiale naturalistico, pur essendo conseguenza del comportamento, è momento od aspetto costitutivo del fatto. Il danno biologico - ha precisato - costituisce l'evento del fatto lesivo della salute, mentre il danno morale subiettivo e il danno patrimoniale appartengono alla categoria del danno conseguenza in senso stretto: la menomazione dell'integrità psico-fisica dell'offeso, che trasforma in patologica la stessa fisiologica integrità, costituisce l'evento interno al fatto illecito, legato, da un lato, all'altra componente interna del fatto, il comportamento, da un nesso di causalità e, dalla altra, alla (eventuale) componente esterna, danno morale subiettivo o danno patrimoniale, da altro, diverso, ulteriore rapporto di causalità materiale. Così analizzata la struttura dell'illecito extracontrattuale lesivo del diritto alla salute, e rilevato che gli sforzi della dottrina e della giurisprudenza, ai fini dell'inquadramento sistematico del danno biologico, si sono coerentemente orientati verso una lettura dell'art. 2043 c.c. diversa da quella tradizionale, venendo in definitiva il problema del danno biologico risolto nel problema di una particolare lettura di detta norma, ha affermato che soltanto il collegamento tra l'art. 32 cost. e l'art. 2043 c.c., imponendo una lettura "costituzionale" di quest'ultimo articolo, consente di interpretarlo come comprendente il risarcimento, in ogni caso, del danno biologico: l'ingiustizia del danno biologico e la conseguente sua risarcibilità discendono direttamente dal collegamento dell'art. 32, primo comma, cost. e l'art. 2043 c.c., più precisamente dall'integrazione di quest'ultima disposizione con la prima; quel collegamento tra le due disposizioni, precisata nell'integrazione della disposizione del codice civile con la disposizione della costituzione, che aveva permesso ad essa Corte di affermare, nella precedente sentenza, che, dovendosi il diritto alla salute ricomprendere tra le posizioni soggettive tutelate dalla costituzione, "non sembra dubbia la sussistenza dell'illecito, con conseguente obbligo della riparazione, in caso di violazione del diritto stesso". Posta l'esigenza della "lettura costituzionale" dell'art. 2043 c.c., collegato ed integrato con l'art. 32 cost., ha affermato, in definitiva, che la menomazione dell'integrità bio-psichica (danno biologico), lesione del diritto alla salute, causato dal comportamento doloso o colposo, deve essere risarcita di per sé, quale tutela del primario, fondamentale diritto alla salute riconosciuto e tutelato direttamente dall'art. 32 cost.; potendo ulteriormente prodursi il danno patrimoniale ed il danno morale subiettivo, anch'essi risarcibili (il secondo nei limiti di cui all'art. 2059 c.c.) quali danni conseguenza. 
L'elaborazione svolta ha condotto ad un risultato acquisito nella giurisprudenza di questa Corte di Cassazione: tutela del diritto alla salute, costituzionalmente riconosciuto e garantito, quale diritto dell'uomo alla sua integrità fisio-psichica, nell'aspetto della menomazione di tale integrità, risarcibile come danno biologico, nel che consiste la riparazione della menomazione arrecata a quel diritto, per il solo fatto dell'esistenza della menomazione stessa causata dal comportamento altrui doloso o colposo, indipendentemente dall'esistenza di un danno patrimoniale e-o di un danno morale subiettivo, anch'essi risarcibili, rispettivamente, ai sensi dell'art. 2056 c.c., che richiama l'art. 1223 c.c., ed ai sensi e nei limiti di cui all'art. 2059 c.c. in relazione all'art. 185 c.p. Integrità bio-psichica che è l'essere della persona umana nella totalità delle condizioni per il suo completo svolgimento nell'ambiente sociale, costituzionalmente riconosciuto e garantito quale diritto soggettivo assoluto inerente alla persona. Il diritto alla salute, all'integrità fisio-psichica, è, dunque, diritto della persona, nel suo essere e nella sua estrinsecazione, nell'aspetto delle condizioni per il suo completo svolgimento, appunto l'integrità fisio-psichica, e sotto questo aspetto riconosciuto e tutelato. Ed infatti nelle citate sentenze di questa Corte di Cassazione si parla di risarcibilità in via immediata di quello che è il complessivo valore della persona nella sua proiezione, oltre che economica ed oggettiva, anche soggettiva (biologica e sociale), di lesione dei beni e diritti primari in quanto inerenti alla persona umana, menzionandosi il diritto alla vita, all'integrità fisica, alla reputazione, alla libertà sessuale, alla riservatezza, ecc. 
