Cass. pen. Sez. II, 13.07.2006, n. 24312



Sentenza

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. COSENTINO Giuseppe Maria - Presidente
Dott. ESPOSITO Antonio - Consigliere
Dott. BERNABAI Renato - Consigliere
Dott. MONASTERO Francesco - Consigliere
Dott. TAVASSI Marina Anna - Consigliere

ha pronunciato la seguente: SENTENZA

sul ricorso proposto da:
S.M., N. IL (OMISSIS);

avverso SENTENZA del 05/03/2004 della CORTE DI APPELLO DI VENEZIA;

visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. ESPOSITO Antonio;
udito il Procuratore Generale in persona del Dott. D'AMBROSIO V., che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito il difensore avv. C. Avesani che ha chiesto raccoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

Con sentenza del 5.3.2004 la Corte di Appello di Venezia confermava la decisione del tribunale di Verona emessa in data 12.12.1997 con la quale S.M. veniva dichiarato responsabile dei reati ascrittigli e concesse le attenuanti generiche equivalenti all'aggravante contestata, ritenuta la continuazione, considerato più grave il delitto di cui al capo b) lo condannava alla pena di anni 4 di reclusione e L. 1.500.000 di multa oltre il pagamento delle spese processuali. All'imputato erano stati contestati i seguenti delitti:
A) del reato p. e p. dagli artt. 110, 56 c.p., dall'art. 629 c.p., comma ult., n. 1, dall'art. 629 c.p., commi 1 e 2, per avere, in concorso morale con altre 4 persone non identificate (tra cui M.M.), partecipato, determinato i suddetti a commettere il reato, al compimento di atti idonei diretti in modo non equivoco a farsi consegnare da M.E., che altri 4 percuotevano con pugni ed altro, 100 milioni di L. che S.M. aveva a suo tempo consegnato al M. a titolo di caparra per un contratto di vendita di un albergo, poi, risolto.
B) Reato p. e p. dall'art. 110 c.p., dall'art. 628 c.p., n. 1, per avere, in concorso morale con altre 4 persone non identificate (tra cui M.M.), partecipato, determinato i suddetti a commettere il reato, al compimento del delitto di rapina che ì 4 eseguivano impossessandosi di una borsa di M.E. contenente tre blocchetti di assegni bancari e documenti vari usando le violenze di cui al capo A. C) In (OMISSIS) il (OMISSIS).
Avverso la sentenza della Corte di appello di Verona ricorre per cassazione lo S. deducendo i seguenti motivi:
1) Mancanza ed illogicità della motivazione in punto di valutazione della prova - travisamento del fatto - violazione degli artt. 192, 194, 195 c.p.p., e dell'art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), art. 6.
Rileva il ricorrente che il giudice di I grado aveva ritenuto di conferire piena attendibilità al racconto della parte offesa, secondo il quale quattro sconosciuti, portativi i loco con una autovettura della quale era stato poi rilevato il numero di targa lo avrebbero avvicinato e, chiestogli se fosse lui M.E. e propostigli l'acquisto di pellame, lo avrebbero, rifiutata la proposta, aggredito; nel corso dell'aggressione uno dei quattro avrebbe proferito nei suoi confronti la frase "Ma tu devi dare dei soldi a M.".
Nei motivi dell'appello si rilevava che dalla deposizione della teste presente ai fatti P., erano emersi sia elementi di carattere generale, che avrebbero dovuto indurre la massima attenzione nel valutare le dichiarazione rese dalla parte offesa, quali il fatto che il M. - e dalla teste definito come una persona piuttosto strana - fosse prenditore di un cospicuo numero di cambiali in un contesto all'apparenza slegato dalla propria attività professionale, e che fosse ossessionato dal nome " M." che poi sarebbe stato pronunciato da uno degli aggressori, e sia elementi specifici tali da porsi in stridente contrasto con la versione da questi proposta.
Mentre il M. narrava di una aggressione fulminea, immotivata e per lui incomprensibile, sino a che non venne pronunciata la frase che coinvolgeva il M., la donna, infatti, ricordava che l'aggressione venne preceduta da una discussione che si protrasse per circa 10-15 minuti, e che il M. rientrato in ufficio disse che nella borsa, che gli era stata sottratta, aveva non meglio precisato titolo di credito di uno degli aggressori; non riferì la circostanza ai carabinieri di li a poco intervenuti e simmetricamente rientrato in ufficio non risultava aver fatto menzione del nominativo di M., ancorché questi gli fosse stato poco prima nominato da uno degli aggressori, il che appariva quantomeno singolare.
Nei motivi d'appello non si era affatto inteso mettere in dubbio l'aggressione patita dal M., quanto invece, in primo luogo, il fatto che in quel contesto fosse stata pronunciata la frase "ma tu devi i soldi a M." e soprattutto, nella non concessa ipotesi che ciò fosse accaduto, che il motivo della trasferta dei quattro sconosciuti fosse da individuare come attinente agli interessi dello S..
