Paolo Pittaro, Legittimo il comportamento...



LEGITTIMO IL COMPORTAMENTO DELL'INSEGNANTE TESO A PUNIRE EDUCANDO IL BULLISMO DELL'ALLIEVO



LEGITTIMO IL COMPORTAMENTO DELL'INSEGNANTE TESO A PUNIRE EDUCANDO IL BULLISMO DELL'ALLIEVO

Pittaro Paolo

Accade spesso che i media riportino la notizia di una qualche decisione giudiziaria suscitando un certo scalpore nella pubblica opinione, ritenendola, di volta in volta, come bizzarra, o estremamente lassista ovvero scandalosamente rigorosa, oppure ancora come espressione di un orientamento politico-sociale retrivo o retrogrado e via dicendo. Nulla da dire: non esistono tabù intoccabili ed anche le sentenze, se rimangono nell'ambito del sacrosanto diritto di espressione e non sfociano in espressioni ingiuriose nei confronti dei loro compilatori, possono essere soggette a critica. Anzi, da operatori del diritto, siamo proprio noi i primi a sottoporle a costante ed accurato vaglio: impietoso, se del caso.
Altrettanto spesso, tuttavia, gli stessi mezzi di comunicazione, e perfino quelli specializzati nella cronaca giudiziaria (ovvero di "nera", come usualmente si dice) ignorano gli esatti termini giuridici della decisione che diffondono, magari commentandola in tono acceso, ma dimostrando, ad una attenta lettura della stessa, di non conoscere appieno la fattispecie concreta e/o gli esatti termini del ragionamento giuridico dell'organo decidente ed il dettato della norma applicata: una superficialità a volte macroscopica, che - alla fin fine - si rivela fuorviante nei confronti della pubblica opinione (1).
Apparentemente lineare il caso in esame: una professoressa aveva fatto scrivere ad un alunno undicenne sul quaderno, a titolo punitivo, per cento volte la frase "sono deficiente". Donde la denuncia, da parte del genitore, per abuso dei mezzi di violazione o di disciplina, quale delitto previsto e punito dall'art. 571 c.p. A seguito di giudizio abbreviato, l'insegnante veniva prosciolta "perché i fatti non sussistono".
Ben immaginabile, a questo punto, l'altoparlante mediatico, pronto a stracciarsi le vesti a fronte di una realtà inconfutabile (l'effettivo, provato scontarsi di tale punizione), e di un mezzo disciplinare ritenuto marcatamente antiquato e con un contenuto, a dir poco, offensivo, sprezzante della dignità, dell'onore, ossia, in altri termini, dei diritti fondamentali del minore, e proprio nel contesto dell'istituzione scolastica.
Invero, le cose non stanno proprio così, e la fattispecie merita un approfondimento, seppur schematico.

Il delitto di "abuso dei mezzi di correzione o di disciplina"di cui all'art. 571 c.p.
Il delitto di "Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina" è previsto dall'art. 571 c.p., in forza del quale "chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito, se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei mesi". Peraltro, continua il capoverso, "se dal fatto deriva una lesione personale, si applicano le pene stabilite negli articoli 582 e 583, ridotte a un terzo; se ne deriva la morte, si applica la reclusione da tre a otto anni" (2).
Di tale fattispecie, in genere, si mette in luce l'anacronismo, incentrato su quello ius corrigendi (3), largamente inteso, che risale a tempi ben lontani e che, com'è noto, aveva a suo tempo persino contraddistinto il potere disciplinare del marito verso la moglie: ipotesi, non riconducibile all'art. 571 c.p. neanche nella sua più arcaica interpretazione (4), ritenuto oramai incompatibile con l'evoluzione dei rapporti familiari e sociali (5), con il nuovo diritto di famiglia (art. 143 c.c.) e, soprattutto, con l'assetto costituzionale (art. 29, comma 2, Cost.).
