Cass. pen. sez. I,-23.04.2004, n. 19071



Sentenza

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. SILVESTRI Giovanni - Presidente
Dott. RIGGIO Gianfranco - Consigliere
Dott. VANCHERI Angelo - Consigliere
Dott. URBAN Giancarlo - Consigliere
Dott. DUBOLINO Pietro - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1) G. G. N. IL 22/07/1968;
avverso SENTENZA del 13/01/2003 TRIB. SEZ. DIST. di Martina Franca;
visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. VANCHERI ANGELO;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. GALATI Giovanni che ha concluso per la inammissibilita' del gravame, osserva:

Svolgimento del processo - motivi della decisione

Con sentenza del 13.1.2003 il Tribunale Monocratico di Tarante - Sezione Distaccata di Martina Franca - dichiarava G. G. colpevole del reato di cui all'art. 660 c.p. - contestatole per avere, con continue telefonate anonime, arrecato molestia a C. A. M. - condannandola alla pena di Euro 300,00 di ammenda, oltre al risarcimento danni in favore della parte civile, ritenendo che la responsabilita' dell'imputata fosse provata per il fatto che una delle telefonate era risultata provenire da una utenza
telefonica intestata al padre dell'imputata, con cui quest'ultima conviveva, e la voce della stessa era stata riconosciuta dalla parte offesa.
Osservava in particolare il giudice predetto:
- che erano nella specie ravvisabili gli elementi oggettivi e soggettivi della contravvenzione di cui all'art. 660 c.p., in quanto, attraverso le dichiarazioni della parte lesa, era emerso che la Gravina, la quale era direttrice titolare di una scuola materna privata, ubicata nello stesso quartiere di Martina Franca, dove si trovava il Centro socio-educativo diurno e ludoteca, gestito dalla Cooperativa "Futura - L'isola che non c'e'", della quale era titolare la p.o. C., aveva effettuato moltissime telefonate al predetto Centro educativo senza mai qualificarsi, facendo sempre le medesime domande e dilungandosi inutilmente in richieste di chiarimenti sui servizi offerti dal Centro e sulle attivita' disponibili;
- che il comportamento dispiegato dall' imputata tramite le telefonate, pur non caratterizzate da contenuti inurbani e ingiuriosi, per la loro ripetitivita' ed inconcludenza, si presentava caratterizzato dal requisito della petulanza, idonea ad interferire sgradevolmente nella sfera della tranquillita' delle persone, e, in definitiva, in quanto tese ad arrecare disturbo e ad interferire nelle attivita' lavorative del Centro, poste in essere per biasimevole motivo.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso la G., deducendo: a) carenza ed illogicita' della motivazione relativa alla affermazione della responsabilita', in quanto gli elementi indiziari sui quali si era basata la sentenza di condanna erano del tutto insufficienti per identificare l'imputata come autrice delle telefonate;
b) erronea applicazione della legge penale, sotto il profilo che, in ogni caso, il contenuto delle telefonate non integrava gli estremi del reato di cui all'art. 660 c.p., in quanto avevano per oggetto richieste di informazioni sull'attivita' del Centro, non aventi nulla di pressante, impertinente o indiscreto.
Cio' premesso, osserva la Corte che il ricorso e' privo di fondamento e va, conseguentemente, respinto.
1. In ordine alla prima doglianza va rilevato che la stessa contiene esclusivamente censure di merito, per altro vaghe e generiche, con le quali si deducono, sostanzialmente, soltanto critiche alle considerazioni fattuali svolte dal Tribunale, ma non si denuncia, in pratica, alcun vizio di legittimita'.
Nella specie, le valutazioni svolte dal giudice di merito in ordine alla precisa individuazione dell'imputata come autrice delle telefonate appaiono invece sorrette da logica, adeguata e sufficiente motivazione, per cui esse si sottraggono ad ogni censura in questa sede.
2. Relativamente al secondo motivo di gravame, ineccepibili, sul piano della aderenza a principi giuridici ormai consolidati, appaiono le considerazioni del tribunale.
Si e' infatti correttamente ritenuto che la condotta dell'imputata - consistente in continue e inconcludenti telefonate, contenenti sempre le stesse domande ed effettuate senza una ragione che ne giustificasse in alcun modo la reiterazione - si configurasse come insistente e petulante nei riguardi della C., si' da potersi ritenere sussistenti nella fattispecie sia l'elemento materiale (la molestia e la riprovevolezza del motivo) sia quello psicologico (intento di recare disturbo ad altri). E' stato infatti precisato che il reato di cui all'art. 660 c.p. consiste in qualsiasi condotta oggettivamente idonea a molestare e disturbare terze persone; e richiede, sotto il profilo soggettivo, la volonta' della condotta e la direzione della volonta' verso il fine specifico di interferire inopportunamente nell'altrui sfera di liberta', (v., fra le altre, Cass., sez. 1^, sentenza n. 11755 del 20 novembre 1991, Poli), finalita' che nella specie e' stata ravvisata in base a valutazioni che non prestano il fianco a critiche di sorta sul piano della logica e della rispondenza a principi giuridici.
Si e' ulteriormente chiarito che, ai fini della sussistenza del reato in esame, e' sufficiente la coscienza e volontarieta' della condotta, e che gli intenti perseguiti dall'agente, proprio perche' attinenti alla sola sfera dei motivi, non hanno alcuna incidenza sulla finalita' dell'azione in relazione alla quale si configura il dolo; e che essi, a prescindere dalla liceita' o meno delle motivazioni che siano alla base del comportamento del colpevole, sono del tutto irrilevanti, una volta che si sia
accertato, come nella specie, che il comportamento del soggetto sia connotato dalla caratteristica della petulanza, ovverossia da quel modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente che finisce, per il modo stesso in cui si manifesta, per interferire sgradevolmente nella sfera della quiete e della liberta' delle persone (v., in tal senso, Cass., sez. 1^, sentenza n. 11336 del 25 novembre 1992, Di Paolo).
Non deve trarre in inganno l'espressione, usata dalla legge, "o per altro biasimevole motivo", perche' essa vuole soltanto aggiungere alla petulanza, ritenuto di per se' un movente biasimevole, qualsiasi altra motivazione che sia da considerare riprovevole per se stessa o in relazione alla persona molestata, e che e' considerata dalla norma come avente gli stessi effetti della petulanza (v. Cass., sez. 1^, 7 gennaio 1994 n. 3494, Benevento).
In dipendenza di tali premesse, puo' quindi tranquillamente ribadirsi il principio che telefonare ripetutamente e insistentemente, fingendo di chiedere delle informazioni, ma in realta' con l'intento di interferire illecitamente nella sfera privata altrui, integra gli estremi del reato di cui all'art. 660 c.p., ascritto all'imputata.
Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso va rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Cosi' deciso in Roma, il 30 marzo 2004
Depositato in Cancelleria il 23 aprile 2004