Che tanto fosse possibile revocare in dubbio si coglieva dalla parte della testimonianza P. dalla quale si deduceva emergere come il M. nell'immediatezza dell'aggressione avesse posto la stessa in relazione all'interno di uno degli aggressori di recuperare in pagamento (e cioè un titolo di credito) che lo riguardava, contenuto nella borsa sottrattagli e poi ritrovata, non menzionando affatto la spendita del nome di M., salvo fornire poco dopo ai carabinieri una ben diversa prospettazione dei fatti.
Contrariamente a quanto argomentato dalla Corte lagunare, questa parte della deposizione della P. non è stata affatto considerata dal primo Giudice, poiché non ve né traccia alcuna nella motivazione della sentenza di primo grado, né la Corte ha fornito benché minima risposta sul punto al motivo d'appello.
La motivazione della sentenza d'appello appariva quindi gravemente illogica e carente, poiché, affermando ciò che, palesemente non è, omette di dare una qualsivoglia risposta ad uno specifico motivo di gravame relativamente alla valutazione delle prove - in ordine ad una circostanza di non poco momento poiché astrattamente idonea a spiegare le motivazioni dell'aggressione non già come estorsione per conto di terzi, ma al contrario come rapina nell'interesse proprio - in violazione del disposto dell'art. 192 c.p.p., comma 1, dell'art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione all'art. 606 c.p.p., lett. e).
Chiede, pertanto, il ricorrente, l'annullamento sul punto dell'impugnata sentenza.
2) Mancanza ed illogicità della motivazione in punto di individuazione dello S. quale mandante della tentata estorsione. Violazione dell'art. 192 c.p.p., comma 2, in relazione all'art. 606 c.p.p., lett. e).
A parere del ricorrente le carenze motivazionali dianzi segnalate si riverberavano, ampliandosi, su quello che della vicenda era l'aspetto centrale, e cioè, l'individuazione dello S. quale mandante della tentata estorsione.
La motivazione appare carente e illogica, oltre a disgelare l'avvenuta violazione della regola di giudizio prevista in tema di valutazione degli indizi dall'art. 192 c.p.p., comma 2.
Contrariamente a quanto argomentato dalla Corte la ricostruzione della vicenda è assistita da prove con riferimento all'aggressione patita dal M., all'individuazione dell'auto dei malfattori, ed al fatto che in quel contesto sia stata pronunciata la frase "Ma tu devi dare i soldi a M."; tale ultimo aspetto della vicenda è asseverato dalla sola dichiarazione del M., che sia per essere la parte lesa, sia per essere stata la sua complessiva credibilità inficiata da più elementi negativi (il riconoscimento del coimputato M., poi assolto in quanto assistito da alibi, l'esistenza di un precedente rancore nei confronti dello S., la deposizione della P. nella parte in cui emergeva la possibilità che l'aggressione del M., per come da questi prospettata alla donna nell'immediatezza del fatto, fosse riconducibile ad interesse proprio di uno dei quattro autori materiali del fatto, piuttosto che non all'esecuzione di un mandato ricevuto da terzi) avrebbe dovuto essere sottoposta ad una verifica dettagliata e non accettata come al contrario fatto dalla Corte d'appello di Venezia con generica argomentazione giustificativa (vd. Per tutte Cass. Sez., 8 marzo 2000 n. 7027 Di Telia).
3) Violazione e falsa interpretazione dell'art. 629 c.p. In relazione all'art. 393 c.p., all'art. 606 c.p.p., lett b).
Mancanza ed illogicità di motivazione sul punto - violazione dell'art. 530 c.p.p., comma 2, in relazione all'art. 606. c.p.p., lett. e).
Il primo giudice aveva concluso che il reato di tentata estorsione ascritto allo S. potesse essere qualificato come esercizio arbitrario delle proprie ragioni osservando essere pacifico alla stregua del documento prodotto (da terzi) in atti che l'imputato fosse receduto dal contratto, autorizzando il M. a trattenere la somma di L. 100 milioni a titolo di risarcimento, di talché, a fronte di ciò, il pervenuto non poteva certo pensare di poter vantare alcun diritto alla restituzione delle somme, trattandosi di un rapporto già ampiamente definito.
Tanto premesso aveva osservato la difesa nei motivi di appello come, alla stregua dei dati disponibili, ancorché formalmente il documento in atti apparisse definire formalmente il rapporto, non potesse affatto escludersi che il recesso fosse impugnabile avanti il giudice civile, ad esempio per difetto di poteri di rappresentanza del M. con riferimento alla M.G.M. della quale era amministratrice non già egli ma la figlia, per difetto di forma delle procure menzionate nell'atto, vertendosi in tema di compravendita di immobili da farsi per atto pubblico o scrittura privata autenticata, o per gli altri motivi ipotizzati nell'impugnazione.
Tanto premesso, e rilevato che i due reati dianzi menzionati si distinguono non già per la materialità del fatto, che può essere identico, ma per l'elemento intenzionale, e che la possibilità di ricorrere altrimenti all'autorità giudiziaria deve essere riguardata non già nella sua oggettività quale sinonimo di fondatezza dell'azione, ma al contrario nella prospettiva soggettiva dell'agente, come sussistenza di un ragionevole convincimento circa la possibilità di adire le vie legali, si invocava l'applicabilità, in ordine alla qualificazione giuridica del fatto, del canone in dubio pro reo, il che avrebbe condotto al proscioglimento dello S. per il meno grave reato di cui all'art. 393 c.p. per difetto di querela, e successivamente per intervenuta prescrizione.
