Emidia Di Sabatino, Dal mobbing allo stalking allostraining



Dal mobbing allo stalking allostraining

Dal mobbing allo stalking allostraining


Emidia Di Sabatino

FONTE
Resp. civ., 2007, 2, 171

1. Mobbing: inquadramento del fenomeno, problemi definitori ed elementi giuridici tipizzanti

Il termine mobbing, dal verbo to mob (assalire, attaccare) è mutuato dall'etologia e nella sua accezione letterale si riferisce al comportamento di alcune specie animali che accerchiano un membro del gruppo al fine di allontanarlo(1). Tale derivazione semantica ne svela la sua essenza di fenomeno selettivo naturale: nel contesto lavorativo, chi non è inserito nel sistema è avvertito come una minaccia, è altro rispetto al gruppo e, pertanto, indotto ad autoespellersi o eliminato ingiustificatamente.
Al di là delle etichette, il mobbing rappresenta una categoria unitaria per le persecuzioni morali sul lavoro(2), capace di raggruppare una molteplicità di atti, omissioni o comportamenti singolarmente leciti e apparentemente inoffensivi, o comunque non decisivi sotto il profilo dell'inadempimento, ma che, una volta messo a nudo l'intento persecutorio ad essi sotteso, assumono carattere di illiceità(3). Secondo tale impostazione giurisprudenziale(4), condivisa dalla dottrina prevalente(5), il mobbing diviene un legal framework, una fattispecie aperta, ricostruita con l'apporto congiunto di sociologi, psichiatri e psicologi, che nell'assenza di tipizzazione legislativa, impone al giurista il compito di individuazione degli elementi di cui si compone, sia sotto il profilo della condotta oggettivamente considerata, sia sotto il profilo soggettivo.
Prezioso, a tal fine, si è rivelato il contributo di Herald Ege che nel definire nelle sue componenti essenziali il fenomeno, qualifica il mobbing come «una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e ripetuti, da parte dei colleghi o superiori attuati in modo ripetitivo e protratti nel tempo per un periodo di almeno sei mesi. In seguito a tali attacchi la vittima progressivamente precipita in una condizione di estremo disagio, che cronicizzandosi si ripercuote negativamente sul suo equilibrio psico-fisico»(6). Ne emerge la connotazione di situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente e in costante progresso, di vera e propria strategia, tanto che le azioni mobbizzanti sono state ricondotte entro cinque categorie: gli attacchi ai contatti umani (limitazioni della possibilità di esprimersi, rimproveri e urla, continue critiche, minacce verbali o scritte); l'isolamento sistematico (assegnazione di un luogo di lavoro in isolamento dai colleghi, esclusione da parte degli altri); i cambiamenti delle mansioni (assegnazione di compiti senza senso, di lavori umilianti, cambiamento continuo di lavori da svolgere); gli attacchi alla reputazione (pettegolezzi, voci false, ridicolizzazione del lavoratore, attacco alle sue idee politiche, ecc.); la violenza o la minaccia di violenza (costrizione del lavoratore a svolgere lavori che nuocciono alla sua salute, minacce di violenza fisica, ecc.)(7).
Tale conflitto mirato non si mantiene ad un livello di aggressione stabile, ma evolve secondo una progressione di fasi legate l'una all'altra(8). La giurisprudenza di merito muove dagli approdi della psicologia del lavoro, e nel tentativo di connotare la fattispecie, ricorre in talune pronunce, al criterio "oggettivo" che risulta dalla combinazione di condotte tipiche di sopraffazione con i criteri temporali della frequenza e della durata(9), in altri casi, al criterio "soggettivo" dell'intento persecutorio delle condotte(10). Si segnala l'intervento in punto di definizione della sentenza C. Cost. n. 359/2003, che nel giudicare illegittima la l. reg. Lazio n. 16/2002 ha incidentalmente ammesso che le condotte così etichettate possono «estrinsecarsi sia in atti giuridici veri e propri, sia in semplici comportamenti materiali aventi in ogni caso, gli uni e gli altri, la duplice peculiarità di poter essere, se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi, irrilevanti dal punto di vista giuridico, e tuttavia di acquisire comunque rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall'effetto e talvolta, secondo alcuni, dallo scopo di persecuzione ed emarginazione». Con soluzione analoga le S.U. della Corte di Cassazione riconducono alla figura in esame, pratiche vessatorie poste in essere da uno o più soggetti, con lo scopo di danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro(11). Muovendo da tali approdi può affermarsi che elementi indefettibili della fattispecie siano l'intenzionalità della condotte, la ripetitività delle stesse in un arco temporale circoscritto, la volontarietà degli effetti lesivi dell'integrità psico-fisica del lavoratore e la sistematicità delle condotte(12).
La valutazione dell'elemento finalistico di discriminare, o recare pregiudizio al dipendente assume valenza particolare ai fini della prova della vessatorietà di comportamenti di per sé inoffensivi, gravando sul lavoratore l'onus probandi del collegamento degli stessi e della loro riconducibilità entro un unico progetto illecito(13). Prevale l'opinione secondo cui il mobber non agirebbe necessariamente con la finalità esclusiva di espellere il lavoratore, quanto piuttosto con l'intento di svilire o ledere la dignità personale o professionale del dipendente(14).

2. Mobbing verticale ed orizzontale: profili di responsabilità

Censiti seppur sinteticamente i profili strutturali della categoria profilata, si darà conto nel prosieguo delle questioni concernenti il titolo di responsabilità che il prestatore di lavoro vittima di mobbing può invocare, la distribuzione dell'onere probatorio e la relazione tra titoli di responsabilità. A tal fine, si richiede un'analisi differenziata del mobbing in base alla distinta connotazione verticale od orizzontale(15).