Peraltro, forti critiche suscita la stessa posizione "topografica" della norma, collocata sì nell'ambito dei "Delitti contro la famiglia" (Titolo XI del Libro Secondo), mentre l'analoga disposizione del codice Zanardelli (art. 390) rientrava, in una visione certo più comprensibile, nel novero dei delitti contro la persona (6), ma anche, e soprattutto, nel contesto del Capo IV, dedicato ai "Delitti contro l'assistenza familiare". Disagio condiviso, peraltro, con tutti i delitti a seguire (art. 572: "Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli"; art. 573: "Sottrazione consensuale di minorenni"; art. 574: "Sottrazione di persone incapaci"), posto che solamente la norma iniziale (art. 570: "Violazione degli obblighi di assistenza familiare") sarebbe chiaramente riconducibile alla rubrica comune (7): e con tutte le connesse difficoltà per individuarne il bene tutelato.
La critica coglie solo parzialmente nel segno: il potere correttivo e disciplinare non può essere visto come mera espressione di un indiscusso status di supremazia o di tutela di una posizione, per così dire, gerarchica: tutt'altro. Lo ius corrigendi è attribuito in funzione ed a favore del soggetto da correggere, in modo da far sì che lo sviluppo psico-fisico, morale, scolastico, sociale, professionale dello stesso avvenga in modo regolare ed armonico o, perlomeno, tale da evitare pericolose devianze.
In tale contesto, allora, il cennato potere sarebbe espressione proprio di "assistenza" familiare: rectius, espressione di quel diritto-dovere dei genitori di educare ed istruire i figli, come sancito, del resto, dall'art. 30 della Carta costituzionale. Ed in effetti, specie in un ordinamento democratico, "la potestà dei genitori non è un potere sui minori, ma un potere per i minori" (8). Per quanto concerne, invece, i rimanenti soggetti (come l'insegnante, nel nostro caso), acutamente ne viene messo il luce il rapporto para-familiare (9), in una funzione di ausilio, di delega o di supplenza dei compiti della famiglia: espressione di quel principio di sussidiarietà (10), che intercorrerebbe anche tra l'istituzione familiare di base e le altre entità vicarie.
Ai sensi del primo comma dell'art. 571 l'abuso dei mezzi correttivi e disciplinari viene punito solo "se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente": trattasi dunque di un reato di pericolo (11) e il citato inciso deve considerarsi come una condizione obiettiva di punibilità. L'atteggiarsi di quest'ultimo istituto è ben noto (12). Si tratta, pertanto, di chiedersi se trattasi di una condizione di punibilità estrinseca ovvero intrinseca: nel primo caso, disciplinato dall'art. 44 c.p., l'evento (id est: il cennato pericolo di una malattia nel corpo o nella mente) sarebbe estraneo al reato, già perfetto in tutti i suoi elementi, e, rilevando oggettivamente, ne condizionerebbe solo la punibilità; nel secondo caso, invece, sarebbe parte del fatto di reato e, come tale, dovrebbe essere coperto dal dolo dell'agente.
Invero, raramente si è dubitato, in dottrina ed in giurisprudenza, trattarsi della prima ipotesi. In effetti, bisogna chiedersi se il disvalore del fatto stia nell'abuso dei mezzi correttivi o se, invece, esso consti non nell'abuso in sé, bensì in quel particolare abuso, che abbia comportato il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente. La differenza non sembri risibile (in ogni caso, in assenza del citato pericolo, il soggetto non verrà punito), ma di assoluto rilievo dogmatico sul piano dell'elemento soggettivo: se nella prima ipotesi è sufficiente la volontà dell'abuso correttivo o disciplinare, nella seconda è, invece, necessaria anche la consapevolezza del pericolo di una malattia nel corpo o nella mente per il soggetto sottoposto che da tale abuso potrebbe derivare (13).