La Corte territoriale aveva rigettato il gravame sul punto, osservando che il rapporto appariva pacificamente definito non emergendo elementi che possano far ritenere il contrario, né possano avvalorare il diritto dell'imputato di poter pretendere la restituzione del danaro, di talché la richiesta derubricazione non appariva concepibile, con il che la Corte aveva omesso di motivare in ordine a quanto prospettato coi motivi di appello ed ha fatto ridondare l'incertezza della situazione in danno dell'imputato, interpretando falsamente l'art. 393 c.p. in relazione all'art. 629 c.p. e violando la regola di giudizio prevista dall'art. 530 c.p.p., comma 2, anche in relazione all'art. 531 c.p.p. Si chiede pertanto l'annullamento sul punto dell'impugnata sentenza.
4) Violazione e falsa interpretazione dell'art. 116 c.p., art. 606 c.p.p., lett b).
Mancanza ed illogicità di motivazione sul punto all'art. 606 c.p.p., lett. e).
Lo S. era imputato anche quale concorrente morale del reato di rapina di cui al capo b) della rubrica.
Il Primo Giudice aveva ritenuto che non vi fossero prove in ordine ad un suo concorso, nei termini di cui all'imputazione, nella commissione di tale reato e cionondimeno lo ha condannato quale concorrente anomalo ai sensi dell'art. 116 c.p. ritenendo la successiva rapina sviluppo non imprevedibile né atipico rispetto all'estorsione della quale egli sarebbe stato il mandante.
Avverso detta statuizione veniva interposto appello, osservando come il ragionamento, valido per categorie generali non lo era nel caso concreto, poiché se l'istigatore si proponeva di rientrare in possesso della somma di L. 100 milioni ed aveva inviato i quattro dal M. a minacciarlo per far sì che egli si decidesse a versargli successivamente detta somma, non era per lui prevedibile che costoro si determinassero a sottrarre effetti personali della parte lesa, poiché nessuno porta con simili somme.
Inoltre se lo scopo della violenza posta in essere dagli aggressori era finalizzata a convincere il M. a riversare la somma in parola allo S., come ritenuto dal Primo Giudice, se ne doveva inferire, considerando la dinamica del fatto, che i quattro, allorché il M. spaventato per l'aggressione si era allontanato dalla propria autovettura, rifugiandosi nei vicini uffici, avevano semplicemente approfittato dell'occasione per impossessarsi della valigetta momentaneamente incustodita, di talché essendosi realizzato, tra reato voluto e quello più grave commesso dagli autori materiali, un rapporto di mera occasionala, poteva escludersi la sussistenza del reato di rapina, trattandosi invece di furto, e comunque la corresponsabilità del compartecipe ex art. 116 c.p. (vd. Cass. Sez I 11 maggio 1994 Scaringella).
Ci si doleva in ogni caso del fatto che il tribunale, condannando lo S. quale concorrente anomalo ex art. 116 per un reato ulteriore e più grave rispetto a quello alla cui commissione aveva concorso, gli avesse immotivatamente negato la diminuzione di pena in tal caso prevista dall'art. 116 c.p., comma ultimo.
La motivazione espressa sul punto dalla Corte territoriale appare carente, illogica e gravemente contradditoria, e disvela una violazione del disposto dell'ultimo comma dell'art. 116 c.p. Si chiede quindi l'annullamento sul punto dell'impugnata sentenza.
5) Violazione e falsa applicazione dell'art. 62 c.p., n. 4, art. 606 c.p.p., lett b).
Mancanza ed illogicità di motivazione sul punto all'art. 606 c.p.p., lett. e).
La concessione di detta attenuante, richiesta sul rilievo che oggetto della rapina era stata una borsa contenente beni di modestissimo valore materiale, quali blocchetti di assegno in bianco, era stata negata dalla Corte Veneta, che ha argomentato come la possibilità di compilazione dei titoli produca un'aggressione al patrimonio del danneggiato, rammentando poi la pericolosità della figura del mandante.
Orbene, ogni considerazione in ordine al mandante è qui del tutto ultronea, ed appare del tutto illogica, dovendo la concessione di detta attenuante essere parametrata unicamente all'oggettivo valore del danno cagionato alla parte offesa; per valutare se essa debba o meno concedersi, in relazione a moduli di assegni in bianco, la valutazione del danno stesso va eseguita in base al valore di detti moduli e non al diritto di credito eventualmente presi in ipotesi incorporabile nei titoli (Cass. Sez. II, 28 settembre 1992 Cacace).
Si chiede pertanto l'annullamento sul punto dell'impugnata sentenza.
Tanto premesso il ricorrente chiede che la Corte di Cassazione voglia, in accoglimento dei suesposti motivi, annullare l'impugnata sentenza con ogni conseguente provvidenza di legge.

