Cass. pen. Sez. II, 11.04.2008, n. 15420



Sentenza

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MORELLI Francesco - Presidente
Dott. CASUCCI Giuliano - Consigliere
Dott. ZAPPIA Pietro - Consigliere
Dott. IASILLO Adriano - Consigliere
Dott. MELIADO' Giuseppe - Consigliere

ha pronunciato la seguente: SENTENZA/ORDINANZA

sul ricorso proposto da:
1) A.R. N. IL (OMISSIS);

avverso SENTENZA del 17/10/2005 CORTE APP. SEZ. MINORENNI di CATANZARO;

visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. ZAPPIA PIETRO;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Stabile Carmine che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso;
udito il difensore avv. Pandolfo Manlio che ha chiesto l'accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

Con sentenza del 24.6.2004 il Tribunale per i Minorenni di Catanzaro condannava A.R., ritenuto il vincolo della continuazione fra i diversi reati e riconosciuta la diminuente della minore età ritenuta prevalente sulle contestate aggravanti, alla pena di anni uno di reclusione ed Euro 200,00 di multa, avendolo ritenuto responsabile dei reati di tentata rapina aggravata dall'uso della violenza e dalla presenza di più persone riunite e di lesioni personali aggravate in danno di R.B. e C.C., in concorso con altri due soggetti maggiorenni.
Con sentenza del 17.10.2005 la Corte di Appello di Catanzaro, Sezione Minorenni, confermava la decisione impugnata.
Avverso tale sentenza l'imputato A.R. propone, per mezzo del difensore, ricorso per cassazione lamentando la violazione di legge sotto diversi profili.
Col primo motivo di gravame il ricorrente lamenta violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), per inosservanza delle norme processuali di cui all'art. 484 c.p.p., comma 2 bis e artt. 420 ter e quater c.p.p., in riferimento all'art. 178 c.p.p., lett. c) e art. 179 c.p.p.. In particolare rileva la difesa che nel giudizio di appello era stata dichiarata la contumacia dell'appellante sebbene lo stesso fosse impossibilitato a partecipare al giudizio perchè sottoposto alla misura degli arresti domiciliari in altro procedimento; e pertanto si era verificata una nullità di ordine generale ed assoluto ai sensi dell'art. 178 c.p.p., lett. c) e art. 179 c.p.p. che comportava la regressione del procedimento ai sensi dell'art. 185 c.p.p., comma 3.
Il motivo si appalesa inammissibile stante la sua estrema genericità.
Sul punto occorre innanzi tutto evidenziare che, nel caso di detenzione dell'imputato per altra causa, per precludere la possibilità giuridica di svolgimento del giudizio in contumacia ed inficiarlo di nullità assoluta, è necessario che lo stato di detenzione, qualora abbia avuto inizio successivamente alla citazione in giudizio, risulti provato con idonea certezza con riferimento al momento in cui il giudice del dibattimento è chiamato a valutare la mancata comparizione dell'imputato, non essendo egli tenuto a ricercare le prove dell'impedimento non indicato o non provato.
Orbene nella fattispecie in esame non risulta, nel ricorso proposto, alcuna indicazione circa l'inizio del suddetto stato di detenzione, se successivo o anteriore alla citazione in giudizio, e non risulta alcuna indicazione circa gli eventuali elementi forniti al giudice del dibattimento in ordine al suddetto stato di privazione della libertà.
E pertanto il motivo di ricorso, facendo genericamente riferimento ad una mancata traduzione dell'imputato, senza alcuna ulteriore indicazione sul punto, appare privo dei necessari requisiti di specificità e concretezza, e tale carenza rende l'atto di impugnazione inidoneo ad introdurre il nuovo grado di giudizio ed a produrre effetti diversi dalla dichiarazione di inammissibilità.
A ciò si aggiunga che dal verbale di udienza dibattimentale del 17.10.2005 dinanzi alla Corte di Appello di Catanzaro, l'imputato risulta indicato quale "libero, non comparso", e nessun rilievo in tale sede è stato sollevato dal difensore, presente. E pertanto anche sotto tale profilo, non risultando la prova della conoscenza del suddetto stato detentivo da parte della Corte territoriale, il ricorso si appalesa manifestamente infondato.