L'ipotesi del mobbing verticale si realizza nei casi in cui l'attività persecutoria nei confronti del lavoratore è posta in essere da un superiore gerarchico che superando i limiti della propria supremazia sottopone il subordinato a soprusi gerarchici ed umiliazioni(16). La descritta tipologia assume più propriamente i connotati del bossing nel caso in cui l'azione perpetrata a danno del lavoratore si inserisce nel contesto di una vera e propria strategia aziendale di riduzione, ringiovanimento o razionalizzazione del personale(17). Si tratterà, allora, di stabilire, in relazione alle circostanze del caso concreto, se l'esercizio formalmente legittimo dei poteri datoriale, configuri un'ipotesi di abuso dei poteri imprenditoriali(18). Numerosi, nel panorama giurisprudenziale, sono gli esempi concreti di sviamento del potere datoriale dal fine garantito dall'ordinamento attraverso abuso del potere direttivo(19), di controllo(20) o disciplinare(21).
Sotto altro specifico profilo, si rileva che dottrina e giurisprudenza convengono sulla riconducibilità delle vessazioni materiali e psicologiche commesse dal datore di lavoro alla violazione dell' art. 2087 c.c. Tale disposizione costituisce una clausola generale di protezione gravante sul datore di lavoro che impone di adottare le misure che in base alla particolarità del lavoro, all'esperienza e alla tecnica si rivelino necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro(22). Pertanto, la valutazione dell'osservanza dell'art. 2087 c.c. assurge a parametro di valutazione del preteso inadempimento datoriale al contratto di lavoro. D'altra parte, l'obbligo di sicurezza configurato dalla norma s'innesta automaticamente nel contenuto del rapporto di lavoro, specificando il dovere di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.(23).
Tali considerazioni sembrano confermate dalla più recente giurisprudenza di legittimità che attraverso una interpretazione estensiva dell'ambito di tutela del lavoratore non esita ad elevare l'obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c. a contenuto implicito del contratto di lavoro, ritenendo sussistente l'illecito da mobbing «indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del contratto di lavoro subordinato»(24). Va posto in rilievo che configurando l'art. 2087 c.c. una responsabilità colposa è sufficiente che il lavoratore provi la nocività dell'ambiente o la mancata adozione delle misure di sicurezza, il danno patito nell'espletamento delle mansioni svolte e il nesso causale, spettando al datore di lavoro dare prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno(25). Nel panorama giurisprudenziale pacifico è l'inquadramento negoziale della responsabilità da mobbing(26) ma si registrano, altresì, posizioni minoritarie che propongono, in caso di violazione di diritti primari, quali l'incolumità e la dignità personale, il canale della "doppia tutela" derivante dalla contestuale applicazione delle due forme di responsabilità aquiliana e contrattuale. Secondo tale approccio, il medesimo fatto integrerebbe contemporaneamente la violazione di diritti nascenti dal contratto e di diritti indipendenti dallo stesso(27). Si evidenzia, in questa sede, la praticabilità di siffatta soluzione, favorevole sul piano probatorio al lavoratore che potrebbe giovare di entrambi i titoli di responsabilità, invocando la responsabilità contrattuale al fine di superare l'onus probandi dell'elemento soggettivo e la responsabilità aquiliana per il risarcimento danni senza il limite di prevedibilità di cui all' art. 1225 c.c.(28).
Il mobbing orizzontale ricorre, invece, nel caso in cui l'azione discriminatoria è posta in essere nei confronti della vittima da parte di colleghi di lavoro, o provenga da superiori diversi dal datore di lavoro e, comunque, da soggetti non legati alla vittima da alcun vincolo contrattuale. L'assenza di una relazione negoziale tra vittima e mobbers, escludendo l'operatività dell'art. 2087 c.c. riserva al danneggiato che intenda agire direttamente nei confronti degli autori la via della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.
Nell'ipotesi profilata, è altresì configurabile un concorso di responsabilità tra il datore di lavoro e i dipendenti cui siano ascrivibili le condotte lesive. Sotto tale specifico profilo, condivisibili risultano le costruzioni dottrinali che privilegiano un modello di responsabilità contrattuale per omessa vigilanza ex art. 2087 c.c. conseguente a violazione da parte del datore di lavoro dell'obbligo di prevenire comportamenti vessatori assunti da alcuni dipendenti in danno di altri(29). Si avverte, come acutamente osservato dalla giurisprudenza di legittimità, che «la pur lata ed estesa responsabilità datoriale, come delineata dall'ampio contenuto della norma di riferimento (art. 2087 c.c.), non può essere dilatata fino a comprendere ogni ipotesi di danno ai dipendenti, sostenendo che, comunque, il rischio non si sarebbe verificato in presenza di ulteriori accorgimenti di valido contrasto, ché, in tal modo opinando, si perverrebbe alla abnorme applicazione di un principio di responsabilità oggettiva ancorata al presupposto che qualunque rischio possa essere evitato pur se esorbitante da ogni umana prevedibilità»(30). Pertanto, in tali ipotesi il datore di lavoro dovrebbe essere stato, quantomeno, informato dei comportamenti vessatori a lui non direttamente riferibili(31).
Si registra, altresì, l'opzione interpretativa che prospetta la mutuabilità del modello della responsabilità per fatto altrui utilizzando i referenti normativi di cui agli artt. 1228 e 2049 c.c. In forza della disposizione da ultimo citata, la responsabilità del datore di lavoro è assimilabile a quella del "padrone" o del "committente", in virtù del ruolo organizzativo rivestito dallo stesso, purché l'evento lesivo sia stato reso possibile o, quantomeno, agevolato dal compimento dell'incarico ricevuto(32). Esulano, infatti, dall'art. 2049 c.c. le ipotesi in cui la condotta mobbizzante di colleghi o superiori si sia realizzata in maniera autonoma rispetto alle indicazioni del lavoratore(33). Il ricorso agli artt. 1228 e 2049 c.c. agevolerebbe il danneggiato sul versante probatorio, dispensandolo dalla prova della sussistenza di un coefficiente psicologico, per effetto della automatica imputazione di responsabilità in capo al datore di lavoro.