Motivi della decisione

I primi due motivi della decisione sono inammissibili sia perché si risolvono in censure di mero fatto attinenti alla ricostruzione, in chiave diversa e alternativa, della vicenda sia perché, in ogni caso, manifestamente infondati avendo la Corte di merito ampiamente, puntualmente e esattamente motivato sulla doglianza contenuta sull'atto di appello facendo riferimento a numerose risultanze processuali correttamente valutate.
Ha spiegato la Corte che nel caso di specie vi erano prove dirette costituite tra l'altro:
1) dalla deposizione della parte lesa che era apparsa chiara e univoca su circostanza di fondamentale rilievo per l'Accertamenteo della penale responsabilità (le lesioni subite e le frasi pronunciate e la condotta degli aggressori);
2) dalla deposizione della teste oculare P.S. che è apparsa chiara e univoca su circostanza di fondamentale rilievo per l'accertamento della penale responsabilità (i mezzi usati e la targa dell'auto, la dinamica dell'aggressione così come fu dalla stessa vista dall'interno dell'ufficio ove la stessa si trovava);
3) dalla piena coincidenza tra circostanze riferite dalla teste oculare (il numero di targa) e gli accertamenti svolti dall'immediatezza e contestualità da parte dei carabinieri;
4) dalla piena coincidenza tra circostanze riferite dalla parte lesa (le lesioni subite e la dinamica dell'aggressione) gli accertamenti sanitari così come risultanti dal referto di cui agli atti.
5) costituiva piena prova anche quanto riferito dal maresciallo Tenuti in ordine alla disponibilità da parte dell'imputato della autovettura BMW utilizzata per la aggressione.
Ancora più esaustiva e puntuale è la motivazione del Giudice di I grado che così argomenta: " S.M. è persona ben conosciuta dal M. che ha dichiarato come nel momento in cui uno degli aggressori pronunciava la frase "ma tu devi dare i soldi al Marcello" abbia immediatamente pensato che questi soggetti fossero stati mandati dallo S.. La persona offesa ha spiegato che con quest'ultimo nel 1990 aveva stipulato un preliminare di compravendita dell'albergo Menelao di Peschiera del Garda di proprietà di società di cui era legale rappresentante la figlia; che tale contratto prevedeva il versamento, effettivamente avvenuto, da parte dello S., della somma di 100 milioni a titolo di caparra e il passaggio immediato della gestione dell'attività in capo allo stesso con mantenimento, fino all'avvenuto integrale pagamento del corrispettivo, pari a L. 1 miliardo, dell'amministrazione contabile in capo al M. per parte venditrice; che qualche mese dopo addivenivano ad una risoluzione del contratto e a titolo di risarcimento danni lo S. riconosceva al promettente venditore la somma di L. 100 milioni già versata come caparra, che circa due mesi dopo la risoluzione del preliminare in un incontro, richiesto con insistenza dallo S., questi lo minacciava con frasi tipo "tu pensi che io possa rimetterci questi soldi?" "se vuoi sapere chi sono io se hai qualche amico telefona in Sicilia" "fatti dire chi sono io ". Attraverso il meccanismo della contestazione il PM ha fatto emergere un altro episodio significativo avvenuto venti giorni prima dell'aggressione: il M. aveva di nuovo incontrato lo S. in compagnia di tale C. e in quella circostanza lo S. disse con riferimento alle proprie condizioni economiche che ormai non aveva più nulla da perdere. Il M., infine, ha precisato di non conoscere altre persone aventi nome proprio Marcello".
"Che le parti si conoscessero non è mai sto posto in dubbio, che il M. avesse la disponibilità dell'albergo Menelao risulta confermato dalla teste P.. Lo scioglimento del contratto preliminare è avvalorato dalla produzione del documento pervenuto nel corso dell'ultima udienza dibattimentale al tribunale tramite l'avv. Sergio Segna, indicato dal M. quale depositario della scrittura".