Ora, posto che, come s'è visto supra, lo ius corrigendi non è espressione di un potere in sé, ma funzionale agli interessi del soggetto da correggere, sembra del tutto plausibile che l'illiceità (ovverosia, in altri termini: il disvalore) del fatto consista già nel distorto o non corretto uso di tale diritto-dovere: in definitiva, nel suo abuso. Che, poi, l'ordinamento, dopo averne affermato la rilevanza penale, ne subordini la punibilità al conseguente, possibile pericolo di una malattia fisica o mentale, appare una chiara scelta di politica criminale e di economia processuale (14). Mentre resta, in ogni caso, fermo il principio di fondo che l'abuso dei mezzi di correzione o disciplina costituisce un reato perfetto nei suoi elementi: in definitiva, un comportamento vietato.
Ovviamente, il pericolo non deve attuarsi, ché, altrimenti, ricadremmo nella previsione del secondo comma del medesimo art. 571 c.p.

L'"abuso" dello jus corrigendi
Peraltro, il concetto di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina rinvia, e non potrebbe essere diversamente, al suo corretto uso. Ed, in effetti, nella più classica concezione, il fulcro della norma è rappresentato da quello jus corrigendi, che ne rappresenterebbe, per così dire, la carta d'identità. Invero, anche tale concetto necessita di alcune precisazioni.
Ribadiamo, innanzi tutto, che tale diritto-dovere è attribuito in funzione del soggetto da correggere: il suo uso, pertanto, è affatto condizionato da un comportamento di tale soggetto abbisognevole di correzione, ovvero da una sua mancanza disciplinare. Se tale presupposto non sussiste, neanche l'abuso può venire alla luce (15).
L'uso, dunque, dev'essere lecito, mentre l'abuso deve misurarsi, in via di massima, nella proporzionalità o nell'adeguatezza sociale dei mezzi di correzione usati (16). Per giurisprudenza costante (17) sono illeciti i mezzi contrastanti con lo scopo disciplinare, avuto anche riguardo alla sostanza ed alla potenzialità dei mezzi usati, alle modalità di tempo e di luogo ed alle condizioni della persona nei cui confronti tali mezzi sono stati adoperati (18).
In ultima istanza, esclusi i mezzi illeciti od incompatibili, la vera questione dello jus corrigendi si radica nei limiti dell'uso di quella violenza lecita, dalla dottrina già accettata con riserve (la c.d. vis modica) e che ora l'evolversi del costume sociale racchiuderebbe nei ranghi di una vis vere modicissima (19). Anzi: la questione va ulteriormente riconsiderata, poiché, generalmente, il problema non può porsi nell'ambito di quelle istituzioni già definite, supra, come para-familiari (cui il soggetto è affidato per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza, custodia ovvero per l'esercizio di una professione o di un'arte). Infatti, nei vari contesti (scolastico, professionale, sanitario, penitenziario et similia) è la norma stessa a regolamentare i comportamenti e gli illeciti, i provvedimenti correttivi e le sanzioni disciplinari.
Se, dunque, in tali istituzioni non viene mai ammessa (se non in casi eccezionali e sempre nei confronti di un soggetto che, ad esempio, potrebbe nuocere a se stesso o ad altri) alcuna forma di violenza, il problema si incentra, in modo pressoché esclusivo, nel contesto familiare.
Infine, un deciso contrasto si deve riscontare per quanto concerne l'elemento soggettivo del reato, ritenendosi sufficiente, da una parte della dottrina, il classico dolo generico, mentre altri, giurisprudenza compresa, riterrebbe necessario il dolo specifico, consistente nell'animus di esercitare lo jus corrigendi (20).