3. Oltre il mobbing: lo stalking occupazionale

La breve ricognizione offre lo spunto per allargare il campo di indagine a figure di nuova emersione e di sicura germinazione dal mobbing: lo stalking e lo straining.
Il termine stalking, dal verbo inglese to stalk, con riferimento all'arte venatoria, sta a significare letteralmente "appostarsi, avvicinarsi furtivamente alla preda" ed evoca metaforicamente il comportamento tipico del molestatore assillante che segue la vittima e si "apposta" alla sua vita. L'assenza nel nostro paese di una normativa specifica in tema di stalking, rende necessaria un'analisi e descrizione accurata della figura, attingendo in parte dall'esperienza rodata di common law, in parte alle soluzioni offerte in ambito penalistico attraverso la riconducibilità alla fattispecie del reato di molestia e disturbo alla quiete del privato (art. 660 c.p.)(34). Il tentativo è, dunque, quello di fornire alcuni chiarimenti sui caratteri costitutivi del modello in esame, al fine di tracciare il discrimen rispetto al mobbing di cui indubitabilmente costituisce una species. In dottrina tende a prevalere l'opinione secondo cui può parlarsi di stalking solo in riferimento a «un insieme di comportamenti ripetuti ed intrusivi di sorveglianza e controllo, alla ricerca di contatto, e di comunicazione nei confronti di una vittima che risulta infastidita e/o allarmata da tali attenzioni o comportamenti»(35).
Noto ai più in relazione al caso del fan che trasforma in ossessione la sua passione per un divo del cinema o della musica (stalking delle celebrità), o al caso dell'ex fidanzato deluso o del coniuge tradito (stalking emotivo), si manifesta, altresì in ambito lavorativo. Emerge, così, lo stalking occupazionale, in cui l'attività persecutoria effettiva si esercita nella vita privata della vittima, ma la cui motivazione proviene, invece, dall'ambiente di lavoro, dove lo stalker ha realizzato, subito o desiderato una situazione di conflitto, persecuzione o mobbing. Tale modello si manifesterebbe in taluni casi come completamento aggiuntivo ad una strategia di mobbing in atto, con la finalità di espellere la vittima dall'ambiente di lavoro, in altri, si inserirebbe al termine di una inefficace strategia di mobbing al fine di prolungare la persecuzione al di fuori del contesto lavorativo. Ma potrebbe, addirittura, assurgere a strumento di vendetta di un sottoposto nei confronti di un superiore, nelle ipotesi in cui la situazione conflittuale si sia mantenuta sul posto di lavoro a livello di intenzione o di desiderio. Nelle sue concrete manifestazioni spicca la natura di fenomeno di tipo relazionale che origina da incomprensioni nei rapporti interpersonali, dalla non accettazione dell'atteggiamento altrui e dalla volontà di imporre all'altro un rapporto indesiderato(36). Come nel mobbing, il molestatore trova la motivazione ad agire in ambito lavorativo, ma la persecuzione dello stalker muove da quel contesto, per penetrare invasivamente nella vita privata della vittima.
Sul versante del contenuto delle possibili condotte di stalking si è sostenuto che comportamenti che singolarmente considerati non presenterebbero alcun profilo di offensività (invio di una e-mail, un sms, ecc), se inseriti nella cornice giuridica dello stalking per la ripetitività, petulanza ed invadenza intrusiva nella vita della vittima assumerebbero un patente profilo di illiceità(37). Tale chiave di lettura è del resto confermata dalla relazione introduttiva alla proposta di legge n. 4891/2004 contenente "Disposizioni per la tutela delle molestie insistenti" in cui lo stalking viene descritto come "ossessivo insieme" di condotte collegate dal medesimo intento di molestare la vittima. Da quanto esposto emerge che lo stalking si configura come forma di persecuzione continuativa, asfissiante ed intollerabile, di intensità superiore rispetto al mobbing, percepita dalla vittima come pressione costante nel tempo. Non può sottacersi la difficoltà di un eventuale accertamento del parametro della frequenza delle singole azioni di stalking, che vengono percepite nel loro insieme come vera e propria strategia di persecuzione.
Aderendo alle soluzioni proposte dai paesi di common law, e avuto riguardo alla disciplina del reato di molestia o disturbo alle persone previsto dall'art. 660 c.p., si può dunque ritenere che non basti un singolo atto per poter parlare di stalking occupazionale(38). Poiché lo stalking si concretizza attraverso comportamenti aventi maggior carica offensiva rispetto ai comportamenti di mobbing, si ritiene che per integrare la fattispecie sia sufficiente un tempo inferiore rispetto ai sei mesi richiesti per la configurabilità delle condotte mobbizzanti(39).
Le modalità di estrinsecazione delle condotte sono molteplici(40) ma la interconnessione del fenomeno a strumenti di comunicazione ne svela la natura di illecito da violazione della privacy(41). Così, potrebbe risolversi in un vero e proprio attacco su più fronti ai mezzi di comunicazione utilizzati dalla vittima; si pensi ad ipotesi di controllo, sottrazione o danneggiamento della posta elettronica, di invio illegittimo di posta elettronica non sollecitata o di virus informatici, ad interferenze in sede di chat, all'invio di sms non graditi, ma anche al monitoraggio del contenuto della navigazione in internet del dipendente o collega che può svelare dati personalissimi dell'individuo. Del resto, la posta elettronica inviata ad un dipendente sul computer aziendale, deve ritenersi equiparata alla corrispondenza privata e, dunque, inaccessibile ove il titolare non lo consenta(42). Parimenti illegittimo è l'invio di posta elettronica non richiesta perché provoca una illegittima intrusione nella sfera di riservatezza della vittima(43).
