Cass. pen. sez. I, 23.03.2005, n. 11595



Sentenza

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SOSSI Mario - Presidente

Dott. CHIEFFI Severo - Consigliere

Dott. SANTACROCE Giorgio - Consigliere

Dott. GIRONI Emilio - Consigliere

Dott. PEPINO Livio - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

1)

(omissis) n. il (omissis) contro la sentenza 16 aprile 2004 del Tribunale di Terni;

visti gli atti;

sentita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Livio Pepino, sentito il Procuratore Generale Dr. Mauro Iacoviello che ha chiesto l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per prescrizione;

sentito il difensore del ricorrente avv. SPOLDI Roberto.

Svolgimento del processo – motivi della decisione

OSSERVA

1. Con sentenza 16 aprile 2004 il Tribunale di Terni ha dichiarato

(omissis) colpevole del reato di cui all'art. 660 c.p. per avere, mediante telefonate anonime oscene o mute effettuate per astio, recato molestie a (omissis) (in Amelia sino al 4 febbraio 2000) e lo ha condannato alla pena di 400 euro di ammenda e al risarcimento dei danni provocati alla parte civile. Il processo si è svolto nella contumacia dell'imputato, dichiarata il 15 febbraio 2003 (dopo numerosi rinvii per le condizioni di salute del predetto e differimento dell'udienza de qua ad ora pomeridiana per consentirgli di

svolgere, in mattinata, terapia di riabilitazione respiratoria e neuromotoria) e disattendendo ulteriori richieste di rinvio per ritenuta inesistenza di impossibilità assoluta a comparire. Nel merito il tribunale ha ritenuto: a1) la sussistenza del reato sulla base delle dichiarazioni delle denuncianti

(omissis) e (omissis) di avere ricevuto, nell'arco di un anno, continue telefonate moleste, soprattutto in ore notturne; a2) la colpevolezza dell'imputato alla luce della provenienza delle telefonate dalla sua utenza (nonchè dei conflitti in corso tra le parti).

Contro la sentenza ha proposto appello (convertito in ricorso) il

(omissis) deducendo: b1) l'illegittimità della celebrazione del dibattimento in contumacia, pur in presenza di evidenti e comprovate condizioni di salute ostative alla propria presenza alle udienze; b2) la carenza e/o illogicità della motivazione, essendo risultato agli atti che alcune delle telefonate in questione provenivano da altra utenza e mancando, in ogni caso, la prova che l'autore delle telefonate effettuate dalla propria utenza (ove esistenti) fosse proprio esso ricorrente e non, per esempio, la di lui moglie; b3) l'inidoneità della condotta descritta in capo di imputazione, siccome non arrogante e vessatoria nè continuativa, ad integrare il reato de quo.

Il Procuratore generale ha concluso come in epigrafe.

2. Il ricorso è inammissibile.

Il primo motivo è manifestamente infondato. Il tribunale ha precisato che il rigetto delle istanze di rinvio e la dichiarazione di contumacia sono stati determinati dal carattere non assoluto dell'impedimento dedotto dall'imputato (che rendeva semplicemente più difficile la partecipazione all'udienza: donde i precedenti rinvii e i vani tentativi di concordare orari più agevoli).

A fronte di ciò il ricorrente si limita a ribadire la gravità della propria malattia (pacifica e incontestata) senza neppur dedurre che da essa derivasse l'assoluta impossibilità di spostarsi e di presenziale all'udienza.

Le doglianze proposte con il secondo motivo introducono una diversa (e in ipotesi difensiva più corretta) lettura delle risultanze processuali senza intaccare in alcun modo la ragionevolezza della motivazione del tribunale, che è fondata su dati di fatto oggettivi e non mostra vizi logici evidenti. Ciò rende il motivo non consentito.

Il principio di diritto su cui si fonda il terzo motivo è, infine, palesemente errato. La lettera

dell'art. 660 c.p. e la consolidata giurisprudenza di legittimità escludono, infatti, che per l'integrazione del reato in questione occorra una condotta arrogante e vessatoria, richiedendosi, al contrario, semplicemente "un modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente che finisce, per il modo stesso in cui si manifesta, per interferire sgradevolmente nella sfera della quiete e della libertà delle persone" (Cass. sez. 1^, 26 novembre - 22 dicembre 1998, Faedda, riv.

N. 212059).

Il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della cassa delle ammende che, in relazione alle questioni dedotte, si ritiene equo determinare in 500 (cinquecento) euro.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di 500 euro in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 8 marzo 2005

Depositato in Cancelleria il 23 marzo 2005