Delle due impostazioni maggiormente fondata sembra la prima: investendo il dolo (generico) il fatto di reato, necessariamente esso implica la consapevolezza dell'abuso e della natura correzionale o disciplinare del mezzo usato (21). Non appare necessario, quindi, per l'atteggiarsi della fattispecie, quel quid pluris teleologicamente contraddistinto, che, nel reato in oggetto, consisterebbe proprio nella ulteriore, particolare finalità correttiva e disciplinare per cui il mezzo viene usato (o, rectius, di cui si abusa).
Peraltro, aver insistito, spesso in modo esagerato, sul dolo specifico dello jus corrigendi ha portato, da un canto, quasi a "ridurre" a questo elemento la complessa struttura dell'istituto, e, dall'altro lato, a ritenerlo carattere distintivo rispetto al delitto di "Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli", di cui al successivo art. 572 c.p.: reato necessariamente abituale, a dolo generico e consistente nell'uso di mezzi ex se certamente illeciti (22).
Invero, la Cassazione, dopo alcuni scivolamenti, in una importante decisione (23), ha affermato a chiare lettere che, alla luce della concezione personalistica e pluralistica della Costituzione (art. 2, 3, 29, 30, 31), del riformato diritto di famiglia (art. 147 c.c.) e della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo (New York, 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991, n. 176), non può più ritenersi lecito l'uso della violenza finalizzato a scopi educativi. Pertanto, l'eccesso di mezzi di correzione violenti non rientra nella fattispecie nell'art. 571, neanche se retto dall'animus corrigendi. Ne deriva che la differenza fra la fattispecie dell'art. 571 e quella dell'art. 572 consiste nella condotta e non già nell'elemento soggettivo nel reato, che si atteggia in entrambi come dolo generico.

La fattispecie in oggetto: il comportamento bullistico dell'allievo...
Nella decisione in commento il giudice si preoccupa, innanzi tutto, di escludere categoricamente che il comportamento dell'imputata abbia comportato il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente del giovane alunno. Ed il tutto sulla base sia di irrefutabili esposizioni di medici specialisti, sia delle dichiarazioni della vittima e dello stesso genitore querelante, il quale ammette che la lamentata inquietudine psichica del figlio era iniziata ben prima della vicenda in oggetto.
A questo punto, venendo meno la condizione oggettiva di punibilità, il procedimento avrebbe anche concludersi qui: con una sentenza di assoluzione (art. 530 c.p.p.) con la formula "perché l'imputato non è punibile". Il che, tuttavia, significava anche ammettere che il fatto sussisteva e costituiva reato, con le conseguenti possibili aperture sul versante del diritto civile o di quello amministrativo. Ovvero ancora, aderendo all'opinione minoritaria che ritiene come intrinseca la condizione di punibilità del pericolo della malattia, un'assoluzione sì con una più ampia formula di merito, ma ammettendo implicitamente l'effettuato abuso dei mezzi di correzione o di disciplina.
La valutazione del giudicante va invece oltre ed approfondisce i termini della questione. Dopo un'accurata esposizione della fattispecie di cui all'art. 571 c.p. alla luce dell'evoluzione nel tempo dell'istituto, della giurisprudenza recente e delle convenzioni internazionali sul tema, arriva al punto cruciale, che presenta un duplice profilo. Primo: l'abuso dei mezzi di correzione e di disciplina implica la correttezza e l'ammissibilità dell'uso stesso, ove viene inibita qualsiasi forma di violenza; secondo: deve sussistere il dolo dell'abuso, ossia la piena conoscenza della sproporzionalità oggettiva dei mezzi correttivi impiegati rispetto alla condotta dell'allievo da correggere.
È dunque proprio dal comportamento di questi che bisogna partire.
Il ragazzo, già noto per il suo carattere indisciplinato ed oggetto di varie annotazioni al riguardo da parte di vari docenti, aveva preso di mira un collega, più mite, beffeggiandolo per una sua supposta diversità sessuale. Il tutto culminato nell'impedirgli l'accesso ai servizi igienici riservati ai maschi, in quanto ritenuto gay.