Si segnala, con riguardo al controllo delle e-mail dei lavoratori, che il Garante per la protezione dei dati personali ha stabilito che la legge sulla privacy fa salve le norme dello Statuto dei lavoratori che vietano il controllo a distanza dei lavoratori, se non previa definizione di limiti aziendali e dopo l'accordo con le rappresentanze sindacali(44). Pertanto, dall'accesso da parte del datore di lavoro o del collega all'archivio del computer assegnato al lavoratore discenderebbe la violazione dell'art. 4 dello Statuto che vieta il controllo a distanza del lavoratore con particolari apparecchiature e la concorrente violazione dell'art. 8 dello stesso che vieta indagini su questioni personali del dipendente, evincibili, nella specie, dalla lettura dei documenti personali custoditi nell'archivio del computer(45).
Anche il monitoraggio della navigazione in Internet potrebbe inserirsi nella strategia di attacco dello stalker nel contesto lavorativo, profilandosi, in tal caso, un intreccio tra libertà, segretezza delle comunicazioni e garanzie previste dallo Statuto dei lavoratori atteso che il mero rilevamento dei siti visitati può svelare dati personalissimi dell'individuo, come opinioni politiche, indicazioni sulla vita sessuale, appartenenza a partiti e sindacati(46).
Sul versante probatorio, si rileva una divaricazione dello stalking rispetto al mobbing, non richiedendo la fattispecie analizzata la prova della intenzionalità e consapevolezza della condotta dello stalker. In altri termini, non sarebbe necessario dimostrare l'intenzione dello stalker di ledere una vittima diretta, con conseguente alleggerimento dell'onus probandi in capo al danneggiato(47). A completamento della presente ricognizione corre il richiamo al profilo della relazione tra i titoli di responsabilità invocabili dal danneggiato. Prendendo le mosse dalla ricostruzione testé illustrata in tema di mobbing, si può ritenere che il primo referente giuridico nell'emisfero della responsabilità civile sia rappresentato dall'art. 2043 c.c.
Alla tesi restrittiva seguita dalla giurisprudenza che radica la risarcibilità dei danni conseguenti a condotte di stalking alla ricorrenza di un'ipotesi di reato(48), la più accorta dottrina controbatte che la gestione dello stalking non necessiti dell'individuazione a monte di violazioni della norma penale(49).
L'art. 2043 c.c. sarebbe invocabile sia nel caso del collega che intenda agire per desiderio di vendetta attraverso azioni di stalking, sia nelle situazioni in cui lo stalking si presenti quale completamento aggiuntivo di una strategia di mobbing orizzontale in fieri: in entrambi i casi l'assenza di una relazione negoziale tra vittima e autore/i riserverebbe al danneggiato la via esclusiva della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. In tale ultima ipotesi, difficilmente configurabile sarebbe la responsabilità concorrente del datore di lavoro ex artt. 2049 c.c. attesa la difficoltà di dimostrare l'elemento della "occasionalità necessaria" in relazione a quelle condotte di stalking realizzate al di fuori del contesto lavorativo. Non dissimilmente dal mobbing verticale, le azioni moleste e intrusive ove realizzate dal datore di lavoro potrebbero ricondursi alla violazione della clausola generale di cui all'art. 2087 c.c.

4. Segue: lo straining

Lo straining occupa il gradino più basso nella scala di intensità delle manifestazioni di conflittualità sul posto di lavoro(50). Descritto per la prima volta da Ege, è stato definito come «situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una volta una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell'ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è in persistente inferiorità rispetto alla persona che attua lo straining (strainer)»(51). Fa ingresso nel panorama giurisprudenziale con la pronuncia del Trib. Bergamo, 20.6.2005 che, mutuando lessico e concetti della psicologia del lavoro, prima, ne delinea gli elementi indefettibili, tracciando una linea di demarcazione rispetto alla pur simile fattispecie del mobbing(52).
Trattasi di una situazione di stress forzato, dovuta a discriminazione provocata intenzionalmente a danno del lavoratore, produttivo di danno biologico, danno alla professionalità e danno morale, che si concretizza in un'unica azione con effetti duraturi e costanti a livello lavorativo, si pensi ad un cambio di mansioni o di qualifica, ad un trasferimento penalizzante, ad una perdita di chance, o ad una prolungata inattività, ma anche ad ipotesi di sovra-attivazione, ossia all'imposizione di un eccesso di lavoro o di qualità di lavoro. Nella sentenza in parola la differenza tra lo straining e il mobbing viene individuata nella non necessità nel primo «di una frequenza idonea (almeno alcune volte al mese) di azioni ostili ostative: in tali situazioni le azioni ostili che la vittima ha effettivamente subito sono poche e troppo distanziate nel tempo, spesso addirittura limitate ad una singola azione». Nei termini della pronuncia in commento, se «il mobbing si caratterizza per una serie di condotte ostili, continue e frequenti nel tempo, per lo straining è sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo»(53), venendo qui in rilievo l'elemento della frequenza solo con riguardo alle ripercussioni sulla carriera del soggetto che devono essere percepite negativamente dalla vittima(54). Ciò che interessa evidenziare è che le conseguenze negative continuative dello straining si riverberano a livello professionale, impedendo alla vittima di svolgere le mansioni in precedenza espletate; eventuali ripercussioni sul piano psicosomatico o psico-fisico, per quanto probabili, non risulterebbero decisive ai fini del riconoscimento dello straining. Va, infine, osservato che la vicenda conflittuale non si evolve in progressione per fasi successive causalmente legate l'una all'altra, risolvendosi in un conflitto che dopo l'azione di straining si mantiene ad un livello stabile(55).

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(1) In dottrina sul mobbing cfr. Tullini, Mobbing e rapporto di lavoro. Una fattispecie emergente di danno alla persona, in Riv. it. dir. lav., 2000, I, 251; De Falco, A. Messineo e F. Messineo, Mobbing: diagnosi, prevenzione e tutela legale, Milano, 2003; Oliva, "Mobbing" quale risarcimento?, in Danno e resp., 2000, 27; Monateri, Bona e Oliva, "Mobbing" - vessazioni sul lavoro, Milano, 2000; Ege, Il fenomeno del "mobbing". Introduzione - Attività - Soluzioni, in Nuova rassegna, 2001, 725; Boscati, "Mobbing" e tutela del lavoratore: alla ricerca di una fattispecie vietata, in Dir. lav. e relaz. ind., 2001, 285.