Tale ultima risultanza rende infondato anche il terzo motivo di ricorso avendo correttamente, entrambi i Giudici del merito, escluso che, nella specie, potesse essere ravvisata la meno grave fattispecie di cui all'art. 393 c.p. apparendo il diritto alla restituzione del danno sfornito di qualsiasi "fumus" poiché non sussisteva in atti alcun elemento o documento che potesse avvalorare il diritto dell'imputato di poter astrattamente pretendere a restituzione del denaro consegnato al M. - (sicuramente da ritenersi a titolo di risarcimento del danno per esser stato risoluto il contratto preliminare) - trattandosi di un rapporto contrattuale oramai ampiamente definito.
Infondato è anche il quinto motivo di ricorso avendo la corte di merito puntualmente e correttamente spiegato le ragioni per le quali non si riteneva di concedere la chiesta attenuante ex art. 62 c.p. Fondato è, invece, il IV motivo di ricorso.
Sul punto il Giudice di I grado ha così genericamente e apoditticamente? Motivato.
"Lo S. va dichiarato responsabile anche del dattilo di cui al capo b) (rapina) della rubrica poiché, se è vero che non vi sono elementi per affermare che egli abbia dato incarico al quattro individui di sottrarre la valigetta al M., è altrettanto vero cha l'impossessamento del bene viene posto in essere nel contesto del tutto illegale dal pervenuto determinato e va considerato come sviluppo non eccezionale né atipico dell'azione per la quale era stato dato mandato (art 116 c.p.)".
Ancora più generica è la motivazione della Corte di merito la quale si è limitata ad affermare che "il fallo è peraltro correttamente qualificato come rapina trattandosi di rapina, giacché l'uso della violenza è con tutta evidenza finalizzato all'impossessamento, fatto questo che così appare descritto dalla P. e dalla parte lesa richiamandosi per l'art. 116 c.p. quanto esattamente affermato dal Giudice di primo...".
Invero - stabilito che: "In tema di concorso anomalo, la corresponsabilità del partecipe ex art. 116 c.p. può essere esclusa solo quando il reato diverso e più grave si presentì come un evento atipico, dovuto a circostanze eccezionali e del tutto imprevedibili, non collegato in alcun modo al fatto criminoso su cui si è innestato, oppure quando si verifichi un rapporto di mera occasionali idoneo ad escludere il nesso di casualità" (Cass. Pen. Sez. I, 13 giugno 1994, n. 6827, ud. 11 maggio 1994, Scaringella) ovvero "quando il reato si presenti come frutto di personale ed autonoma determinazione del suo autore e non riconducibile, perciò, al reato concordato" (Cass. Pen. sez. I, 26 novembre l983, n. 10123, ud. 20 maggio 1983, Cannas) - deve rilevarsi che l'art. 116 c.p. non richiede che l'evento sia stato correttamente previsto e tanto meno accettato dal soggetto, quale possibile conseguenza della sua azione od omissione, ma che esso sia prevedibile in astratto, in base all'ordinato svolgersi delle situazioni umane. Tale criterio deve poi dal Giudice essere determinato in concreto tenendo conto di tutte le circostanze che accompagnano l'azione dei concorrenti e con il paramentro dell'uomo medio "eiusdem condicionis et professionis" (Cass. 7.5.1985 n. 4196).
Orbene tale accertamento è mancato del tutto nel caso in specie sì che la sentenza è incorsa nel vizio di omessa motivazione, da cui deriva, conseguentemente, l'annullamento sul punto.

P.Q.M.

La Suprema Corte" di Cassazione, li sezione penale, annulla con rinvio l'impugnata sentenza limitatamente al delitto di rapina e dispone che gli atti siano trasmessi ad altra sezione della Corte di Appello di Venezia per nuovo giudizio.

Così deciso in Roma, il 16 maggio 2006.

Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2006