Col secondo motivo di gravame il ricorrente lamenta violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), per violazione e falsa applicazione dell'art. 56 c.p.p., comma 3, nonchè per mancanza e manifesta illogicità della motivazione. Rileva in particolare il ricorrente che erroneamente la Corte territoriale aveva escluso la sussistenza della esimente della desistenza volontaria la quale doveva invece essere applicata atteso che nel caso di specie la condotta del ricorrente e dei suoi complici era stata interrotta non già dalla reazione delle persone offese bensì per una volontaria scelta dei rapinatori che avevano receduto dalla loro azione.
Il rilievo è manifestamente infondato.
Sul punto osserva il Collegio che la desistenza deve essere volontaria (anche se non spontanea), il che si verifica quando l'interruzione dell'azione non subisce l'incidenza di fattori esterni idonei ad interferire con la scelta adottata (Cass. sez. 2^, 23.4/18.9.2003 n. 35764), e cioè avviene al di fuori della presenza di cause che abbiano impedito il proseguimento dell'azione o l'abbiano reso assolutamente vano. E tale situazione impeditiva si è verificata nel caso di specie, siccome correttamente evidenziato dai giudici di merito, i quali hanno espressamente escluso che la desistenza possa essere considerata volontaria quando sia imposta da cause esterne, quali - come nel caso di specie - la reazione della persona offesa.
Ed invero, se pur la desistenza dall'azione non richiede necessariamente una spinta psicologica spontanea di autentico pentimento, deve tuttavia presentare il carattere della volontarietà libera ed autonoma, suggerita da motivi di diversa natura e non imposta dall'intervento di fattori estranei che rendono impossibile l'attuazione del fine cui la condotta illecita era volta. Ne consegue che non può essere considerata volontaria la desistenza cagionata dal timore dell'intervento di terze persone, dalla reazione della vittima, dalla impossibilità di conseguire il profitto della propria condotta illecita.
E pertanto correttamente i giudici di merito hanno ritenuto l'insussistenza nel caso di specie della esimente in parola.
Col terzo motivo di gravame il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 582 c.p., nonchè mancanza e manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e). In particolare rileva la difesa che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto la sussistenza del reato di lesioni personali e non il delitto di percosse (non perseguibile per mancanza di querela), atteso che il reato di cui all'art. 582 c.p. sussiste solo allorchè la condotta del soggetto agente determini una alterazione delle normali funzioni fisiologiche dell'organismo della parte lesa, tale da richiedere un processo terapeutico con specifici mezzi di cura ed appropriate prescrizioni mediche; siffatto evento non si era verificato nel caso di specie di talchè doveva ritenersi l'insussistenza del reato contestato.
Il motivo è manifestamente infondato.
Osserva in proposito il Collegio che la differenza fra il reato di percosse e quello di lesioni personali va ravvisato nel fatto che, nella prima ipotesi, dalla condotta posta in essere deriva al soggetto passivo soltanto una sensazione fisica di dolore, mentre nella seconda ipotesi, deriva una malattia, ossia una alterazione, anche solo funzionale, che comporti un processo di reintegrazione sia pure di breve durata. Ed alla stregua di quanto sopra deve ritenersi che la contusione escoriata costituisce malattia perchè, ledendo sia pur superficialmente il tessuto cutaneo, non si esaurisce in una semplice sensazione dolorosa ma importa una alterazione patologica dell'organismo; ed al pari la cervicoalgia comporta una, sia pur limitata, alterazione funzionale del rachide cervicale, che non si esaurisce in una semplice sensazione di dolore al momento del fatto ma comporta dei postumi anche se di non grave rilevanza.