(2) L'espressione è mutuata da Monateri, Bona e Oliva, Il mobbing come "legal framework": una categoria unitaria per le persecuzioni morali sul lavoro, in Riv. critica dir. priv., 2000, 547.
(3) In tal senso Trib. Como, 22.5.2001, in Rep. Foro it., 2001, Lavoro (rapporto), n. 917.
(4) Trib. Torino, sez. lav., 16.11.1999, in Giur. it., 2000, 548; Trib. Torino, sez. lav., 30.12.1999, in Danno e resp., 2000, 406.
(5) Monateri, Bona e Oliva, Il mobbing come "legal framework": una categoria unitaria per le persecuzioni morali sul lavoro, cit., 558; Lombardo, Un possibile intreccio tra titoli di responsabilità, in Nuovo dir., 2005, I, 206.
(6) Ege, Il mobbing ovvero il terrore psicologico sul posto di lavoro e la situazione italiana, Bologna, 1996.
(7) L'elenco delle azioni mobbizzanti è tratto dal test di Mobbing "LIPT Ege Professional", pubblicato in Ege, La valutazione peritale del danno da Mobbing, Milano, 2002.
(8) Ege, La valutazione peritale del danno da Mobbing, cit. che indica sette parametri tassativi di mobbing rappresentati da: 1) ambiente lavorativo 2) frequenza, 3) durata, 4) tipo di azioni, 5) dislivello tra antagonisti, 6) andamento a fasi successive, 7) intento persecutorio. Secondo tale scala, è necessario che il conflitto nasca e si sviluppi nel contesto lavorativo, le azioni ostili devono essere in corso da almeno sei mesi e le azioni subite devono appartenere ad almeno due delle cinque categorie di azioni mobbizzanti teorizzate nel "LIPT Ege Professional" test. Il mobbing si sviluppa attraverso sei fasi, progredendo da una condizione zero di aperta conflittualità alle sei fasi successive di conflitto mirato, inizio del mobbing, primi sintomi psico-somatici, errori ed abusi dell'amministrazione del personale, serio aggravamento della salute psico-fisica della vittima; l'esclusione dal mondo del lavoro attraverso licenziamento, dimissioni, prepensionamento, rappresenta l'ultimo atto della complessiva condotta di mobbing descritta dalla psicologia del lavoro attraverso cui si completa sul piano degli effetti costitutivi e tipici.
(9) Trib. Pinerolo, 3.3.2004, in Resp. civ., 1, 2005, 224 secondo cui «il mobbing consiste in condotta vessatoria reiterata e duratura, individuale e collettiva, rivolta nei confronti del lavoratore ad opera dei superiori gerarchici (mobbing verticale) e/o colleghi (mobbing orizzontale), oppure anche da parte dei sottoposti nei confronti di un superiore (mobbing ascendente), talora corrispondente ad una precisa strategia aziendale finalizzata all'estromissione del lavoratore dall'azienda (bossing); Trib. Bari, 12.3.2004, in Dir. e giustizia, 2004, 15.
(10) V. Trib. Roma, 28.3.2003, in Jus, 2003, 2599; Trib. Como, 22.2.2003, in Mass. giur lav. 2003, 328; Trib. Venezia, 26.4.2001, in Riv. giur. lavoro, 2002, II, 88, con nota di Cimaglia; Trib. Tempio Pausania, 10.7.2003, in Gius, 2003, 2729, secondo cui è mobbing «una pluralità di comportamenti, che si inseriscono in una precisa strategia persecutoria, posti in essere dal datore di lavoro per isolare fisicamente e psicologicamente il lavoratore».
(11) In tal senso, Cass., S.U., 4.5.2004, n. 8438, in Foro it., 2004, I, 1692.
(12) In dottrina De Falco, A. Messineo e F. Messineo, Mobbing, diagnosi, prevenzione e tutela legale, cit., 52; V. Trib. Ravenna, 11.7.2002, in Giust. civ., 2003, I, 223 ove si legge «La fattispecie del mobbing implica un atteggiamento doloso, persecutorio, sistematico e continuativo preordinato al danneggiamento della persona del lavoratore (fattispecie in tema di mancato conferimento di incarico dirigenziale nella p.a.)».
(13) Cfr. Trib. Trieste, 10.12.2003, in Lavoro e giur., I, 2004, 1183: «le controversie dirette ad accertare fattispecie di mobbing comportano per loro stessa natura una penetrazione psicologica dei comportamenti, al di là di atti che possono presentarsi come legittimi e inoffensivi, in modo da indagarne il carattere eventualmente vessatorio, ossia dolosamente diretto a svilire, nuocere o ledere la dignità personale e professionale di un dipendente. La coscienza e volontà del "mobber" si pone rispetto al fatto non solo come elemento essenziale e costitutivo dell'illecito, ma come elemento idoneo persino a darvi significato: in altri termini, senza il dolo specifico del mobber gli atti potrebbero apparire tutti legittimi e leciti».
(14) In dottrina si attestano su tale posizione, Amato, Casciano, Lazzeroni, L. Loffredo e A. Loffredo, Il mobbing - aspetti lavoristici: nozione, responsabilità, tutele, 2002, 30. In giurisprudenza, sul dolo specifico di espellere il lavoratore dall'azienda V. Trib. Como, 22.5.2001, in Orient. giur. lav., 2001, I, 277, con nota di Quaranta.
(15) Sul tema della responsabilità da mobbing si rinvia a Balestrieri, Mobbing e riparto di giurisdizione: spunti definitori e tipologie di responsabilità, in Dir. lavoro, 2005, 205; D'Amore, Il mobbing: il fenomeno, le conseguenze, la responsabilità, in Riv. giur. lavoro, 3, 2003, 485; Lombardo, Mobbing: un possibile intreccio tra titoli di responsabilità, in Nuovo dir., 2005, 1, 205.