Venuta a conoscenza del fatto, l'insegnante aveva statuito non solo la punizione di cui sopra, ma anche il contemporaneo commento scritto della stessa e dell'atteggiamento del bullo da parte di tutti i componenti della classe.

...e la corretta ed efficace reazione dell'insegnante
IL G.U.P., assodato che le azioni del ragazzo avevano un indiscutibile connotato di bullismo, afferma, alla luce di ampie citazioni delle scienze comportamentali, che esso presentava una forma tale - con nette conseguenze negative per il soggetto passivo - per cui esso doveva venir contrastato in via efficace ed immediata. Infatti, com'è noto, la violenza percepita potrebbe essere, se sedimentata nel tempo, devastante per la vittima, specie per il suo sviluppo ed equilibrio psichico, potendo anche condurre, come vari episodi di cronaca confermano, anche al suicidio.
Parimenti, doveva essere immediatamente spezzato il connubio che avrebbe potuto legare il bullo e la classe stessa, pronta a schierarsi dalla parte del più forte, magari ponendolo ad esempio da imitare, con danni molto pronunciati verso l'intera comunità e con il deterioramento della funzione educativa nei confronti della classe tutta.
D'altro canto, non poteva ritenersi sufficiente la semplice annotazione sul registro di classe, di per sé inutile (come già in precedenza successo proprio in riferimento a tale allievo) e, anzi, controproducente, in quanto il comportamento tenuto dal giovane bullo sarebbe stato da lui considerato come un'ulteriore sfida alle istituzioni, incapaci di reagire, se non con questo mero atto burocratico, di per sé inane, come un tellum imbelle sine ictu.
In definitiva, necessitava, anzi, urgeva un intervento immediato e fortemente educativo nei confronti sia del soggetto deviante sia della classe tutta, onde evitare forme di sostegno o di ammirazione.
Peraltro, la frase "sono deficiente" imposta al ragazzo autore della sopraffazione nella sua centupla ripetizione, era stata previamente spiegata nel suo significato (da notarsi come l'insegnante non lo avesse previamente insultato appellandolo come deficiente): deficiente nel senso etimologico (deficiere) di mancante. E quivi mancante di sensibilità e di comprensione verso il prossimo: nella fattispecie, nei confronti del compagno più debole.
Non solo: a tutta la classe era stato imposto una sorta di tema, avente per oggetto proprio la valutazione che ognuno poteva dare sia del comportamento del compagno, sia della punizione accordatagli. E da questi elaborati scritti dagli allievi della classe era emersa una forte stigmatizzazione del gesto di bullismo del compagno (come le scuse da parte di chi gli aveva dato manforte) e di netta comprensione delle dimensioni etiche e sociali della frase oggetto del contenuto della punizione.
Infine, mancando nell'istituto scolastico quei presìdi (con la partecipazione anche di genitori) atti a prevenire il fenomeno del bullismo, nessun'altra possibilità di intervento immediato era possibile, essendo lo stesso rimesso, in ultima istanza, all'iniziativa dell'insegnante.

Una sentenza "educativa"
Di conseguenza, il G.U.P. riteneva tale iniziativa non sproporzionata al fatto, efficace nelle modalità della sua effettuazione, e mossa solamente da intenti educativi nei confronti del ragazzo autore del comportamento vessatorio e di tutta la classe.
Da qui l'assoluzione perché il fatto non sussiste: e con la motivazione (non solo il dispositivo) letta integralmente (una modalità affatto inusuale) in udienza: come dire che, in fondo, anche il giudice è un educatore.