Anche il diritto reciproco di ciascun coniuge ai rapporti sessuali con l'altro coniuge è - come si è visto - diritto inerente alla persona: è un diritto riguardante, ed avente per contenuto, un modo di essere, un aspetto dello svolgimento della persona di ciascun coniuge nell'ambito della famiglia, società naturale fondata sul matrimonio, formazione sociale ove si svolge la personalità dell'uomo, i cui diritti inviolabili sono costituzionalmente riconosciuti e garantiti. Come tale, in quanto diritto della persona, in un aspetto del suo essere e svolgersi nella famiglia, va equiparato al diritto alla salute, quale diritto della persona all'integrità fisio-psichica. E come tale diritto, ove sia leso dal fatto doloso o colposo di un terzo, che, causando all'altro coniuge, l'impossibilità dei rapporti sessuali, lo abbia soppresso, è, allo stesso modo, risarcibile; quale danno che non è né patrimoniale né non patrimoniale, bensì menomazione del modo di essere e di svolgimento della persona, in quell'aspetto, di per sé, ed in quel modo riparabile. 
Deve essere, quindi, enunciato il seguente principio di diritto: "Il comportamento doloso o colposo del terzo che cagiona ad una persona coniugata l'impossibilità dei rapporti sessuali è immediatamente e direttamente lesivo, sopprimendolo, del diritto dell'altro coniuge a tali rapporti, quale diritto-dovere reciproco, inerente alla persona, strutturante, insieme agli altri diritti doveri reciproci, il rapporto di coniugio. La soppressione del diritto, menomando la persona del coniuge, nel suo modo di essere e nel suo svolgimento nella famiglia, è di per sé risarcibile, quale modo di riparazione della lesione di quel diritto della persona, qualificabile come danno che non è né patrimoniale (art. 2056 c.c. in relazione all'art. 1223 dello stesso codice) né non patrimoniale (art. 2059 c.c. in relazione all'art. 185 c.p.), comunque rientrante nella previsione dell'art. 2043 c.c.". In conclusione, deve essere rigettato il ricorso proposto dal S. e deve essere accolto il ricorso proposto dal L.. La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al ricorso accolto e la causa vertente fra il L. ed il S. deve essere rinviata ad altro giudice, il quale procederà a suo nuovo esame facendo applicazione dell'enunciato principio di diritto. 
Il S. deve essere condannato al pagamento, in favore della Sa., delle spese di questo giudizio di cassazione, con distrazione in favore del difensore della medesima, avv. Mario Sinagra, che se ne è dichiarato antistatario. E' opportuno demandare al giudice di rinvio la decisione sulle spese di questo giudizio di cassazione nei rapporti fra il L. ed il S..

 

 


P.Q.M. 
La Corte 
Rigetta il ricorso proposto da T. S. ed accoglie il ricorso proposto da S. L.. 
Cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia la causa tra S. L. e T. S. ad altra sezione della Corte di Appello di Roma, che deciderà anche sulle spese di questo giudizio di cassazione fra le dette parti. 
Condanna T. S. al pagamento, in favore di M. Sa., delle spese di questo giudizio di cassazione, che liquida in L. 21.300, oltre L. 2.000.000 per onorari, con attribuzione al difensore della Sa., avv. Mario Sinagra. 
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della III sezione civile della Corte di Cassazione, il 4 luglio 1986.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 11 NOVEMBRE 1986