(16) Si rinvia a A. Gilioli e R. Gilioli, Cattivi capi, cattivi colleghi: come difendersi dal mobbing e dal nuovo capitalismo selvaggio, Milano, 2000, 33.
(17) In tema di bossing, V. Nunin, "Bossing": responsabilità contrattuale e valorizzazione della clausola di buona fede, in Lavoro nella giur., 1, 2005, 49; Trib. Milano, 6.5.2005, in Orient. giur. lav., 2005, I, 327 che per bossing intende «la vessazione da parte di un superiore gerarchico del lavoratore, di solito utilizzata per ridurre il personale, ringiovanire o riorganizzare uffici o reparti». Trib. Pinerolo, 3.3.2004, cit., secondo cui «il mobbing consiste in condotta vessatoria reiterata e duratura, individuale e collettiva, rivolta nei confronti del lavoratore ad opera dei superiori gerarchici (mobbing verticale) e/o colleghi (mobbing orizzontale), oppure anche da parte dei sottoposti nei confronti di un superiore (mobbing ascendente), talora corrispondente ad una precisa strategia aziendale finalizzata all'estromissione del lavoratore dall'azienda (bossing)».
(18) App., 29.10.2004, in Riv. giur. lavoro, 2005, n. 1, 25 secondo cui «L'utilizzo dei poteri direttivo e disciplinare del datore di lavoro deve avvenire in conformità con i principi dell'ordinamento pena il possibile abuso degli stessi poteri e la possibile configurabilità della fattispecie del mobbing nel caso in cui la pluralità delle condotte datoriali, inquadrabile in un disegno unitario, abbia determinato un effetto vessatorio nei confronti del lavoratore. Il risarcimento dei danni da esso derivati ha natura contrattuale e in particolare il danno esistenziale deve essere liquidato in via equitativa». In dottrina circa l'applicabilità della figura dell'abuso di diritto al mobbing, cfr. Tullini, Mobbing e rapporto di lavoro, cit.
(19) Cfr. Trib. Torino, 30.12.1999, cit., secondo cui è abuso di potere direttivo ogni comportamento datoriale volto all'emarginazione del lavoratore, come il demansionamento; Trib. Forli, 15.3.2001, cit., circa l'effettuazione di trasferimenti illegittimi; Cass., 1.9.1997, n. 8267, in Mass. giur. lav., 1997, 818, e Cass., 5.2.2000, n. 1307, in Foro it., 2000, I, 1554, secondo cui si configura abuso di potere direttivo in ipotesi di imposizione di carichi di lavoro eccessivi con accettazione di lavoro straordinario continuativo o rinuncia a periodi di ferie.
(20) V. Cass., 19.1.1999, n. 475, in Orient. giur. lav., 1999, 295, che ha considerato persecutorio il comportamento consistente nella richiesta di ripetute visite di controllo.
(21) Cass., 8.9.1999, n. 9539, in Lavoro e prev. oggi, 1999, 2333.
(22) Si rinvia a Lombardo, Mobbing: un possibile intreccio di responsabilità, cit., 208.
(23) In tal senso De Falco, A. Messineo e F. Messineo, Mobbing, diagnosi, prevenzione e tutela legale, cit., 62 s.
(24) Cass., sez. lav., 6.3.2006, n. 4774, in Dir. e giustizia, 2006, 32, fasc. 19, secondo cui «Il c.d. danno da mobbing consiste in una condotta del datore di lavoro sistematica e protratta nel tempo, con le caratteristiche della persecuzione, finalizzata all'emarginazione del lavoratore e che concreti, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore; tale illecito, che rappresenta una violazione dell'obbligo di sicurezza posto dall'art. 2087 c.c. a carico del datore di lavoro, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato».
(25) Cfr., Cass., sez. lav., 25.5.2006, n. 12445, in Dir. e giustizia, 2634: «Nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno patito dal lavoratore in conseguenza della violazione, da parte del datore di lavoro, dell'art. 2087 c.c., il lavoratore ha il solo onere di provare la condotta illecita e il nesso causale tra questa e il danno patito, mentre incombe sul datore di lavoro ex art. 1218 c.c. - l'onere di provare la propria assenza di colpa»; Cass., 4.6.2003, n. 8904, in Notiziario giurisprudenza lav., 2003, 721, ove si legge: «Il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno [...] deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa».
(26) In tal senso Cass., S.U., 4.5.2004, n. 8438, cit.: «Premesso che il termine mobbing può essere generalmente riferito ad ogni ipotesi di pratiche vessatorie, poste in essere da uno o più soggetti diversi per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro, nell'ipotesi in cui la tutela invocata attenga a diritti soggettivi derivanti direttamente dal medesimo rapporto, lesi da comportamenti che rappresentano l'esercizio di tipici poteri datoriali, in violazione non solo del principio di protezione delle condizioni di lavoro, ma anche della tutela della professionalità prevista dall'art. 2103 c.c. (in relazione alla quale si chiede il ripristino della precedente posizione di lavoro e della corrispondente qualifica), la fattispecie di responsabilità va ricondotta alla violazione degli obblighi contrattuali stabiliti da tali norme, indipendentemente dalla natura dei danni subiti dei quali si chiede il ristoro e dai riflessi su situazioni soggettive (quale il diritto alla salute) che trovano la loro tutela specifica nell'ambito del rapporto obbligatorio».
(27) Lombardo, Mobbing: un possibile intreccio di responsabilità, cit., 209; Cass., 1.2.1995, n. 1168, in Notiziario giuridico lav., 1995, 421; Cass., 25.9.2002, n. 13942, in Orient. giur. lav, 2002, I, 788; Trib. Pinerolo, 14.1.2003, in Giur. di Merito, 2003, 5, ove si legge: «è ammissibile il concorso tra responsabilità aquiliana ex art. 2043 e la responsabilità specifica ex art. 2087 c.c., nella parte in cui obbliga il datore di lavoro ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare la personalità morale dei prestatori di lavoro, anche alla luce dell'obbligo di eseguire il contratto secondo buona fede».