In effetti, la decisione de qua presenta i cennati aspetti, a nostro avviso, rimarchevoli non solo dal profilo giuridico, quanto - e soprattutto - da quello sociale: un vero e proprio richiamo degli istituti di istruzione al loro compito di formazione dei giovani, in quanto troppo spesso in balìa del lassismo, della superficialità e della quotidianità, in un ambiente umano rinunciatario, rassegnato di fronte alla violenza ed all'indisciplina: in altri termini, eticamente degradato. Per non parlare della famiglia, che ha totalmente abbandonato il suo compito primario di educazione e di formazione, pronta solo a difendere il figlio aggressivo e violento (ed anche se solo fannullone o sfaticato rispetto al livello di istruzione impartito) contro l'istituzione scolastica (vuoi rivolgendosi alla magistratura ordinaria, vuoi a quella amministrativa per l'annullamento delle sporadiche bocciature).
Ora, sempre dai media apprendiamo che il P.M. ha impugnato il provvedimento e con una motivazione molto ampia. Nell'interrogarci di fronte a tale impegno accusatorio, attendiamo di conoscere se le motivazioni sono strettamente giuridiche ovvero se non condividono quella impostazione sui fini educativi della scuola che regge l'impianto della decisione annotata. Quell'impianto e quella decisione che, da parte nostra, condividiamo appieno.

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(1) Per una recente e significativa vicenda cfr., volendo, Pittaro, Verginità e violenza sessuale: ovvero le notizie fuorvianti dei mezzi di informazione, in Il quotidiano giuridico, 21 febbraio 2006, approfondita ulteriormente in Idem, Atti sessuali con minorenne consenziente e non vergine: tanto rumore per nulla?, in Fam. e dir., 2006, 186 s.
(2) Sul punto, tralasciando la consueta manualistica di parte speciale v., indicativamente, Delogu, Commento all'art. 571, in Commentario al diritto italiano della famiglia, diretto da Cian-Oppo-Trabucchi, vol. VII, Diritto penale, Padova, 1995, 574 s.; Fracchia, Profili dell'abuso dei mezzi di correzione e di disciplina, in Giust. pen., 1985, II, 104 s.; Mantovani, Abuso dei mezzi di correzione e disciplina, in Riv. dir. matr., 1964, 445 s.; Meneghello, Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, vol. IV, Diritto penale della famiglia, a cura di Riondato, Padova, 2002, 500 s.; Parmiggiani, Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, in I reati contro la famiglia, a cura di Cadoppi, Torino, 2006, 299 s.; Pioselli, voce Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, in Enc. dir., I, Milano, 1958, 170 s.; Pittaro, Il delitto di abuso dei mezzi di correzione e disciplina, in Studi in ricordo di Giandomenico Pisapia, Vol. I, Diritto penale, Milano, 2000, 829 s. (ma già parzialmente in Studium iuris, 1998, 1328 s.); Ranieri, voce Abuso dei mezzi di correzione, in Enc. forense, I, Milano, 1958, 36 s.
(3) Su tale concetto cfr. Antolisei, Osservazioni in tema di "ius corrigendi", in Scritti di diritto penale, Milano 1955, 387 s.; Bettiol, Aspetti del "jus corrigendi" nel diritto penale, in Scritti giuridici, II, Padova 1966, 578 s.; Diaz, Fonti e dommatica del c.d. jus corrigendi, in Riv. it. dir. proc. pen., 1978, 173 ss.
(4) Sul punto Fierro Cenderelli, Profili penali del nuovo regime dei rapporti familiari, Milano, 1984, 49.
(5) Tale la valutazione, quasi mezzo secolo addietro, di G.D. Pisapia, Delitti contro la famiglia, Torino, 1953, 719.
(6) Per un profilo storico della fattispecie in oggetto, a partire dai codici pre-unitari, v. Parmiggiani, Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, cit., 299-312.
(7) Cfr., autorevolmente, Manzini, Trattato di diritto penale italiano, 5a ed. a cura di Nuvolone e Pisapia, VII, Torino, 1984, 901.
(8) Così, in un più ampio contesto, Violante, I cittadini, la legge e il giudice, in Storia d'Italia. Annali, vol. 14, Legge diritto giustizia, Torino 1998, L.