Col quarto motivo di gravame il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 62 bis c.p., nonchè mancanza e manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e). In particolare rileva la difesa che erroneamente la Corte territoriale aveva escluso la concessione delle circostanze attenuanti generiche adducendo la gravità della condotta, mentre avrebbe dovuto prendere in considerazione tutti i parametri indicati nell'art. 133 c.p. e valutare quindi l'insussistenza di danni alla parte offesa, la giovane età del ricorrente, le condizioni di vita individuale, familiare e sociale dello stesso, l'ammissione degli addebiti.
Il rilievo è manifestamente infondato.
Osserva in proposito il Collegio che ai fini dell'applicazione delle circostanze attenuanti generiche di cui all'art. 62 bis c.p. il giudice, nell'esercizio del suo ampio potere discrezionale, deve riferirsi ai parametri di cui all'art. 133 c.p., ma non è necessario a tal fine che li esamini tutti essendo sufficiente che specifichi a quale di essi ha inteso fare riferimento; ciò in quanto anche un solo elemento che attiene alla personalità del colpevole o all'entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente per negare o concedere le attenuanti medesime (Cass. Sez. 2A sent. n. 4790 del 16/1/1996 dep. 10/5/1996 rv 204768).
A tale regola si è attenuta la Corte di Appello di Catanzaro la quale, ponendo in evidenza la "gravità della condotta, rivelata dalle modalità di commissione del fatto (programmata aggressione delle due donne afferrate per le spalle mentre erano intente a chiudere l'esercizio commerciale; una delle due veniva scaraventata per terra mentre l'altra veniva bloccata da uno dei correi con le mani sul collo)", ha implicitamente operato una valutazione sulla capacità a delinquere dell'imputato, facendo riferimento a quello, tra gli elementi indicati dall'art. 133 c.p., che riteneva prevalente ed atto a determinare il diniego della concessione del beneficio.
Col quinto motivo di gravame il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 448 del 1988, art. 30, nonchè mancanza e manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e). In particolare rileva la difesa che la Corte territoriale aveva escluso la applicazione all'imputato delle sanzioni sostitutive di cui alla norma predetta in considerazione della relazione negativa dei servizi sociali sulla sua personalità, facendo quindi riferimento ad una condizione non prevista da tale disposizione che indica invece quale unica condizione ostativa alla concessione delle sanzioni sostitutive della detenzione la condanna ad una pena superiore a due anni. E rileva altresì che i giudici di merito ben avrebbero potuto disporre la conversione della sanzione inflitta ai sensi della L. n. 689 del 1991, art. 53.
Il rilievo è manifestamente infondato ove si osservi che la disposizione di cui al D.P.R. n. 448 del 1988, art. 30 prevede che il giudice, qualora ritenga di dover applicare una pena detentiva non superiore a due anni, "può" applicare una sanzione sostitutiva "tenuto conto della personalità e delle esigenze di lavoro o di studio del minorenne nonchè delle sue condizioni familiari, sociali ed ambientali". Da ciò emerge che la applicazione di una sanzione sostitutiva è subordinata ad una valutazione positiva della personalità dell'imputato, e pertanto correttamente la Corte territoriale ha ritenuto che l'imputato non potesse usufruire di tale beneficio in considerazione del giudizio negativo sulla sua personalità emergente dalla relazione del servizio sociale.
E ad analoga conclusione, per gli stessi motivi, deve pervenirsi per quel che riguarda l'applicazione delle sanzioni sostitutive L. 24 novembre 1981, n. 689, ex art. 53, che il ricorrente invoca peraltro solo in caso di accoglimento del motivo di ricorso sub 2) concernente l'applicazione della esimente della desistenza volontaria, avuto riguardo alla circostanza che anche in tal caso il giudice "può" procedere alla sostituzione delle pene detentive applicate.
E pertanto anche sotto questo profilo il ricorso proposto denota la sua manifesta infondatezza.
Il ricorso deve di conseguenza essere dichiarato inammissibile.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, nella pubblica udienza, il 12 marzo 2008.

Depositato in Cancelleria il 11 aprile 2008