(28) Cfr. Trib. Forlì, 15.3.2001, cit., secondo cui «in ipotesi di mobbing laddove la responsabilità del datore di lavoro ha fonte sia contrattuale ex art. 2087 c.c., sia extracontrattuale ex art. 2043 c.c., il regime di ripartizione dell'onere della prova è quello più favorevole al dipendente e pertanto quello contrattuale».
(29) Lombardo, Mobbing: un possibile intreccio di responsabilità, cit., 210.
(30) Cass., 5.12.2001, n. 15350, in Notiziario giurispr. lav., 2002, 324.
(31) Cfr. Cass, sez. lav., 23.3.2005, in Foro it., 2005, I, 3356 che ravvisa il mobbing nel "globale comportamento antigiuridico" dei colleghi di lavoro di un dipendente, consistito in ripetuti scherzi verbali ed azioni di disturbo, a conoscenza del datore di lavoro, il quale, peraltro, non si è adoperato perché cessassero; Trib. Pisa, 3.10.2001, in Orient. giur. lav., 2001, 748; Trib. Torino, 16.11.1999, in Riv. it. dir. lav., 2000, II, 102, con nota di Pera.
(32) In dottrina, sull'art. 2049 c.c., Franzoni, L'illecito, in Tratt. Franzoni, Milano, 2004, 732 ss.; Id., Dei fatti illeciti, in Comm. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1993, sub art. 2049, 459; Facci, La responsabilità dei padroni e dei committenti, in Le obbligazioni, II, Le obbligazioni da fatto illecito, a cura di Franzoni, Torino, 2004, 249. Sul rapporto di occasionalità necessaria ex multis. Cass., 22.10.2004, n. 20588, in Giust. civ. mass., 2004; Cass., sez. lav.,6.4.2002, n. 4951, in Giust. civ., 2002, I, 1513; Cass., sez. lav., 7.1.2002, n. 89, ivi, 2003, I, 524.
(33) In tal senso De Falco, A. Messineo e F. Messineo, Mobbing, diagnosi, prevenzione e tutela legale, cit., 77; contra, Tullini, Mobbing e rapporto di lavoro, cit., 260, che ritiene superfluo il richiamo all'art. 2049 c.c. per la repressione del fenomeno del mobbing «poiché i comportamenti e gli atti illeciti interessano comunque lo svolgimento del rapporto di lavoro e rifluiscono inevitabilmente nell'area dell'inadempimento contrattuale».
(34) Sul tema dello stalking si rinvia a Curci, Galeazzi e Secchi, La sindrome delle molestie assillanti (stalking), Bollati, Boringhieri, 2003; Aramini, Lo stalking, aspetti psicologici e fenomenologici, in Gullotta e Pezzati, "Sessualità, diritto, processo", Milano, 2002, 495-539; Mascia e Oddi, Storie di ordinaria persecuzione, Modena, 2005; Mercuri, Lo stalking, ovvero la sindrome del molestatore assillante, in Il consulente familiare, I, 2004, 17; Ege, Oltre il mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, cit., 101 ss.; La persecuzione psicologica sul posto di lavoro: Stress, Mobbing, Stalking, Straining, a cura di Prima Associazione Italiana contro Mobbing e Stress Psicosociale, Bologna, 2004. In common law cfr. Meloy, The Psycology of Stalking: clinical and Forensic Perspectives, San Diego u.a., 1998, che definisce lo stalking «persecuzione e molestia voluta, ripetuta e malintenzionata, perpetrata nei confronti di una persona che sente così minacciata la sua sicurezza personale».
(35) Tale definizione è mutuata da Curci, Galeazzi e Secchi, La sindrome delle molestie assillanti (stalking), cit.; Cfr. Mercuri, Lo stalking, ovvero la sindrome del molestatore assillante, cit., 22.
(36) In tali termini, Bona, "Stalking": una nuova cornice giuridica per i molestatori insistenti, in Danno e resp., 11, 2004, 1050.
(37) Bona, "Stalking": una nuova cornice giuridica per i molestatori insistenti, cit., 1050.
(38) V. "Model AntiStalking Law" U.S. Department of Justice, 1998, in The Third Annual Report to Congress under the Violence against Women, che indica tra le condotte di stalking comportamenti che comprendano avvicinamento fisico ripetuto e/o minacce continue che si siano verificate almeno due volte. La legislazione italiana si attesta su tale soluzione, in relazione al reato di molestia o disturbo alle persone previsto dall'art. 660 c.p.: «Chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda fino a 516,00 euro». V. Cass. pen., 28.1.1992, che afferma la sussistenza del reato di cui all'art. 660 c.p. in caso di «continuo, insistente, corteggiamento, chiaramente non gradito, di una donna, che si estrinsechi in ripetuti pedinamenti e in continue telefonate»; Cass. pen., 25.1.1978, che ammette la ricorrenza del reato nei casi di «condotta insistente e petulante, idonea a turbare in modo apprezzabile le normali condizioni nelle quali si svolge la vita della persona molestata». Si rinvia, inoltre, alla proposta di legge n. 4891 C. presentata l'8.4.2004 contenente "Disposizioni per la tutela delle molestie insistenti" che nel proporre "il delitto di molestia insistente" colloca la fattispecie a livello intermedio tra il meno grave reato di molestia o disturbo alle persone di cui all'art. 660 c.p. e il più grave reato di violenza privata di cui all'art. 610 c.p. Nel Progetto si legge «[...] non si conclude in un solo evento di evidente gravità, ma incide in modo continuato e subdolo nell'esistenza della persona con eventi di per sé non evidentemente gravi ma che con il protrarsi della condotta creano destabilizzazione psicologica ben maggiore della molestia».
(39) In tal senso Ege, Oltre il mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, cit., 119 secondo cui la persecuzione deve essere in corso da almeno tre mesi.