(9) Sul punto cfr., autorevolmente, Delogu, Diritto penale, cit., 580.
(10) Sul quale cfr., per tutti, Ferrari da Passano, Il principio di sussidiarietà, in Civ. catt., 1998, II, 543.
(11) Contra: Delogu, op.cit., 605.
(12) Cfr., per tutti, ed in chiara sintesi, Donini, Le condizioni obiettive di punibilità, in Studium iuris, 1997, n. 6, 592 ss.
(13) In tal senso, ma isolatamente, Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, 14a ed., I, Milano, 2002, 510.
(14) Dottrina pressoché concorde: cfr., per tutti, come classico esempio nella manualistica, Mantovani, Diritto penale. Parte generale 5a ed., Padova, 2007, 785.
(15) Pertanto, e ad esempio, una punizione inflitta ad una figlia che si ribelli a sgradevoli "attenzioni" del padre a sfondo sessuale, potrà rivestire, di volta in volta, le vesti di altri reati (ingiuria, minaccia, percosse, lesioni, ecc.), ma non certo quello dell'abuso correzionale di cui all'art. 571.
(16) Cfr. Fiore, Esercizio di mezzi di correzione e adeguatezza sociale, in Foro pen., 1963, 35.
(17) Cfr., per tutte, Cass., sez. II, 9 giugno 1964, Damiano, in Giust. pen., 1964, II, c. 882; Cass., sez. II, 7 luglio 1965, Fontanot, in Cass. pen., 1966, 362.
(18) La tavola di tali mezzi non consentiti (che si ricava peraltro dal diritto vivente) è davvero raccapricciante: in un rapido schema possiamo annoverare quelli comunque produttivi di lesioni, come l'uso di una cinghia di cuoio, le frustrate a sangue, una intensa percossa, un pugno, il lancio di oggetti contundenti, ovvero ancora, in quanto non compatibili con il profilo correttivo o disciplinare, le ingiurie o i rimproveri offensivi ed intemperanti, o, peggio ancora, le minacce di morte, ovvero ancora le punizioni umilianti e degradanti, quali il pulire il pavimento con la lingua, mangiare in ginocchio, cospargere la vittima di sostanze irritanti, e via dicendo. Sul punto, amplius, e per la correlata giurisprudenza, ci permettiamo rinviare a Pittaro, Il delitto di abuso dei mezzi di correzione: una fattispecie "senza più fondamento"?, in Fam. e dir., 1996, 330 s.
(19) In tal senso F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, cit., 509.
(20) Così, per tutti, Cass. sez. VI, 29 giugno 1977, Lozupone, in Cass. pen., 1978, 1336.
(21) Sul punto, amplius, cfr. V. Zagrebelsky, Delitti contro l'assistenza familiare, in Bricola - Zagrebelsky (a cura di), Giurisprudenza sistematica di diritto penale. Codice penale2, V, Torino, 1996, 511.
(22) Cfr., sul punto, Mazza, voce Maltrattamenti ed abuso dei mezzi di correzione, in Enc. giur., XIX, Roma, 1990, 1.
(23) Cass., sez. VI, 16 maggio 1996, Cambria, in Fam. e dir., 1996, 324, con commento di Pittaro, Il delitto di abuso dei mezzi di correzione: una fattispecie "senza più fondamento"?, cit., 328; in Guida al dir., 1996, n. 23, 84, con commento di Finocchiaro, In attesa che il legislatore riordini la materia non si può ignorare il dettato del codice penale, ivi, 89; in Gazz. giur., 1996, n. 22, 24 e 51; in Dir. pen. e proc., 1996, 1130, con commento di Figiacomi, Abuso dei mezzi di correzione e maltrattamenti in famiglia: revirement della Corte di Cassazione, ivi, 1132; ed in Cass. pen., 1997, I, 33, con nota di Larizza, La difficile sopravvivenza del reato di abuso dei mezzi di correzione.