(40) Ege, Oltre il mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, cit., 121 indica tra le azioni di stalking: telefonate, appostamenti e movimenti nei pressi dell'abitazione della vittima, lettere, e-mail, contatti tramite terze persone, sms, invio di regali, messaggi lasciati sulla porta di casa, sull'auto, invio di fax, intrusioni in casa, controlli, monitoraggio del programma giornaliero della vittima, contatti sul posto di lavoro, molestie varie a distanza, invio di oggetti tesi a spaventare.
(41) Cfr. Protection from Harassment Act noto come "Stalker's Act" adottato nel Regno Unito nel 1997 per definire in modo puntuale i contenuti dello stalking che impiega il più generico termine di "harassment" inquadrando alternativamente lo stalking come tort da Invasion of Privacy, o come tort da Intentional or Reckless infliction of Emotional Distress.
(42) V. G.d.P. Bari, 7.6.2005, in Riv. Internet, 2005, 573, con nota di Riccio: «La posta elettronica personalizzata inviata ad un giornalista sul computer aziendale deve ritenersi equiparata alla corrispondenza privata. I membri della redazione possono accedere alla casella di posta elettronica solo a seguito di autorizzazione del titolare. Non può considerarsi legittima la mancata adozione da parte dell'editore delle misure minime atte a garantirne l'inaccessibilità».
(43) Cfr. Newsletter del 16.2.2003, in www.garanteprivacy.it: «La circostanza che l'indirizzo e-mail sia conoscibile di fatto, anche momentaneamente, da una pluralità di soggetti non lo rende, infatti, liberamente utilizzabile e non autorizza comunque, l'invio di informazioni, di qualunque genere, anche se non specificamente a carattere commerciale o promozionale, senza un preventivo consenso»; G.d.P. Napoli, 10.6.2004, in Resp. civ. e prev., 4-5, 2004, 1146 ss.: «In caso di invio illegittimo di posta elettronica non sollecitata, spetta al danneggiato il risarcimento del danno patrimoniale ex art. 2043 c.c. (tenuto conto del diverso tempo impiegato per mantenere un collegamento e per ricevere, come pur per esaminare e selezionare, tra i diversi messaggi ricevuti, quelli attesi o ricevibili, nonché a sostenere i relativi costi per il collegamento telefonico - incrementati anche da messaggi di dimensioni rilevanti che rallentano tali operazioni -) e del danno non patrimoniale (tenuto conto del danno alla vita di relazione e del danno esistenziale conseguente alla lesione e turbamento alla qualità della vita del destinatario)».
(44) V. Comunicato stampa, 7.7.2001, "Controllo delle e-mail dei lavoratori", in www.garanteprivacy.it.
(45) In tal senso Cirillo, Il codice sulla protezione dei dati personali, Milano, 2004, 431.
(46) V. Comunicato stampa, 14.2.2006, "Illecito spiare il contenuto della navigazione in internet del dipendente", in www.garanteprivacy.it.
(47) In tali termini, Bona, "Stalking": una nuova cornice giuridica per i molestatori insistenti, cit., 1055, che prospetta tale soluzione in linea con le esperienze giuridiche straniere. Cfr., Protection from Harassment Act che non ritiene necessaria la prova dell'intenzionalità della condotta ritenendo sufficiente che il danneggiato provi, secondo il modello della "resonable person", che l'autore delle molestie stesse attuando un comportamento tale da costituire una forma di "harassment".
(48) Si rinvia in particolare a Trib. Milano, 15.3.2001, e Trib. Torino, 23.2.2004, n. 1026, commentate in Bona, Stalking: una nuova cornice giuridica per i molestatori insistenti, cit., 1054.
(49) Così "Stalking": una nuova cornice giuridica per i molestatori insistenti, cit., 1054.
(50) Dal verbo inglese to strain, tradotto letteralmente come tendere, distorcere, stringere, mettere sotto pressione; usato anche in senso figurato in riferimento ad una persona "strained", stressata, stranita, sotto pressione.
(51) In questi termini, Ege, Oltre il mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, cit., 70, che individua sette parametri tassativi di riconoscimento dello stalking: 1) ambiente lavorativo 2) frequenza 3) durata 4) tipo di azioni 5) dislivello tra antagonisti 6) andamento secondo fasi successive 7) intento persecutorio.
(52) Trib. Bergamo, 20.6.2005, in Foro it., 2005, I, 3356: «Il demansionamento di una dipendente protrattosi per lungo tempo, ma non accompagnato da altri comportamenti ostili, configura condotta di "straining" e non di mobbing, fonte del diritto della lavoratrice di ottenere il risarcimento del danno alla professionalità, del danno biologico e del danno morale». Il caso riguardava una dipendente di un'azienda che formalmente assegnata a mansioni di "analista sistemista" era stata, in realtà, completamente privata delle proprie mansioni, collocata in un ripostiglio, con mobili in disuso, senza p.c. e telefono, senza contatti con il personale, stante il divieto ricevuto in tal senso.
(53) Di contrario avviso Trib. Marsala, 5.11.2004, in Foro it., 2005, I, 3356, secondo cui la condotta illecita mobbizzante può consistere anche in un solo comportamento.
(54) Cfr. Ege, Oltre il mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, cit., 73 che ritiene necessario che la vittima percepisca negativamente, con disagio psicologico e psicofisico, con senso di frustrazione, o con modificazione del proprio comportamento sino alla comparsa di vere e proprie manifestazioni depressive lo svuotamento delle mansioni, l'inattività forzata, la privazione di strumenti di lavoro, ecc., chiarendo che ove la vittima non risenta del cambiamento a livello lavorativo e pratico cui è sottoposta, non possa parlarsi di straining.
(55) V. Trib. Bergamo, 20.6.2005, cit.: «In particolare, il dott. Ege ha escluso che la situazione della ricorrente sia stata scandita attraverso fasi successive, in quanto il conflitto, dopo il cambiamento di mansioni e l'isolamento, si è mantenuto sullo stesso livello (v. relazione c.t.u.)».